Buchi neri

[Racconto già pubblicato su Specularia Dicarta numero uno]

Un fanciullo di undici o dodici anni, che era stato intravisto alcuni anni prima nei boschi di La Caune, interamente nudo, intento a cercare ghiande e radici di cui si nutriva, fu incontrato in quegli stessi luoghi, verso la fine dell’anno VII, da tre cacciatori che si impadronirono di lui mentre si arrampicava su un albero per sottrarsi al loro inseguimento.”

Jean Marc Gaspard Itard, 1801-1806

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Sono bellissimo. Ho le mani piccole, i piedi piccoli. Ho i calzini con gli orsetti. Ho gli occhi blu. Sono su un cuscino arancione. Ci sono le bolle e faccio il bagno. Ho la cioccolata sulla bocca, mangio un gelato grande. Sono sulla spiaggia con la paletta. Bevo il latte dalla mamma. Sono in mezzo ai fiori, in piscina, sul lettino dei pannolini, sono in cucina, davanti al frigorifero, sullo scivolo, con un gatto, con una bambina che non so chi è, sono nudo nel mare, sono arrabbiato, rido, piango, bevo l’acqua da un bicchiere. Guardo i pesci. Sono uno, due, sono tanti, sono 3 5 7 2 io.

«Amoreeee, guarda qui, guarda qui, amoreeeee. Giangi, guarda qua!»

«Fagli fare quella cosa con la lingua, fagliela fare.»

«Amore, fai prrr, fai prrr amore, fai prrr.»

Guardo i buchi neri che loro tengono in mano e faccio come dicono, guardo lì, faccio prrr con la lingua di fuori, faccio prrr.

«No, non così, non sono riuscito a prenderlo bene, non così.»

«Amoreeee, fallo di nuovo amore, fallo di nuovo.»

Sono bravo. Faccio come dicono, tiro fuori la lingua come dicono, faccio prrr, lo faccio di nuovo.

«No, devi tenerlo, devi prenderlo in braccio e tirarlo su.»

«Ma non voglio che mi si veda in questa.»

«Tienilo di lato allora, prendilo su e tienilo davanti all’acquario. Ti faccio vedere.»

Due mani mi prendono in braccio, sono le mani di mio papà. Le mani di mio papà sanno di pane e dentifricio, le mani di mio papà sono grandi. Mi stanno attorno alla pancia.

«Vedi, così, tienilo così, come faccio io.»

«Passamelo.»

Altre due mani mi prendono su, sono le mani di mia mamma. Hanno due anelli che conosco, hanno le unghie rosse. Le mani di mia mamma sanno di un profumo solo suo.

«Così? Amore guarda lo smalleye di papà, amoreeee.»

«Girati un po’ a sinistra.»

«Bravo amore, guarda lì, fai prrr, fai prrr di nuovo dai, fai prrr papà.»

«Ecco, ci siamo, un pelo più su. Tienilo fermo.»

Ci provo tanto. Ho mal di pancia. Tiro fuori la lingua, guardo i buchi neri e faccio prrr come vogliono.

«Ma che faccia fa.»

«Perché? Che faccia fa? Amoreeee.»

«Oh cazzo no.»

«Cosa.»

«Cazzo no, si è cacato addosso. Cazzo è venuto anche nella foto. È marrone di lato, vedi? Ma glielo avevi messo il pannolino?»

«Merda, sì che gliel’ho messo. Merda, ora lo sento. Che puzza. Ma l’hai scattata lo stesso?»

«Sì, è qui. Si vede tutto.»

Ho mal di pancia, ho caldo, mi sono fatto la cacca addosso. Appiccica, puzza, mi scende sulle gambe. Mi viene da piangere.

«Fa’ vedere. Nooooo. Noooo. Voglio dire, che cazzo! Fa ridere però. Teniamola. Guarda che faccia.»

«Aspetta, gli faccio anche un video.»

«Si sta mettendo a piangere.»

«Corto, glielo faccio corto. Fallo guadare lo smalleye»

I buchi neri mi vengono vicini, mi vengono attaccati alla faccia. Stanno fermi davanti a me. Io piango, sono tutto sporco di cacca. Appiccico tutto. Sono tutto caldo e puzzo della mia cacca.

«L’hai postato?»

«Non ancora.»

«Fammi vedere, prima.»

«Piange, lo vai a cambiare?»

«Perché sempre io?»

«Dai io lo carico e tu lo vai a cambiare. Così lo carico subito.»

Mi mettono sul lettino dei pannoloni. La mamma mi fa il solletico con le dita che sono fredde. Mi tira su. Ho le salviette sulle gambe, sulla pancia. Apre l’acqua del bagno, ci versa dentro il sapone. Sa di fragola da morsicare. La mamma mi ci mette dentro piano. L’acqua è calda.

«Ehi, vieni qui! Lo sto lavando nella vasca.»

«Perché?»

«Era troppo sporco.»

«Eccomi. Dai, ma gli hai fatto le bolle! È bellissimo.»

«Sì, dagli la paperella. Ti ricordi quando gliene abbiamo scattata una con la paperella?»

«Sì, quella era piaciuta un sacco.»

Papà mi mette in mano la paperella di plastica. Non mi interessa e la lascio cadere giù.

«Prendila, papà.»

«Amoreee, prendi la paperella. Strizza la paperella.»

Me la rimette in mano, la faccio cadere di nuovo.

«Oh, ma è stronzo.»

«Ssssh… dai. Poverino.»

«Predi la paperella e guarda qua, prendi la paperella.»

«Amoreee, prendi la paperella. Che bella, bella paperella. Guarda qui. Prendi la paperella, guarda qui.»

Faccio come dicono, la prendo, la tengo nella mano. Guardo i buchi neri che mi mettono davanti alla faccia e sto fermo così.

«Sorridi, papà, bravo papà.»

«Sorridi amore. Stringi la paperella e fai ciao, ciao amore, ciao, sorridi, amore.»

«Come sei bello quando sorridi, amore.»

«Sei bellissimo, amore, quando sorridi a papà. Bravo.»

Sono contento perché mi sorridono, sono bravo. È così che devo fare, sono bravo. È così.

«Che fa adesso.»

«Niente, che fa.»

«Ha cambiato espressione. Ne volevo fare un altro.»

«Amoreee, fai come prima. Fai come prima, amoreee.»

Non capisco. Cosa devo fare?

«Ora sembra incazzato. Guardalo.»

«Ma no, magari deve andare in bagno.»

«Ancora? Hai messo al mondo un cacone.»

«Abbiamo messo al mondo.»

Mi viene da piangere. L’acqua è un pochino fredda e sono tutto bagnato. Devo fare pipì.

«Che fa, piscia?»

«Ma no, non sta pisciando.»

«Guarda, sta diventando gialla. Che schifo, però. Di nuovo!»

«Puoi riprenderlo.»

«Poi penseranno che abbiamo messo al mondo una specie di animale che caca e piscia tutto il tempo.»

La mamma mi passa sopra la spugna, apre ancora l’acqua, mi ci fa passare sotto tutto, e poi ancora.

«Dai, deve mangiare. Lo rivesto.»

«Aspetta, così è bellissimo. Così. Tienilo un attimo nudo così.»

«Avrà freddo, dai.»

«Un attimo. Fallo vedere verso lo smalleye.»

Sono qui, nudo, ho freddo. Fisso i buchi neri che mi prendono. Sto fermo, fermo fermo, così.

«Oh, sono già arrivati i commenti. “Che merda tuo figlio”. Chi è sto stronzo?»

I buchi neri girano nella stanza. I buchi neri prendono ogni cosa. Succhiano il piatto con la pasta che fuma, il formaggio sopra, le crosticine. I buchi vogliono le forchette, i coltelli, i tovaglioli. La tovaglia gli piace, la prendono tante volte perché ci sono i fiori, i bicchieri alti con il gambo. Noi quando siamo al mare, quando siamo in montagna, quando siamo a casa davanti all’albero di Natale. I buchi ci sono sempre, mamma e papà li portano da tutte le parti. La mamma li fa andare sulla sua faccia, sulle sue guance, sul naso. Vanno sulla sua bocca con il burro cacao. Ne mordono un po’, gli piace. Vanno sui suoi capelli lunghi, lisci come un disegno, vanno sugli occhi della mamma. Poi tornano da me.

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Sono sul divano, nella stanza c’è puzza. Hanno bruciato le cose da mangiare. Ho fame. Scendo dai cuscini per aprire l’armadio perché qui ci sono la cioccolata e i jimbcake. Sento delle voci, di là. Hanno i buchi nuovi. Li guardano nello specchio da quando sono tornati dal negozio.

«Aspetta che vedo se riesco a farlo funzionare.»

«Sì ma non si fa così, te l’ho detto.»

«Amoreee… »

«Ehi ma che sta facendo?»

La mamma mi prende in braccio.

Ora non hanno niente in mano.

Dico: «Ho fame.»

«Troppo forte, troppo forte. Aspetta digli di ridirlo girato verso di me. Come se non gli dessimo mai da mangiare comunque… è tipo una palla di lardo.»

«Oh senti, guarda che capisce. Non lo offendere.»

«È come quel bambino, come si chiama. Quello che fa il balletto della pappa. Lo hanno visto tutti. Ho scritto al padre che gli do cinque euro se gli fa mangiare cinque gelati di fila.»

Dico ancora: «Ho fame.»

«Guarda che non è grasso. È come la figlia di WhiteColors.»

«Chi?»

«Quella che fa le dirette sulle cheesecake. Ha una figlia bellissima. Candy si chiama. Ce l’ha sempre con sé. E non è più grassa di Giangi.»

«Si vede che i bambini grassi vanno. Fammelo vedere comunque. Così faccio una prova. Mettimelo dritto bene. Me lo stai coprendo.»

«Ho fame.»

Mio padre ride. Mi riprende. Hanno i buchi neri nella faccia, ce li hanno sulla fronte.

«Nooooo ficata viene da dio con gli smalleye incorporati….»

«Sì, è pazzesco.»

«Cioè è come se lo vedo… nel cervello. Sì, è pazzesco. È come se mi si sdoppia il cervello.»

«Da una parte vede lo smalleye dall’altra vedi tu.»

«Pazzesco, non ti saprei nemmeno dire qual è lo smalleye dei due.»

«Sì, se ci fai caso c’è un’immagine un pochino più luminosa. La parte che vedi più chiara è quella ripresa dallo smalleye.»

«Papà. Avete i buchi nella faccia.»

«È vero, ora me ne sto accorgendo, è leggermente più chiara.»

«È come avere un filtro che imbellisce il mondo.»

«Non mangiamo?»

Mia mamma mi dà un bacio sulla testa. Il buco nero mi viene vicinissimo mentre lo fa.

«Ma sì certo amore. Senti puoi ordinare le pizze? Qua si è bruciato tutto.»

«Oh c’era questo cane, un chihuahua. Gli hanno fatto ingoiare una pizza intera poi ha vomitato tutto. Te lo faccio vedere.»

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Cammino per casa. Non sento le voci dei miei genitori. Passo in corridoio e poi in salotto.

«Dove siete?»

Da solo nella mia stanza non avevo niente da fare. E loro non mi guardavano.

«Eccoti amore! Dov’eri?»

«Qui.»

La mamma mi prende in braccio.

«Ouf! Sei diventato bello pesante, eh?»

«Tirami un po’ più su.»

Ora vedo bene che brilla. Mi viene da starci vicino. Da accarezzarlo.

«Amore, no, che fai.»

Lo voglio sentire sotto il dito.

«No, ho detto.»

Lei cerca di spostarmi ma io riesco a toccarlo. È liscio.

«Cazzo, di nuovo. Allora ora scendi!»

Mi lascia cadere giù, sul pavimento.

«Oh cazzo, è appannato.»

Mi fanno male un piede, una gamba e il sedere. Mi viene da piangere.

«Che succede?»

Vedo le gambe di papà senza i pantaloni. Le sue gambe piene di peli e le mutande.

«Ohi, Giangi che hai fatto?»

Mi tocca, io piango più forte. Vorrei che mi prende in braccio ma non lo fa.

«Cazzo è successo?»

I buchi neri sono molto più su. Non ci arrivo.

«Mi ha toccato lo smalleye!»

«Cosa?»

«Ci ha messo un dito sopra!»

Continuo a piangere.

«Ma è scemo?»

Papà si gira verso di me: «Basta piangere!»

«Dai, è un bambino… però ci vedo appannato, cazzo.»

«Sì, ma non è più così piccolo! Gliel’abbiamo detto che non deve farlo. Fa’ vedere.»

Papà sta sulle punte dei piedi per guardare da vicino. Smetto di piangere, vorrei andare lassù anche io.

«Sì, si vede una specie di alone.»

«Ma non c’è qualcosa per pulirlo? Mi ricordo che nella scatola c’era…»

«Sì, c’è, aspetta, vado a cercarlo.»

«Ok grazie.»

Sento che il buco nero che ha in fronte la mamma mi guarda per prendermi. È bellissimo e smetto di piangere. Lo guardo anche io.

Ciao.

Il buco ha la voce come quella della mamma ma più bella. Penso che è una femmina.

Alzo le mani verso la mamma: «Mi prendi su?»

«No, amore, adesso no, guarda cosa hai fatto. Poi pesi un casino ormai.»

«Mi fai una foto?»

«È tutto appannato!»

«Dopo. Dopo me la fai?»

Papà ritorna con un piccolissimo fazzoletto grigio.

«Dai, mi fate una foto?»

Li voglio. Li voglio vicini, aspetto che tornano a guardare me.

«E va bene! Guarda qui. Bravissimo, così.»

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È notte, non dormo. Voglio averli con me, mi mancano. Perché io devo stare qui da solo? Scendo dal letto e vado nella loro stanza. Dormono, non ci sono rumori, sento solo il papà che russa. La stanza ha un odore che non mi piace, di piedi e capelli. La mamma si gira tra le coperte.

Devo fare pianissimo. C’è un cuscino per terra. Lo prendo e lo sposto vicino al loro letto, ci salgo su. Rimango sul lato dove dorme la mamma senza toccarla sennò vede che sono qui. Ha la faccia verso l’alto e io così lavedo. Brilla, anche se nella stanza è tutto buio. Ci guardo bene dentro e so che mi guarda anche lei. So che mi voleva. Allungo la mano e la accarezzo.

«Aaaaah!»

«Cosa?»

«Giangi è qua! E l’ha fatto di nuovo, mi ci ha messo il dito sopra!»

Si accende la luce.

«Giangi, ma cazzo fai.»

Mio padre si alza dal letto, mi viene contro, mi spinge forte.

«Non ho fatto niente!»

«Ma sei stupido?»

Mi butta giù, sul pavimento. Non capisco perché fa così.

«Quante volte te lo dobbiamo dire?»

Mi viene da piangere, sento la faccia caldissima.

«Ora te ne vai in camera.»

«Aspetta amore, lo sto riprendendo. Poi ci metto la musica triste sotto. Vanno tantissimo. Tipo quelli con i giocattoli rotti, hai presente? Oh no, è appannato.»

«Senti, lo porto di là.»

Mi trascina nella casa buia. Mi spinge dentro la mia stanza e prende la chiave. Io guardo solo lui, il buco nero sulla sua fronte che mi dice: Va tutto bene.

«Giù le mani dagli…»

A papà gli cambia la voce, diventa strana come se la sento poco.

«Ohi, mi stai…»

È come se va lontano anche se in realtà resta qui.

«Mi stai ascoltando

«Devi mettere giù le mani dagli smalleye, hai capito Giangi?»

Sbatte la porta e la chiude a chiave da fuori.

Ci sono potuto stare vicino pochissimo tempo. Lui non capisce niente. Non capisce che mi mancano, che con loro sto bene. Lui e anche lei, tutti e due, non capiscono. Loro non capiscono niente.

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«Amoreee ci fai sentire come suoni? Papà ti fa il video.»

«Giangi. Guarda qua.»

Metto le dita sui tasti. Faccio quello che mi hanno insegnato ma penso solo a loro. Sono verso di me. Luccicano, si aprono e si chiudono ma pochissimo che quasi non te ne accorgi. Ma io me ne accorgo. Mi piace stare così con loro.

«No, aspetta, amore. Non era così. Quella che hai fatto ieri.»

«La rifai? Dobbiamo caricare quella di ieri.»

Faccio come dicono.

«Cazzo, non era quella! Non era quella! Ma ci sei?»

«Quella di ieri, amore. Guarda qui e rifalla.»

Cambio canzone. Loro mi guardano, sono bellissimi, sono perfetti. Mi vogliono prendere con loro. Ogni volta che siamo vicini mi sento felice.

«La luce fa cacare. E gli veniva meglio ieri.»

«Ma ormai ho detto a tutti che lo caricavo! Dai, che lo vogliono vedere. Se lo fai, amore, mamma ti dà… ti dà… un jimbcake, ok?»

Lo faccio così restano qui, a guardarmi, restano con me. Io guardo solo loro.

«Guarda. Non è venuto male.»

«A me non piace. Caricalo tu.»

«Come vuoi.»

«Allora io carico qualcos’altro. Cosa gli posso far fare?»

«Boh. Il giochetto della maglietta?»

«Un po’ triste ma… se non ti viene in mente nient’altro.»

Non metto la mano verso di loro, non cerco di accarezzarli anche se voglio. Lo so che se lo faccio vanno via. Devo tenerli qui.

«Cosa devo fare?»

«Ascolta papà. Metti in bocca questo poi dimmi: ciao papà.»

«Bravo così. Guarda lo smalleye che viene benissimo.»

«Lo prendo in braccio? Così te lo tengo su.»

Luccicano mentre mi guardano.

Finalmente sei da noi. Finalmente, ti aspettavamo.

«Ora devi dire: ciao papà.»

«Ciao papà.»

Grazie per questo sorriso. Ci manca il tuo sorriso quando non lo vediamo, lo sai?

«Anche voi.»

«Cosa? Anche voi? Noi non dobbiamo dire “ciao papà”.»

«Boh comunque l’ho ripreso. Scommettiamo che questo lo vedono e lo commentano più della tua canzonetta.»

«Ormai Giangi da me è una star. Quasi come Candy.»

«Sì, con qualche zero di differenza.»

«Ma perché quella è una femmina. La puoi vestire, la puoi fare ballare. Aveva un vestitino l’altro giorno, una piccola minigonna, un velo di trucco. Da bambini, eh. Ma così carina! Faceva la spesa con la minigonna, era carinissima. L’hanno vista tutti. Vorrei una bambina così.»

Guarda che bella luce che c’è oggi. Ci entra dentro, questa luce, la assorbiamo tutta. Ci mostra il tuo viso ancora più chiaramente. E noi siamo felici.

«Invece abbiamo Giangi. Comunque rispetto agli altri, sa fare poche cose interessanti. Vero, papà? Vai a fare i compiti, va’.»

Qualcuno mi prende un braccio.

«Ahi! Cazzo! Ahia!»

«Ti ha morso?»

«Ma che cazzo hai in testa? Giangi, mi senti?»

Mi stringono un braccio.

«Ohi, parliamo con te! Ci senti?»

Mi bloccano.

Abbiamo bisogno di averti vicino.

Lotto finché non mi posso avvicinare di nuovo.

«Perché fa così?»

«Tuo figlio è pazzo.»

«È anche tuo figlio.»

«Me lo chiedo sempre più spesso.»

Non li vedo bene.

«Cosa sta… Non… Non ci vedo.»

«Eh?»

«La testa. Mi sta esplodendo.»

«Ehi. Cosa cazzo…»

Cade a terra e io anche. È pesante, mi schiaccia.

Mi gira la testa. Li cerco. Papà è ancora in alto, molto più in alto di me. La mamma brilla per un pochino poi diventa strana, si spegne. Esce fuori una cosa bianca che puzza.

«Stefania!»

Fuma, esce il fumo fuori, escono dei flash.

«Stefania, ohi, Stefania! Stai bene, oh cazzo, oh merda…»

Non sopporto di vederla così, non lo sopporto. Scoppio a piangere.

«Aiuto! È lo smalleye di mia moglie, non so cosa è successo, lei non si alza da terra. Respira? Non lo so se respira, è tipo uscito del fumo. No, non lo so. Venite qui, cazzo.»

Cerco papà ma va avanti e indietro nella stanza e non riusciamo a guardarci.

Torna da me, non voglio andare via da…

Sento male in tutto il corpo. Sento male.

«È successo di colpo. No, non lo so perché. Fate presto, fate presto, cazzo, vi prego.»

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Sono a casa da solo. Guardo la vasca, i pesci che vanno avanti e indietro nell’acqua. Loro non ci sono.

Qualcuno apre la porta. Ne vedo solo uno, è in alto, è il papà. Non sta fermo, non mi guarda.

Lo seguo, voglio vederlo vicino, parlarci.

«Sono qui!»

Finalmente mi vede, punta qui.

Eccoti.

«Ascolta, Giangi. Mi senti? Ehi. Voglio che mi guardi.»

Mi tirano un braccio.

Sono qui. Resta con me.

«Voglio che mi ascolti, ehi? Ce la fai ad ascoltare?»

È di nuovo qui. Di nuovo qui con me.

«Sì. Resto con te.»

«E va bene. Senti, sono molto stanco. La mamma è di là. Hanno dovuto rimuoverglielo. Aveva fatto… non lo so, c’era qualcosa che non andava e visto che… sì insomma, i medici hanno pensato che fosse meglio così.»

L’hanno spostata. Hanno staccato la mamma.

«No! Perché?»

«Te l’ho appena detto. Ci sei? Ascoltami, cazzo. Non farmi ripetere. C’è stato un problema… quella roba bianca che usciva, l’hai vista anche tu. Glielo reincorporeranno appena starà meglio. Per ora gliel’hanno tolto.»

«Dov’è?»

Fatti portare da lei.

«È di là ma… senti, è molto stanca, forse non è il caso.»

Non voglio lasciare qui papà ma devo vedere dove hanno messo la mamma.

«Mi accompagni?»

«Non è il caso… forse non… cazzo.»

«Mi accompagni? Mi accompagni, ti prego? Devo vederla! Devo vederla!»

Ti sta aspettando.

«Va bene ok, solo un minuto. Ma non facciamo rumore, ok? Hanno detto che deve riposare.»

Io e papà andiamo di là, a trovare la mamma. Lui mi guarda da sopra.

«Ciao… ehi, amore. Non preoccuparti, sto bene.»

Sono quaggiù.

Mi guardo intorno, eccola, sul comodino. Vado da lei.

«Ehi, Giangi… Dove vai?»

«No, aspetta, fermati! Lascia stare lo smalleye della mamma! Lascialo!»

Mi hanno riportata da te, hai visto? Stringimi forte. Forte, così.

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Odio la scuola. Perché loro sono lontani. C’è un bambino alla mia destra e uno alla mia sinistra. Mi parlano, mi dicono delle cose e non capisco cosa vogliono da me. Faccio quello che il maestro mi dice ma non ci guadagno niente.

«Fate l’operazione e poi trasmettetemela. Senza copiare.»

Lui corregge e mette il voto. Poi dice “Mandatelo a casa. Dai vostri genitori.” Ma i miei genitori non mi parlano da qui. Non li posso sentire. Lo smalleye che ho al polso è inutile.

Suona la campanella. Tutti si alzano di corsa.

«Ehi, Gian, vieni a giocare?»

«A cosa?»

«Andiamo fuori, vieni.»

Vanno fuori, ci sono dei giochi, uno scivolo. Un giardino.

«Tu non vai a giocare con gli altri? Guarda, ti chiamano.»

«No.»

C’è un bambino di un’altra classe. Ha un buco nero in mezzo alla testa. Non decorporato come quelli di tutti gli altri bambini. Vado da lui.

«Posso toccare?»

Lui mi dice: «No.»

Mi avvicino.

«Come ti chiami?»

«Marco. Cosa vuoi?»

Si sposta.

«Me lo fai toccare? Mi serve. Voglio vedere se posso parlare con loro. Il mio non serve a niente.»

Il bambino cerca di correre via. Ma io lo tengo fermo. Glielo tocco. Ci metto il dito sopra. Non sento niente. Il bambino urla. Premo più forte.

Dico: «Dove siete? Venite a prendermi.»

Il maestro arriva e mi stacca da lui.

«Gianluca, sei impazzito?»

Il bambino piange.

«Che ti prende? Ehi, mi senti?»

Il bambino continua a strillare.

Guardo il maestro.

«Fatemi tornare a casa. Ti prego. Per favore.»

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«State così, state fermi, belli, bravi!»

«Stefy, che faccia buffa fa tuo figlio?»

«Ieri abbiamo ripostato dei vecchi video di quando era piccolo. Li hai visti? Si faceva la cacca addosso di continuo. Anche la pipì. Guarda! Guarda questo.»

Sono seduto su un castello finto. C’è Luca di fianco a me.

«Gian, scendiamo dal castello!»

Non gli rispondo.

«Dai scendiamoooo!»

«È un gioco da bambini piccoli. Ci hanno messi qui solo perché viene bene nelle foto. Se scendo poi mi fanno risalire di nuovo.»

«Uno scivolo è fatto per scivolarci.»

«Aspetta, Luca, dove vai? Aspetta, fermo, devo farne un’altra con Gianluca, sorridete, così bravi!»

Amore, torna qui.

«Sì.»

«Cosa?»

Mi sistemo in cima allo scivolo.

«Ehi, perché adesso hai deciso di scendere? Sei scemo?»

Non gli rispondo. La sua voce è così bassa rispetto a quella di mia mamma che mi chiama.

«Ehi, amore, cosa c’è? Sì, vieni qui dalla mamma, vieni in braccio. Fai la linguaccia, eddai, fai la linguaccia, bravo.»

Finalmente.

«Che bambino affettuoso! Luca non me le fa più le coccole.»

«Amore, togli il dito dallo smalleye, lo sai. Lo sai, lo sai. Leva il dito!»

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Non riesco a stare fermo, non so cosa fare. È come avere qualcosa che mi morde la pancia. Aspetto che tornano.

Quando aprono la porta hanno dei sacchetti del negozio e dei cerotti sulla fronte. Si siedono sul divano e li aprono subito, dentro ci sono delle scatole bianche.

«Sono super… rispetto al vecchio modello…»

«Li adoro.»

Non vedo mamma e papà.

«Hai preso appuntamento alla clinica?»

«Mh?»

Non li vedo. Dove sono. Dove sono. Dove sono.

«Dove sono?»

«Per incorporarli.»

«Sì. Domattina, alle dieci.»

«Dove sono?»

«Giangi, cosa c’è?»

Tremo.

«Vuole quelli vecchi, ci si è fissato.»

«No ma amoreeee… te ne compriamo uno nuovo tutto per te! La prossima settimana, per il tuo compleanno!»

Mi si secca la bocca. Un vuoto gigantesco mi risucchia da dentro. La gola, il petto, la pancia.

«Ohi, ma che hai, tirati su!»

«Dove li avete portati?»

È come cadere all’infinito.

«Dove sono! Io li voglio! Adesso!»

Ho caldo, sono bollente. Li spingo lontano.

«Fateli tornare da me!»

Butto tutto giù, tutto per terra. Le cornici, i soprammobili, le candele, le tazze.

«No, fermo! Cosa fai? Rompi tutto!»

«Fermalo, ti prego. Merda!»

Io gli spacco tutte le inutili cose che ci sono in casa. Io li odio.

«Non potete portarmeli via!»

«Sono qui, sono qui. Eccoli. Che cazzo. Che disastro.»

«Tieni. Tieni, Giangi. Ti prego, basta ora.»

Mi danno una scatola. La apro.

Eccoli. Sono di nuovo da me.

Mentre cammino pesto vetri, pezzi di tazze, di piatti che scricchiolano sotto ai piedi.

«Ma cosa gli è preso…»

Non lasciarci mai più.

76933

Quante ne abbiamo passate insieme, amore.

Sei sempre stato bellissimo.

I tuoi boccoli biondi. I tuoi occhioni azzurri.

Abbiamo infiniti momenti con te dentro di noi. Le tue mani piccole, i piedi piccoli, come quelli di un bambolotto. Ricordi quei calzini con gli orsetti?

In ogni momento siamo stati con te.

Sei sdraiato su un cuscino arancione.

Sei tra le bolle della vasca da bagno.

Hai un baffo di cioccolato sulla bocca.

Sei sulla spiaggia con la paletta.

Stai mangiando.

Sei in mezzo ai fiori, in piscina, sul lettino dei pannolini, sei in cucina, davanti al frigo, sullo scivolo, con il gatto della vicina, con una bambina che non conosci, sei nudo nel mare, sei arrabbiato, ridi, piangi, bevi dell’acqua da un bicchiere. Guardi l’acquario. E questo era soltanto quando eri piccolo. Ora sai suonare e fare altre cose. E sei sempre tu, sempre bellissimo. Tutto quello che ci riempie sei tu.

Cento, mille, 76933 volte noi ti prendiamo e tu ci riempi.

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«Giangi, amore, finalmente sei uscito dalla tua stanza!»

Quelli della scuola hanno organizzato una festa.

«Oh, ma che pantaloni ti sei messo? Sono quelli del pigiama?»

Mi hanno detto che o ci andavo o me li portavano via. Che sono un antisociale, che devo farmi degli amici.

«Alla fine hai deciso di andare! Siamo molto, molto felici!»

Mi metto la giacca e li copro.

«Finalmente si fa una vita sociale… Comunque è strano.»

«Mh?»

«Guarda come si è vestito. Ehi, vieni qui. Fatti fare una foto.»

«Giangi, perché non ti metti quei jeans carini che ti ha comprato papà?»

Il loro continuo bisbigliare mi dà fastidio. Esco.

Non pensavo che ci fosse così freddo. Mi dà dieci minuti a piedi per raggiungere casa di Sara. Ora che non posso sollevare le maniche, le visuali di mamma e papà sono solo l’interno scuro della mia giacca.

«Siete al buio. Mi dispiace.»

Fa lo stesso, tesoro.

Possiamo cambiare posizione nei prossimi giorni, non preoccuparti.

«Non ci avevo proprio pensato. Scusatemi.»

C’è qualcosa che mi viene incontro, fa rumore, è un cane. Cerco di scansarlo.

Sono quasi arrivato a casa di Sara. Tre minuti. Fa sempre più freddo. Non mi ricordo perché sto andando qui. Potrei tornare indietro.

«Ehi! Gianluca! Ciao!»

Sto fermo, Ludovico mi viene incontro.

«Guarda qua. Ho preso delle birre. Mio padre non se n’è nemmeno accorto. Vieni, siamo arrivati.»

C’è una casa grande, con degli alberi attorno. Saliamo dei gradini. C’è rumore, una musica.

È bello questo posto, amore?

«Gian! Ludo! Con la vostra solita ora e mezzo di ritardo. Venite, venite.»

Mi tolgo la giacca, la metto su una sedia. Tiro su le maniche e siamo di nuovo qui insieme, finalmente possiamo aprire gli occhi tutti e tre.

«Tieni Gian. L’ho preparato io. Vodka Lemon. Assaggia.»

Sara. Mi dà un bicchiere. La sua mano tocca la mia per un secondo e mi sento strano.

«Gian? Assaggia, dai!»

Faccio come mi dice. Mi brucia la gola, ho un sapore aspro in bocca.

«Cos’è quella faccia? Guarda che mi offendo!»

Questa Sara è davvero simpatica.

«Sì. Lei mi piace.»

«Eh? Cosa?»

Ludovico mi sta fissando.

«No, niente.»

«Ma le hai portato un regalo?»

«Eh?»

«Non sei voluto stare nel regalo di gruppo. Quindi hai portato un tuo regalo? Gian, ci sei? È il suo compleanno. La gente si fa dei regali per il compleanno.»

Tesoro, avresti potuto dircelo.

Saremmo andati a comprare qualcosa insieme.

Mi alzo dalla sedia e il bicchiere mi si rovescia addosso. Ho i pantaloni tutti bagnati.

«Gian, dove stai andando?»

Rumori, rumori che non capisco. Persone che mi vengono attorno, addosso.

La stanza, la casa, la porta e sono fuori. Sono fuori, finalmente. Mi guardo attorno, da che parte devo andare?

Di qua, tesoro.

Ho dimenticato la giacca ma di sicuro non torno a prenderla. Inizio a camminare veloce, loro mi aiutano, ritroviamo la strada insieme.

Va tutto bene. Ci siamo qua noi.

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La mattinata a scuola è stata una merda. Attraverso il parco a piedi, non ho fretta di prendere l’autobus.

«Ohi, Gian! Gian! Sono qua! Qua! Gian?»

«Ciao.»

«Figo quel video che hai caricato. Cioè un pochino noioso, forse ma figo.»

Mi siedo su una panchina.

«Sei tipo tu che stai nella tua stanza e non fai niente, ma comunque figo.»

«Mh.»

«Gian.»

Mi accendo una sigaretta.

«Vieni stasera?»

«No.»

Ludovico mi prende la sigaretta di mano, fa due tiri e me la passa di nuovo.

«Posso chiederti una cosa?…»

Fumo fino a finirla tutta. Ne accendo un’altra.

«Qual è il tuo progetto?»

Cosa?

«Cosa?»

«Ho visto un video di tua mamma che dice tipo che loro sono preoccupati per te, che te ne stai sempre chiuso nella stanza. Ha messo questo video che ci sei tu in doccia. E ti incazzi perché dici ai tuoi genitori di non guardare… ma non c’erano i tuoi genitori in realtà, nel bagno. Cioè, sì, c’era tua mamma che ti faceva il video dalla porta, ma tu stavi parlando con i tuoi genitori, cioè tipo come se fossero nella doccia insieme a te. È tipo un format nuovo?»

«No.»

«Ah. Ok. E quindi cos’è?»

«Niente. Ci stavo parlando. Gli dicevo di non guardare.»

Mi tocca il braccio, rimango a guardare la sua mano.

«Ehi, ci sei?»

«Sì.»

«A volte non ti capisco…»

Si alza in piedi. Si allontana da me. Lo vedo più… scuro. Come con una lente.

Raggiunge la fermata del bus. Si volta a guardarmi. Con la sua bocca e gli occhi grigi che non capisco.

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Quando esco dalla mia stanza, trovo sempre un odore che non mi piace.

«Eccoti, finalmente, ci stavamo preoccupando.»

Fa vomitare.

«Oh, Giangi, ce la fai a parlare con noi?»

«Guarda qui, amore. Ecco a voi nostro figlio che esce dalla sua stanza dopo due giorni! Ve l’avevamo detto che era un po’ strano, no? Intanto è l’unica persona che conosco che si incorpora due smalleye alla volta… Ma chi ha guardato i video precedenti lo sa già.»

«Cazzo, ora te li levo.»

«E questo è mio marito che si incazza con lui come oggi giorno… Guardate come va giù di testa.»

Cosa vuole?

«Ti porto a decorporarli.»

Ho sentito qualcosa che mi fa davvero arrabbiare. Mi blocco in mezzo alla stanza. Torno indietro e vado contro di lui.

«Cosa hai detto

Amore, amore, calmati, non ne vale la pena.

«Io sono tuo padre, hai capito?»

«Tu non sei niente!»

Andiamo via.

«Ops… litigi in famiglia! Guardate come si scaldano i miei due torelli!»

«Che cosa? Ma che significa? Vieni qui e ripetimelo. Vieni qui, ho detto

«Tu non sei niente.»

Va tutto bene, tesoro.

«Cazzo, non posso crederci! È rientrato in quella cazzo di stanza di nuovo!»

«Per oggi è tutto… continuate a seguire la nostra crazy family nei prossimi giorni! Baci, baci!»

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Devo uscire per andare a pisciare. Metto l’orecchio contro la porta, non sento niente. Non c’è nessuno. Giro la chiave e cammino nel corridoio buio che puzza come al solito. Ho aspettato per ore. Me la sto facendo addosso. Non ci sono luci per casa e io non accendo l’interruttore.

Spingo la porta del bagno, entro a tentoni.

Sento un rumore.

«Ehi, ——–! Ci sono ————-!»

Scappo, torno in camera. Mi chiudo dentro a chiave. Prendo una bottiglia vuota e mi svuoto la vescica lì dentro.

Mi metto sotto le coperte.

«L’avete visto anche voi? Faceva un rumore strano.»

Che cosa, tesoro?

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C’è una musica davvero fastidiosa in casa. La sento attraverso la porta.

«Cos’è?»

È Natale, amore.

«Quindi?»

Beh, tesoro, lo sai… Si sta tutti insieme. Si fanno le foto.

«E questa musica?»

È per fare festa.

«Non mi piace.»

Non ascoltarla. Andrà meglio.

«Va bene.»

Apro la porta per guardare fuori. Vedo due pacchetti per terra. Li raccolgo in fretta e chiudo di nuovo.

Mi siedo sul letto e li apro.

In uno c’è una maglietta. Nell’altro un cappellino.

«Beh, grazie.»

Ti piacciono?

«Sì.»

Mi sdraio sul letto. Dalla porta è entrato una volta tanto un odore buono. Credo sia pollo con patate. Mi brontola la pancia.

Andiamo a mangiare qualcosa, amore?

«Cosa c’è da mangiare?»

I tuoi piatti preferiti.

«Non ho voglia di andare di là. Sto bene qua.»

Coraggio tesoro, è bellissimo di là.

Ho fame.

«E va bene.»

Apro la porta, sento ancora rumore ma l’odore di cibo è davvero intenso e buonissimo. In sala, la tavola è apparecchiata. Mi avvicino.

C’è anche della birra. Me ne riempio un bicchiere.

«—- c’è di là?»

Cosa c’è tesoro?

«Non lo so, è come se ci fosse qualcuno oltre a noi, in casa. Non sentite?»

«—- Giangi, incredibile! Mi aiuti a portare ———–? C’è il——— arrosto.»

No, non sentiamo niente.

«C’è qualcosa che si muove, laggiù.»

Non lo vediamo, tesoro, sei sicuro?

«Sì, oddio, c’è qualcosa. C’è qualcosa!»

Vedo delle forme avanzare verso di me. Sento dei sussurri privi di senso.

«Chi è? Cosa siete? Aiuto!»

«Ma ——- gli prende? Perché urla? Cosa ———————-?»

«Ha sporcato la ——! Avevo —— tutto a posto —- fare delle belle ——!»

Corri in camera. Nasconditi.

Corro, mi nascondo nella mia stanza. Chiamo la polizia.

«Da dove ——————?»

«Ci sono degli estranei in casa mia… Potete rilevare la mia posizione? Potete venire qui?»

Piango, non mi reggo in piedi. Tremo in tutto il corpo. Sono chiuso a chiave nella mia camera ma è come se potessero attaccarci in qualsiasi momento. Come sono entrati qui dentro? Sono preoccupato più per i miei genitori che per me. Se dovessero far loro del male, se dovessero anche solo minacciarli…

Mi tengo stretto alle ginocchia, sul tappeto. Non riesco a fare nient’altro. Un rumore si avvicina, rimbomba nella stanza.

Sono le sirene della polizia. Va tutto bene, tesoro. Tutto bene.

Sentiamo rumori, altri rumori.

Mi trascino sul letto, mi chiedo cos’erano quelli. Chi erano. Ho freddo, sento un grosso vuoto attorno e dentro. Ricomincio a vedere tutto scuro.

Va tutto bene.

«Ma che —- volete, è casa —–!»

«Noi non —————————-»

«Nostro ——-? Sarà ————.»

Sssh. Va tutto bene. Tutto si risolve.

«Ohi ——! Ma ——————————-? Ohi ————————-?»

Tesoro.

«Voglio andarmene da qui. Ho paura.»

Prima non te l’ho chiesto ma… eri così bello, le lucine, la tavola di Natale… Ti ho scattato una foto. E mi sono accorta che dovremmo festeggiare. Siamo arrivati a 100000. Centomila bellissime immagini di te.

Continuo a sentire freddo.

«Siete qui?»

Certo, noi siamo qui. Siamo qui, ehi.

«Ci sarete per sempre? Rimarrete qui? Rispondete!»

Certo.

«————-! ————!»

«Promettetemelo.»

Promesso.

«Non potete lasciarmi. Non potete.»

E non vogliamo lasciarti. Staremo sempre insieme. Centomila volte, un milione di volte, infine volte, insieme per sempre.

Colpi contro la porta. Non ho via di fuga. Mi affaccio alla finestra. Guardo giù.

Qualcuno spinge contro la porta, la prende a calci. Guardo di nuovo giù. Se saltassimo ci salveremmo?

Saremo per sempre, sempre, con te.

«Ho paura.»

Non devi.

«Eccolo! È alla ———! Ehi, —————–, tutto bene? Ehi, riesci a ——————?»

Qualcuno mi prende per le braccia, mi strattona indietro. Non riesco a smettere di piangere.

«Portiamolo al ———————–. Ha bisogno di ————————————————————.»

Mi sollevano da terra, sono terrorizzato, mi piscio addosso.

«————————————————!»

Siamo qui.

Ho i pantaloni bagnati, la faccia bagnata, mi viene da vomitare.

«Lasciateci, vi prego… vi prego

«————————-.»

Mi portano via.

Le scale, gli odori, i rumori, cose che ci vengono addosso.

Siamo in un veicolo. Non vediamo bene, è tutto scuro. Non riusciamo più a parlarci.

Non ti–

Una voragine in mezzo al cervello. Un male così grosso come se un buco nero dentro di me risucchiasse tutta la luce dell’universo per non lasciarla più uscire.

«——————————–.»

«————————-.»

«—————————.»

«Dove siete?»

Dove siete, dove siete, dove siete.

Parlo. Da solo. Non c’è niente.

Parlo.

Dove siete.


L’autrice

Natalia Guerrieri (1991) è laureata in italianistica all’Università di Bologna e diplomata in Drammaturgia e Sceneggiatura all’Accademia Nazionale Silvio D’Amico di Roma. Scrive per il cinema, il teatro e la narrativa. Il suo primo romanzo Non muoiono le api (Moscabianca, 2021) ha vinto il Premio Zeno 2021. Il suo secondo romanzo Sono fame (Pidgin, 2022) è stato finalista al Premio Inge Feltrinelli 2023.