Varietà antica

L’ultima della propria specie ignora di essere l’ultima. Se fosse la prima, non sarebbe diverso: ultima e prima, sono entrambe realtà di solitudine. La prima è una pioniera, ma l’ultima è la tenace, la fortunata, l’abbandonata. Il granello sfuggito alla conta.
E pensare che non è una creatura timida. Non si è mai nascosta: ha larghe foglie sforbiciate, che sono state raccolte e bollite, che hanno racchiuso riso e patate. Ha acini color oro, puntinati di ruggine e dal ricordo di una grandinata. Ha un tronco ruvido dall’odore muschiato, cresciuto libero verso l’alto con tragitti contorti, fino a coprire interamente il muro di mattoni di una cascina diroccata.
La vite appartiene a una varietà antica, sempre stata rara, e ora ultima di qualche centinaio di sorelle cresciute tra queste colline. Ne ha ereditato i gusti, prendendo a piccoli sorsi da una falda acquifera. Ne ha ereditato il gusto: grappoli aspri, ritenuti inadatti alla vinificazione ma ugualmente amati dalla famiglia che abitava dietro il muro del casolare. Adesso il muro appartiene alla vite; la cascina ospita tane e nidi, e le improvvise malinconie di una piccola monella divenuta donna.
Dai giorni in cui il casolare era abitato da esseri umani potrebbe essere trascorso molto tempo, oppure no: il tempo di una pianta non è lineare, quanto ciclico. Tutte le sue primavere sono una primavera, tutti gli autunni un solo autunno. Il passare degli anni non è scandito dalla ruota delle stagioni, ma dall’occasionale inciampo: la scure del contadino, e l’inverno in cui ha dormito male, perché il calore del sole continuava a svegliarla. Il fulmine che ha strinato le sue foglie più esterne. Il crollo di parte del muro, che l’ha lasciata a sorreggere il resto. Come tutte le piante, anche la vite è convinta di sorreggere il cielo: un muro non è niente, a confronto.
Con una missione così impegnativa, le resta poco tempo per dedicarsi ad altro. Ciò non le impedisce di avere preferenze, piccole faide e piaceri segreti. Non la stancano mai le conversazioni dei fringuelli e il delicato scalpiccio delle formiche. Le sue foglie fremono nel vento estivo, e gioiscono dei percorsi delle gocce di pioggia. Ama la penombra e sentire il terreno spaccarsi con la forza delle proprie radici; odia il sole rovente che secca e brucia, e i vermi malevoli che risalgono dalla terra quando si fa molle e cedevole.
È la fine dell’estate, e la vite è sveglia, la sua coscienza la abita completamente. Fuori da lei c’è un movimento inconsueto, che fa presagire l’approssimarsi di un Evento: accadrà qualcosa che la farà invecchiare un po’, una nuova indentatura nel suo concetto di passato.
«Faccia attenzione, Maestro. In questa zona ci sono sempre state un sacco di bisce.» dice una donna, battendo forte i piedi a terra. Le vibrazioni raggiungono la vite, e fanno effettivamente scivolare un serpente nei recessi più interni dei mattoni alla sua base. «Ecco, mi pare… Sì, da questa parte. Saranno passati trent’anni, dall’ultima volta che sono venuta qui.»
«E non c’è proprio modo di contattare i vecchi proprietari?» domanda un uomo.
«No, no… hanno raggiunto i figli in Francia. Ormai saranno anche morti.»
I passi si fermano di fronte alla vite, l’uomo sospira. «Le prime cose che perdiamo sono quelle che diamo per scontate. Guardi questa pianta, signora Maggi. Per la generazione dei suoi bisnonni era la vite per eccellenza, l’uva a cui comparare tutte le altre uve. E dopo neanche sessant’anni, eccoci all’ultimo esemplare.»
Viviana Maggi, nata Dropulich, schiaccia una zanzara sul braccio. La radura è diversa da come la ricordava, e non solo perché le robinie sono cresciute fino a inghiottirla. Certo, sono passati trent’anni. Che si aspettava? La sua infanzia come una cartolina sbiadita ai bordi, con una piega nel centro dopo che per anni l’aveva tenuta in tasca sopra il cuore? Una cartolina senza mittente, con qualche frase di circostanza per giustificare la nostalgia. Nessuno si affaccerà alla finestra per offrirle pane con burro e miele.
Non è più una bambina in villeggiatura nel paese dei suoi genitori. Non è più una bambina.
La natura può fare questo in qualche decennio appena? Trasformare una bambina in donna, far sparire un luogo dalle mappe? Alla cascina manca metà del tetto, i vetri rotti intrappolano gli spiriti sotto le suole, nella catasta di mobilia che non è stata portata via si indovinano la struttura in metallo di un letto e una carriola sfondata. Viviana non ha vissuto quel luogo a sufficienza da ricordare questo letto o questa carriola, non ha mai abitato questa casa, ma gli oggetti vanno a sovrapporsi ai letti e alle carriole della sua vita; non molti, per la verità, ma d’improvviso le paiono significativi, illuminati come sono dalla luce che filtra dal buco nel tetto.
«Ovviamente dovremo sequenziare il genoma.» la voce rauca del Maestro Giardiniere la riscuote. Lui la mette un po’ in soggezione, e non soltanto per la naturalezza con cui pronuncia la parola “genoma”. È che è una persona famosa, uno con un seguito a sei zeri sui social, uno che parla ai convegni, a cui stringi la mano dopo che ti ha autografato il libro. Non è il tipo con cui Viviana farebbe una scarpinata nei boschi della sua infanzia, e di certo non è una persona da dimenticarsi d’un tratto, come un’idea avuta in sogno.
Nell’ansia di dire qualcosa, Viviana commenta: «E poi che si fa?»
«Dal genoma sapremo se è effettivamente una varietà.» l’uomo alza lo sguardo da una foglia di vite, gli occhiali gli scivolano sulla punta del naso: «Una varietà è una modificazione generata naturalmente dalla pianta, che poi si è trasmessa ai suoi discendenti. Una modifica non guidata dall’uomo.»
Il giardiniere poggia i palmi sul tronco sottile e rugoso della pianta. Esamina il colore dei piccioli e le venature traslucide dei grappoli, la forma inconsueta delle foglie e la consistenza turgida dei raspi.
Viviana invece stacca un acino e lo mette in bocca, lasciando una lacrima zuccherina sul pedicello. È più aspro di quanto ricordi, forse perché la memoria addolcisce i sapori. Questo è un sapore specifico, sa di vacanza rubata: un misto di senso di colpa e libertà sprezzante. Probabilmente è perché si è presa dei giorni di ferie per la prima volta dopo tanto tempo, a quest’ora di norma sarebbe ancora in ufficio a sbrigare qualche pratica. Invece è scappata in un’altra nazione con uno sconosciuto, alla ricerca di una vite di cui ha postato una vecchissima foto su Facebook. Sta vivendo un’Avventura, ed è perfettamente, malinconicamente felice.
Il Maestro Giardiniere non vuole esporsi con conclusioni affrettate, ma tra le rughe incipienti c’è una fossetta e un luccichio negli occhi che non è solo dovuto al riverbero delle lenti. A lui le punture delle zanzare non danno fastidio, negli anni ha imparato a ignorarle. Perciò ogni cosa gli pare perfetta, un cosmo ordinato in cui entrare in punta di piedi, per non disturbare né topolini né fantasmi. Per lui, questa è una giornata di lavoro come tante. Ma ha un talento segreto: sa vivere ogni giornata come se fosse unica, come fosse la prima giornata in cui abbia posato lo sguardo sul mondo. Anche oggi, ha di fronte una Scoperta.
Un Evento, un’Avventura, una Scoperta. La vite, la donna e l’uomo si trovano misteriosamente allineati, per un istante la linfa e il sangue pompano alla stessa frequenza, foglie e ciglia e muscoli vibrano sulla stessa nota. Ecco d’improvviso una possibilità di comunicazione, l’unione limpida che rende comprensibile a Viviana il frinire dei grilli, al giardiniere l’odore del terreno, e alla vite lo scorrere monodirezionale del tempo. Dura troppo poco, e termina appena prima che ciascuno abbia compreso ciò che l’altro voleva dire. Ma si lascia dietro una scia, la porta resta socchiusa, o piuttosto aperta alla possibilità di ulteriori ingerenze da parte dell’alterità.
«Sembra proprio una varietà che non conosco.» si riscuote il giardiniere, e sembra felice per la propria ignoranza. «Tornerò quando saranno cadute le foglie.»
Quasi fuggendo da quell’esperienza straniante volta le spalle alla vite, e Viviana lo segue con la stessa fretta. In pochi minuti la radura è di nuovo deserta, e la biscia torna a occupare il suo posto sotto il sole.
Gli acini si accartocciano, i pampini ingialliscono alle estremità e si arrossano al centro come piccoli soli, e quando hanno creato un pavimento croccante ai piedi del casolare, il Maestro è di ritorno con un aiutante.
La vite sonnecchia, a malapena si accorge della lama fredda che le sfiora la corteccia per recidere i rami più giovani. Il taglio non sanguina: solo il verde brillante dei punti in cui sono passate le cesoie testimonia che è viva, e ancora non sogna.

Sotto la neve la vite è sprofondata in sé stessa, ignara del peso delle gazze che fanno rimbalzare i suoi sarmenti quando si levano in volo. Ma la primavera la risveglia, portando con sé una consapevolezza nuova. La pianta si stiracchia e allunga, chiede informazioni attraverso la terra e l’aria. Le giungono segnali monchi ed eco distorte, correnti parassite tra i sali disciolti nel terreno. La vite è un’antenna capovolta, un’onda che si propaga e che riceve attraverso il suolo, intorno a sé e in profondità.
Un pomeriggio di settembre ha avuto un’epifania su cosa sia tempo, in quella mattina di marzo avverte il vuoto. Non lo spazio occupato dall’aria che profuma di giacinti, non la distanza che separa le sue foglie. Una separazione radicale tra segmenti di sé stessa, ma diversa dal piccolo dolore di un ramo spezzato. Segmenti vivi, ciascuno consapevole quanto lei, come lei e non lei.
Il Maestro Giardiniere le chiama talee. Nome aereo, la vite lo sente riverberare fino a sé e se ne appropria, sono (siamo) una cosa (moltitudine) sola.

Quando le talee sopravvissute vengono piantate in un campo sperimentale, la vite si ricongiunge pienamente con sé stessa. Si allunga verso le proprie estremità, invano cerca di rintracciarle con il corpo fisico, seguendo il sapore dei minerali e studiando la conformazione delle pietre: un mare le separa. Tuttavia, sente. Una calca di voci, la strana regolarità della pioggia. Il fastidio di essere costretta a seguire uno schema, l’irreggimentazione della sua crescita a servizio della comodità degli uomini.
Le ultime non sono sensazioni nuove, non è sempre stata una creatura selvatica. Qualcuno ha deciso di metterla accanto al casolare, nella penombra che ama, pensando che sarebbe stata bene. È stato prima della bambina audace, prima dell’uomo con la scure. È stato quando era solo un legnetto dritto tagliato a una pianta più anziana che, a differenza sua, non ha mai pensato di andare a cercarla (e ora è troppo tardi, le radici sono secche nella terra scura, sotto le case sulla collina).
La vite è ben sveglia ora, in ascolto tanto del ronzio dei calabroni che stanno costruendo un nido nelle crepe del muro, quanto delle voci che le arrivano da luoghi che non ha mai conosciuto.
«Ho sentito un amico che sta in California, per quel nuovo parassita. Dovranno bruciare tutto nel raggio di chilometri per fermare la diffusione.»
«Finirà come con gli ulivi del Salento.»
«Beh, comunque non è un problema che ci riguardi.»
«Per ora. Tra qualche anno sarà da noi, vedrai.»
«Sì, beh, cominciamo a pensare alla tignola. Ormai a novembre fa caldo come a maggio, di questo passo non ce ne libereremo più…»

Questa volta sente chiaramente il taglio, alla base di uno dei ceppi secondari. Poi un altro, e un altro ancora. L’inverno la anestetizza, ma la sua percezione è acuta mentre il centro del legno viene tagliato e legato. Le talee si aprono alla violenza del giardiniere, a centinaia di chilometri di distanza la vite riconosce la sua mano e gli grida contro il senso del tempo, il frinire dei grilli, l’odore della terra. Ma lui non è in ascolto.
«Così?» chiede qualcuno.
«Sì, questa è la prima legatura. Adesso bisogna preparare gli innesti. Fai attenzione.» e subito dopo il cuore della vite viene invaso, invaso da una presenza affine ma estranea, il ramo vivo di un’altra pianta. «E dall’altra parte del taglio. Adesso lega, molto stretto, è importante. E sigilliamo con il mantice, per cicatrizzare.»
L’operazione si ripete identica per decine di volte, un’invasione non solo del suo spazio, ma della sua stessa mente. Sente l’eco di pensieri estranei rimbombare nella corteccia, messaggi agitati e confusi. Grida e grida, ma la prima neve mette tutto a tacere.
La vite originale, le talee e gli innesti sognano gli stessi sogni. Gli innesti sono di varietà ricercate, raccontano storie di pendii nascosti dalla nebbia, della galaverna che ghiaccia e uccide. I loro acini sono grossi e succosi, rossi. Lei è bianca, ma conosce il rosso. E attraverso di loro conosce l’odore pungente dell’aceto, che confronta con quello della fermentazione dei propri grappoli. L’ha sempre divertita ubriacare gli insetti, sentire le farfalle librarsi goffe e le api girare in tondo.
Comunicano facilmente, ma non raggiungono la comunione totale che ha con le talee. Gli innesti sono ospiti riconoscenti, ma sempre ospiti. Vivono attraverso di lei, come gli uccelli vivono sopra e i roditori sotto. E tutti prosperano, come dev’essere.
«Sembra aver attecchito bene. Vediamo tra qualche mese.»

In autunno il muro di mattoni è nuovamente coperto da una cascata di grappoli dorati, mentre a molti chilometri di distanza gli innesti sono appesantiti dai primi timidi acini rosati. Si scuriscono con il passare dei giorni, fino a diventare indistinguibili da quelli delle viti originali. Ma dentro conservano un legame segreto con il casolare in rovina, con la biscia tra i mattoni e con i fringuelli.
L’ibrido viene replicato molte volte, creando talee da quelle prese in origine dai suoi rami, e poi talee anche da quelle. A ogni iterazione il legame con la vite della radura si assottiglia, fino a perdersi del tutto. Essa resta comunque al centro di una miriade di piccole creature nate da lei, una generazione di viti che la aiutano a sorreggere il cielo, e senza sosta le sussurrano che gusto ha la salsedine, quanto è friabile la sabbia e saporito il quarzo.
Intanto la radura è quasi sparita, colonizzata da piantine di nocciolo e giovani frassini. Competono per lo spazio e per la luce, perciò la vite si è lanciata verso l’alto, per colmare il vuoto di ciò che resta del tetto. Il prossimo autunno, i grappoli penzoleranno come lanterne nelle stanze scoperchiate.
Un uomo e una donna si muovono con attenzione verso di lei. L’uomo si appoggia alla donna per camminare, e usa il bastone che tiene in mano per battere a terra e cacciare le bisce.
«Mi sembra passata una vita da quando siamo stati qui.» dice Viviana. «Chi l’avrebbe mai detto, che questa vecchia vite sarebbe stata la salvezza delle vigne italiane.»
«Non vecchia. Antica. Una varietà antica.» la corregge dolcemente il Maestro Giardiniere, «e più resistente all’attacco dei parassiti.»
È anziano, ma le mani sono rimaste le stesse. Guarda la creatura selvatica, la vite con le sue foglie che non sembrano di vite, innumerevoli foglie che fremono con l’aria fresca del tramonto. La breve passeggiata lo ha stancato, si siede a terra. Viviana fa lo stesso, anche se gli anni non l’hanno guarita dalla paura dei serpenti.
Ora che sono a contatto con il suolo, la vite li sente chiaramente, come sente i roditori e gli uccelli e gli insetti e le altre creature con radici aeree. Come sente tutte le creature sradicate. E la vite sente che sono come i suoi primi innesti, fragili e confusi, spaventati dal repentino spezzarsi del legame con la terra. Che il tempo, che per loro scorre in una direzione sola, conduce a un inverno senza risveglio.
Perciò si sporge verso di loro, e ancora una volta prova a comunicare, con il linguaggio della chimica e i suoi movimenti lenti. Racconta che il suo cespuglio di foglie ronza come un alveare a giugno, e che a novembre la nebbia condensa in gocce insapori sui suoi rami spogli. Che il tempo è un cerchio, e ciascuno è una moltitudine.
E Viviana e il Maestro ascoltano fino alla fine, questa volta, fino a che il sole non è sparito dietro le cime dei frassini.


L’autrice

Da oltre un decennio Sephira Riva si occupa di analisi e critica letteraria del genere fantasy. Con il manifesto Intersec Fantasy, si è fatta promotrice del genere Fantasy Intersezionale, movimento per una scrittura critica, attenta e consapevole alla pluralità nella narrativa fantastica.
Ha copubblicato novelle, racconti e saggi per Eris Edizioni, Watson Editore e Delos Digital.
È attiva come divulgatrice del genere fantasy su Instagram e TikTok con il profilo @Moedisia, che gestisce con la compagna di scritture Gloria Bernareggi.