Due trasmissioni mirmecosemiotiche

Nel mio ufficio non c’era più la stessa luce. Un giorno gli operai del dipartimento arrivarono con tre paratie in vetroresina e inscatolarono il formicaio di Proserpina, che riempiva tutto l’angolo est della stanza. Due paratie ai lati e una sopra, a oscurare una parte del finestrone. Dovetti accendere l’abat-jour anche di giorno per leggere meglio le trascrizioni dei mandala.

Sulla superficie di una paratia, che era due metri e mezzo per due metri e mezzo, all’altezza del mio sterno – troppo in basso per guardarci dentro stando in piedi, troppo in alto per guardarci dentro stando seduto – c’era una fessura che si apriva su un sistema di specchi interno alla scatola.

Proprio a volermi sguerciare e ingobbire in un fascio di muscoli irrigiditi, come facevo da due settimane, riuscivo a vedere la piattaforma dove si arrampicava Proserpina, sul lato interno della paratia, e dietro di essa le pendici bitorzolute del formicaio. Su uno degli specchi, irraggiungibile dietro al vetro della fessura, campeggiava la sgommata di un polpastrello.

Dopo l’installazione della scatola, Prosperina sembrò molto agitata. Lo scrissi sul registro apposito. Dal suo comportamento era chiaro che non riconosceva il mio occhio dietro la fessura né la mia voce incupita dalla vetroresina. Forse credeva che l’amministrazione mi avesse assegnato a un altro formicaio o, peggio, che l’avremmo trasferita nel cortile di qualche liceo scientifico.

Era una brava regina, Proserpina. Nella prima settimana continuò a lavorare come se nulla fosse: si arrampicava ogni mattina sulla piattaforma, si sollevava sulle zampe anteriori, schiudeva le pseudo-elitre dell’addome e mostrava il mandala che aveva generato durante la notte, piccolo e nitido come una miniatura psichedelica.

Dopo una settimana le forme e i colori sfiorirono: la sintassi reggeva ancora, ma le curve tremolanti e le sfumature ambigue attentavano alla coerenza e alla coesione della trasmissione. Registrai tutto e feci del mio meglio per tradurre il linguaggio visivo in linguaggio verbale. E dopo qualche altro giorno Proserpina non si fece più vedere. Non rispose ad alcun richiamo e restò nascosta nel formicaio.

Mi staccai dalla fessura e mi raddrizzai, dopo aver guardato terra, polvere e aloni unticci per qualche minuto turbolento. Controllai l’orologio, strappai il camice smeraldino dallo schienale e quasi corsi verso l’ufficio dell’amministrazione. Se Proserpina fosse morta di crepacuore, avrei preferito prendermela con chiunque tranne che con me stesso.

Entrai in collisione con la porta di Michaela perché pensavo, uno, che fosse un’emergenza e, due, che fosse sola: il nuovo vicedirettore non si era ancora fatto vedere per i corridoi, forse non aveva nemmeno varcato la porta del dipartimento. Quindi mentre davo una spallata alla porta e sentivo brandelli di conversazione e profumo di ginseng provenienti dall’interno, come minimo mi figurai che Michaela fosse in compagnia di qualcuno che non fosse il vicedirettore.

E invece era il vicedirettore, seduto a gambe accavallate sulla poltrona mezza ornamentale su cui non siede praticamente nessuno. Teneva il gomito appoggiato sul bracciolo e il bicchierino di ginseng sospeso a mezz’aria tra pollice e indice. Avevo interrotto la sua conversazione con la direttrice e ora mi guardava circospetto, coi capelli grigi luccicanti e mezza frase penzolante dalle labbra, in attesa che giustificassi la mia irruenza.

Registrai lentamente la situazione e reagii ancora più lentamente, perché nel frattempo mi erano tornate in mente le parole del mirmecosemiologo capo, Franz, il mio unico collegamento con l’amministrazione in quel periodo di oscure cospirazioni accademiche.

Franz aveva guardato senza espressione la scatola nel mio ufficio, due settimane prima, e si era grattato un sopracciglio. «Il vicedirettore non è abituato alla burocrazia delle istituzioni pubbliche. I mirmecomanti dell’Alto Comando prendono e fanno, non chiedono il beneplacito di nessuno. Non è mancanza di rispetto, è il normale attrito di una personalità militare in un contesto universitario – che magari è pure comprensibile, visto che siamo in guerra. Il consiglio di amministrazione sta cercando di… smussarlo, ecco, ma per il momento la scatola te la becchi e partecipi all’esperimento come ti è stato detto.»

Visto che stavo per strapparmi il camice e minacciavo di coinvolgere il senato accademico – una cosa ridicola, ma lì per lì fui preso sul serio – Franz si era affrettato a raccontarmi la storia dei misconosciuti coniugi Bhüler-Later, due ricercatori pieni di idee bislacche che avevano rischiato di uccidere le velleità scientifiche della nascente mirmecosemiotica, cento e rotti anni fa. Tuttavia furono loro i primi a speculare sulla psicologia profonda delle formiche mandala – mi aveva illuminato Franz, come se fossi una matricola – e a scoprire che le regine mandala potevano davvero estrarre informazioni specifiche dalla mente collettiva della loro specie, e forse da quella di specie affini, come se fossero collegate a un internet biologico prodotto dall’evoluzione. Internet biologico era un’espressione pionieristica dei Bhüler-Later, aveva specificato Franz. Chi l’avrebbe detto che avremmo potuto sfruttare questa abilità nello spionaggio militare interspecifico, in una guerra che sembrava uscita da un racconto di H.G. Wells?

In ogni caso, l’uso di scatole e specchi nella mirmecosemiotica avanzata era un’idea vecchia, ma che secondo il vicedirettore valeva la pena recuperare e testare. Che ragionamenti ci fossero dietro, Franz non lo sapeva o non poteva dirlo. Aveva solo aggiunto: «A te non cambia niente. Basta che leggi i mandala da destra a sinistra, dall’ultima forma-frase alla prima. Non mi sembra una tragedia.»

Forse non era una tragedia, non ancora, ma mi cambiava eccome. Proserpina era una regina speciale, anche se non nel senso inteso dai miei superiori. Regnava su una colonia poco ispirata, era affetta da un certo ritardo nel recupero delle informazioni, rilasciava dichiarazioni contraddittorie sui movimenti dell’esercito mirmico sul fronte occidentale, odiava il verde e le luci alogene, insomma tutto un po’ fastidioso per il mirmecosemiologo medio a caccia di una carriera universitaria. Dunque non mi stupivo che a Proserpina venisse rifilato l’esperimento più imbecille mai sentito da quando mi ero iscritto a Mirmecosemiotica con Michaela, mezza vita fa.

Michaela, a proposito, non aveva lasciato trapelare un perché. La cena avrebbe dovuto essere l’unico momento in cui ritrovarci e parlare con calma, ma lei l’aveva trasformata in un rituale di meditazione in cui non faceva altro che fissare il piatto masticando lentamente e rilassando i muscoli cervicali ogni volta che se ne ricordava.

Cercavo di farle notare l’ovvio: che la noia e la solitudine avrebbero annichilito Proserpina e che presto avrei perso la sua fiducia. Michaela rispondeva – quando rispondeva – che Proserpina era un’antenna neurale dotata di sentimenti perlopiù primitivi, l’esemplare X di una specie ibridata per recuperare informazioni da una mente collettiva mostruosa e arrabbiata, origliabile solo da regine come lei. Detto questo, si chiudeva a guardare Chi l’ha visto? meditando.

Avete presente quei ricordi molto specifici che emergono di colpo, apparentemente fuori contesto e scollegati da quanto state facendo, ma di cui in seguito riuscite a rintracciarne la causa? Ecco, me n’è capitato uno dopo aver tolto il naso dai capelli di Michaela, una sera che la mano sotto la maglietta non sortiva l’effetto sperato. Mi era tornato in mente un belloccio dalla parlantina facile che si accollava al nostro gruppo al primo anno di università, apparso e scomparso nel giro di un mese. A posteriori mi era venuto il dubbio che non si fosse presentato senza motivo, che ci avesse provato con Michaela in sordina, sul 109, o quelle due mattine a settimana che facevo ritardo fisso. Veniva a lezione col dolcevita sotto il blazer e si univa alle nostre spedizioni verso la macchinetta del caffè, dove era l’unico a prendere…

Abbiamo fatto le scuole insieme, Michaela.

Elementari, medie e università insieme.

Che poi non c’è manco il ginseng vero, dentro. È tutto aroma.

Il vicedirettore scavallò le gambe, occultando i calzini con la Notte stellata di Van Gogh ricamata sopra, mosse in direzione del formicaio sovrano nella teca sotto il planisfero politico – che riportava le ottantuno città-stato mirmiche del Sudamerica, ma ancora non mostrava i nuovi colori del Portogallo e della Spagna – e lasciò penzolare la mano sull’apertura, riservandomi l’espressione di chi sta elaborando una barzelletta divertente ma disgustosa. Come se la mano fosse un magnete e l’intera colonia un ferrofluido intelligente, la bocca del formicaio vomitò tante guerriere mandala da ricoprire il braccio, le spalle, il petto e la testa del vicedirettore, formando uno strato brulicante spesso vari centimetri che lasciava liberi gli orifizi nobili, le mani e il bicchierino di ginseng.

Mirmecomanzia istrionica per segnare il territorio, nient’altro.

«Appena ci siamo seduti al tavolo, io e Michaela eravamo certi di una cosa: la tua carriera non avrebbe dovuto risentirne» disse la bocca scorporata sotto le narici scorporate sotto gli occhi nascosti da una scorza di cheratina che non muoveva né una zampa né un’antenna. «E non voglio dilungarmi, so che capisci quello che sta succedendo. Quando gli operai smonteranno le paratie della scatola e le faranno sparire, resteranno solo le trascrizioni stentate degli ultimi sette mandala di Persefone – ehm, Proserpena – trascrizioni così erronee e lacunose che sarebbero sufficienti a portarti davanti alla corte marziale, volendo. Ecco, invece di andare incontro a simili dispiaceri, perché non mettiamo una firma proprio qui? Ti abbiamo già riservato un posto di assistente mirmecosemiologo in un’università telematica in rapida ascesa.»

Michaela era rimasta seduta con la schiena oscenamente dritta, lo sguardo sul portapenne e le mani a formare una mudra sulle cosce, finché il vicedirettore le aveva fatto cenno di prendere un fascicolo dal cassetto della scrivania e mettermelo sotto gli occhi, aperto sulla pagina da firmare.

«Traespherimunto» conclude Prosperina.

***

Non mi accorgo neanche di essere interpellato: sto ancora processando lo shock provocato dal mandala che Proserpina ha svelato per me, stasera, danzando allarmata sul palmo aperto della mia mano.

Michaela si affaccia nella stanza, ripete il mio nome e mi rivolge un sorriso ampio e sincero, motivato forse dalla presenza degli operai al suo seguito, due caffeinomani emaciati che entrano in ufficio con le paratie in vetroresina che occulteranno la Proserpina reale in favore di un simulacro speculare.

Michaela mi tira per un braccio, non ho neanche visto Proserpina scappare nel formicaio per l’ultima volta e già mi sento nel bel mezzo di uno xenotrapianto di cuore.

***

«Traespherimunto» conclude Proserpina.

Con aria accomodante riposai il gluteo sinistro sulla scrivania, visto che non era occupata da alcun fascicolo. Michaela sedeva con la schiena sempre più curva, lo sguardo sul portapenne e la mudra afflosciata in una frittata di unghie e carne.

«Win-win, no? Io e Proserpina ci togliamo di mezzo volontariamente, ci teniamo stretta una delle più grandi scoperte nella storia della mirmecosemiotica, e voi vivrete per sempre felici e contenti. Proserpina mi ha detto tutto: ha carpito le vostre intenzioni come carpisce quelle degli eserciti al fronte occidentale, e credo mi abbia avvertito affinché chiedessi io stesso il trasferimento di sede – come se avesse anche capito che una rescissione unilaterale da parte vostra ci avrebbe separati per sempre. E non voglio dilungarmi, so che capite cosa sta succedendo» dissi al vicedirettore accigliato, che occhieggiava me, Michaela e il planisfero senza sapere cosa pensare. «Appena ho visto il mandala di Proserpina, l’ultimo prima dell’installazione della scatola, ero certo di una cosa: la formica mandala può estrarre informazioni anche della mente collettiva umana.»

Mirmecosemiotica istrionica per segnare il territorio, nient’altro.

Dissi subito che il loro progetto di diffamazione, seppur ammorbidito da un trasferimento di sede, aveva generato un risultato affatto diverso da quello sperato, una peripezia drammaturgica che però non distruggeva metaforicamente i miei antagonisti, piuttosto li sublimava su un piano narrativo alquanto desiderabile. Il vicedirettore fece per scavallare le gambe e alzarsi, ma gli imposi con gentilezza di restare seduto, mi sarei chinato io a stringergli la mano, ci mancherebbe.

Non è tutto aroma, dai. Un due percento di ginseng vero ci sarà.

Elementari, medie e università insieme. Ma poco importa.

Poco importa che abbiamo fatto le scuole insieme, Michaela.

Faceva tutto il fighetto con gli occhiali da sole pure quando era nuvoloso, ed era l’unico a bersi il ginseng chimico della macchinetta. Apparso e scomparso nel giro di un mese, ci avrà provato in sordina, sul 109, o quelle due mattine a settimana che facevo ritardo fisso. Doveva essere rimasta qualche molecola di ginseng nei capelli di Michaela, quella sera in cui la mano sotto la maglietta non sortiva l’effetto sperato. Avete presente quei ricordi molto specifici che emergono… ecco, era uno di quelli.

La strana nuova abitudine di guardare Chi l’ha visto? costituiva un ultimo avvertimento che io, seppur esperto di comunicazione animale, non ero riuscito a interpretare. Michaela era pronta a rispondermi ogni volta con lo stesso riduzionismo comportamentista che sapeva mi avrebbe gonfiato le vene del collo. Io neanche mi sprecavo a ripeterle che l’esperimento era senz’altro imbecille, perché non teneva conto della relazione empatica che dev’esserci tra regina e mirmecosemiologo affinché ricezione e trasmissione funzionino.

La cena avrebbe dovuto essere l’unico momento in cui ritrovarci e parlare con calma, ma avevo cominciato anch’io a prestare grande attenzione all’esperienza di masticazione e deglutizione, così perlomeno avrei facilitato la digestione e conciliato il sonno. Michaela non aveva lasciato trapelare un perché, ma tanto già lo sapevo.

Certo non mi aspettavo un perché accademico dietro l’esperimento più imbecille nella storia della mirmecosemiotica, né mi stupivo che avessero coinvolto proprio Proserpina. Le versioni contraddittorie delle sue dichiarazioni giornaliere, lo stile narrativo e la prima persona che adoperava al posto dello standard espositivo e della terza persona, nonché la sua generale impopolarità tra i membri del corpo docenti avevano spinto una sfilza di mirmecosemiologi smidollati a chiedere il cambio di colonia. Il mio concetto di “regina speciale” non collimava esattamente con quello dei miei colleghi. Non era una tragedia, e non lo sarebbe stata, ma Proserpina chiusa in una scatola mi cambiava eccome.

Mi sarebbe bastato leggere una sola trasmissione da destra a sinistra, dall’ultima forma-frase alla prima: questa. Franz sapeva benissimo che ragionamenti c’erano dietro l’esperimento della scatola, e non lo biasimo per essersi inventato i misconosciuti coniugi Bhüler-Later. In ogni caso, l’uso di scatole e specchi nella mirmecosemiotica avanzata non aveva senso né in questo mondo né nell’altro, né all’inizio né alla fine della storia della disciplina, e proprio per questo, secondo il vicedirettore, valeva la pena strumentalizzarlo per ricattare e spedire fuori città il fidanzato storico dell’amante.

Sulla porta, mentre Franz attraversava il corridoio scuotendo la testa, avevo aggiunto di aver setacciato tutte le riviste specializzate, dai primi numeri storici fino a oggi, e di non aver trovato neanche un singolo Bhüler-Later, figuriamoci due, e di certo nessuna menzione di internet biologici – un’espressione pionieristica che apparteneva, avevo concluso, al mio mirmecosemiologo capo in persona. Visto che stavo saltando a conclusioni, dal suo punto di vista, e apparivo fin troppo sorridente per la situazione in cui il vicedirettore mi aveva incastrato, Franz si era defilato dal mio ufficio con una certa inquietudine senza neanche chiedermi di che caspita stessi parlando.

«Dunque non parteciperò ad alcun esperimento bizzarro voluto dall’alto dei cieli, soprattutto perché non è questione di guerra né di sicurezza nazionale. Ci sono cose che anche i mirmecosemiologi ordinari possono fare senza il beneplacito di nessuno, tipo chiedere un trasferimento di sede. Il vicedirettore sarà anche poco abituato alla burocrazia di un’istituzione pubblica, ma non potrà sottrarsi a una richiesta che lo beneficia direttamente.» Avevo guardato Franz raggiante, tamburellando sulle paratie in vetroresina appena installate nel mio ufficio.

Mi aspettavo proprio quella situazione e non tardai a reagire, anche perché mi tornarono in mente le parole di Franz, quelle che lui non aveva mai pronunciato e io non avevo mai sentito dalla sua bocca.

Avevo interrotto la conversazione dei nuovi-vecchi piccioncini quando meno se l’aspettavano, e ora mi guardavano circospetti, in attesa che giustificassi la mia presenza. Leve astronomiche, capelli tirati a lucido, bicchierino di ginseng, doppio petto. Era proprio lui, ora lo ricordavo bene, seduto a gambe accavallate sulla poltrona mezza ornamentale su cui non siede praticamente nessuno.

Mentre accarezzavo la maniglia della porta accostata di Michaela e sentivo brandelli di conversazione e profumo di ginseng provenienti dall’interno, mi sorpresi a sperare comunque, a dispetto del mandala di Proserpina, che Michaela fosse in compagnia di qualcuno che non fosse il nuovo vicedirettore. Me la presi con comodo perché, uno, non era un’emergenza e, due, sapevo di poter convincere direttrice e vicedirettore su quale fosse la soluzione giusta per tutti.

Proserpina non si sarebbe accorata troppo se fosse rimasta nella scatola per il tempo necessario al nostro trasferimento: alla fine sapeva come uscirne meglio di me. Controllai l’orologio, indossai il camice smeraldino e mi avviai a passo lento verso l’ufficio dell’amministrazione. Mi alzai dalla scrivania dopo aver letto e riletto, con lo stesso livello di stupore ogni volta, quello che secondo Proserpina avrei potuto dire a Michaela e al vicedirettore.

Chi era la vera manipolatrice, qui? Perché Michaela non avrebbe potuto scegliere di fare marcia indietro, presto o tardi, riconoscendo che era stato tutto un errore? Avrei passivamente seguito i consigli di una formica mandala – forse un po’ troppo gelosa e possessiva per essere una semplice antenna neurale – in questioni sentimentali che mi riguardavano così da vicino? Avrei davvero deciso di abbandonare tanto facilmente la mia alma mater, la buona posizione che mi ero costruito lì e la persona con cui avevo condiviso tutta la vita, anche se in compagnia di Proserpina e delle sue capacità? Anche dopo aver trascritto questo mandala e averlo letto dalla fine all’inizio, Proserpina metteva in conto che mi sarei fatto delle domande, e questo la preoccupava.

Ma una possibilità era una possibilità: poi c’era la realtà ineluttabile, i fattori imprevisti, le decisioni altrui che non possiamo controllare. Proserpina sembrò molto agitata per l’arrivo del vicedirettore e per l’installazione della scatola, anche se mi aveva appena mostrato un possibile scenario in cui era possibile restare insieme.

Mi accartocciai davanti alla paratia munita di fessura, strizzai l’occhio per avere una visione il più possibile nitida dell’addome di Proserpina, che si era arrampicata sulla piattaforma interna alla scatola e aveva aperto le pseudo-elitre su uno dei mandala più incredibili che avessi mai letto in vita mia.

Non ci sarebbe stato più bisogno di accendere l’abat-jour anche di giorno. Prima o poi gli operai del dipartimento sarebbero arrivati a smontare le paratie in vetroresina che inscatolavano il formicaio di Proserpina, e avrebbero lasciato che la luce tornasse nel mio ufficio – che io fossi rimasto oppure no, che Proserpina fosse rimasta oppure no.


L’autore

Alessandro Lucà (1993) è laureato in Lettere Moderne e Linguistica. Preferisce il divertimento alla scrittura, a meno che non coincidano. Ultimamente coincidono. Ha scritto racconti per La nuova carne, Pastrengo, Alkalina, Nabu.