Tornare indietro

Fa freddo, non c’è riscaldamento. Quando Sara aveva chiesto di muoversi dal suo tempo aveva immaginato le difficoltà di un mondo senza internet, senza microonde, senza yogurt scremato, invece è il freddo che la mette a disagio. Domani è giorno di visita. Questo pensiero la scalda un po’, le ricorda il motivo per il quale le è stato concesso di tornare indietro fino a qui.
C’è la neve fuori, tanta neve. Sul davanzale un bicchiere di latte ghiacciato. Le vengono in mente i ricordi del padre, quei bicchieri che diventavano granite, il gioco dei fratelli la sera dopo cena. Raschiavano con il cucchiaino un velo bianco che li illudeva di essere quei ricchi signori che vanno in gelateria. Nel salotto marrone di suo nonno, morto quarant’anni prima, non c’è traccia di una presenza femminile, da nessuna parte. C’è un disordine spartano, quasi militare.
Il nonno ha fatto la Grande Guerra e i tre figli maschi sono cresciuti a racconti di accampamenti, trincee e baionette. Il letto in camera è sgualcito solo da un lato, rifatto in modo sbrigativo. Angela non è più qui da molto tempo. In cucina tante bottiglie vuote, di troppe sere senza tenerezza. In bagno il disordine di quando sei uscito di fretta, e la sensazione che quel disordine sia sempre lì, fissato in un’eterna attesa di qualcuno.
Prova ad aprire il rubinetto. Il filo di acqua gelata, le sembra denso come prima di diventare ghiaccio. Il freddo deforma la realtà. Accende la cucina a carbone e mette a bollire una pentola.
Cerca nella memoria i racconti del padre che possano darle istruzioni su quella casa priva di qualsiasi comodità.
«È solo per un giorno» si dice, e subito dopo «ho solo un giorno di tempo.»
Si lava a pezzi mescolando l’acqua del pentolone con quella gelata. Il vapore che esce dalla superficie intiepidisce il bagno e il corpo di Sara si rilassa, smette la rigidezza del freddo. Insieme ai brividi va via anche la paura. Cosa dirà a suo nonno?
Quando aveva chiesto la cartella clinica all’ex ospedale psichiatrico le avevano creato un problema dopo l’altro. Stava quasi per rinunciare, poi la chiamata. Sua nonna era tutta lì, in una decina di fogli grandi scritti a mano da varie grafie, spesso incerte. Fogli sputati da un posto che non le aveva mai permesso di entrare perché non aveva ancora compiuto dodici anni quando la nonna è morta.
Quella cartella aveva riscritto tutti i racconti familiari, quelli che si tramandano e si modificano negli anni fino a costruire una storia che non è mai accaduta. Il nonno Agostino, il reduce di guerra beone, ha tentato in tutti i modi di riportarla a casa, c’era scritto lì, con il tratto veloce di un’infermiera indaffarata. Non era stato lui a rinchiuderla, come dicevano tutti tra i denti nelle sere in cui avevano mangiato e bevuto troppo. Sara ha chiesto di spostarsi nel tempo per cambiare il finale di quella cartella. La vuole portare via da lì. Lo ha promesso a suo padre.
Si infila nel letto, si rannicchia in un angolo, per conservare quel poco calore che è riuscita a mettere dentro al corpo, e aspetta. Non è ancora del tutto addormentata quando sente la porta di ingresso aprirsi. La sbornia di Agostino è cupa, silenziosa, solo qualche gesto scomposto tradisce la presenza del vino. Non accende la luce quando va in bagno a pisciare. Si spoglia della camicia e dei pantaloni che rimangono lì a terra mentre si butta veloce sul letto con la maglia, i mutandoni e le calze lunghe. Ha un corpo grande il nonno, pieno di vigore anche mentre cade supino sulla coperta di lana pesante, piena di pallini. Comincia a russare senza nemmeno coprirsi. Non si accorge di Sara, immobile in quella parte del letto non esplorata da anni.
La mattina dopo, occhi rossi di alcol lui, di mille pensieri lei, fanno colazione con caffè, latte e pane raffermo. L’ultima volta che aveva visto sua nipote aveva quattordici anni, poco prima di morire. Questa presenza magica di una donna adulta che non sta vivendo il suo stesso tempo, non lo sorprende.
«Sei magra.» Non dice altro.
Un fatalismo atavico non gli fa chiedere nulla, prende quello che accade come l’unica realtà possibile. Troppe volte si è fatto domande, che sono rimaste senza risposta, sul perché proprio a lui fosse capitata una donna così fragile. Una donna che dopo il terzo figlio voleva smettere di vivere. Con il bambino in braccio e gli occhi persi, si sporgeva dal balcone, si alzava in punta di piedi. Lui se le ricorda quelle scarpe con il calcagno un po’ sfondato, si ricorda di avere visto i talloni uscire allo scoperto. Si era fissato su quei piedi lividi di vene, senza calzettoni, era appena l’inizio di maggio, che non restavano nelle scarpe e volevano volare via. L’aveva fermata in tempo. Le aveva tolto il bambino, che era calmo, non piangeva, perché quando sei in braccio alla mamma non ti può succedere niente di brutto.
Agostino sperava che la curassero. Ogni volta Angela tornava a casa un po’ più calma, ma più rotta. Incapace di vivere senza ansia, senza tremare e abbassare gli occhi quando le parlavano. Odiandosi, perché non riusciva più a convincere nessuno di essere una buona madre. Luciano, il padre di Sara, portato a balia, e lei a impazzire dentro e fuori dal manicomio. Poi per sempre dentro.
Sara vuole sapere cosa è successo, non le bastano le grafie di chi scriveva frasi di rito su documenti ufficiali, non le basta leggere che sua nonna ha subito trentasei elettroshock e che fino all’ultimo trattamento ha lottato con tutto il suo corpo per scappare. La vuole vedere negli occhi quella donna che nessuno ha potuto aiutare e che ha avuto più paura di suo marito in trincea. Era sola.  Sara è tornata anche per questo. Poche ore per quella visita che le è stata sempre negata dal regolamento. Poche ore nelle quali deve trovare il modo di portarsela via.
Agostino resta in bagno giusto un paio di minuti poi le cede il posto. Sara quasi non si lava, fa troppo freddo, e ha troppa fretta di andare. È grata ad Agostino per averla semplicemente accolta, senza fare domande a cui non saprebbe rispondere.
Camminano in silenzio per tutta la strada, Agostino in un cappottone ampio e sformato, Sara con il suo piumino leggero che fa pensare al futuro. Entrano insieme nello stanzone con le finestre grandi. Il cielo è bianchissimo, dentro è tutto grigio, la luce non riesce a illuminarlo. C’è un odore acre, quello che produce il sudore quando si ha paura.
Ci sono altri pazienti ad aspettare i loro visitatori, ma Sara è subito attratta da una donna seduta, i capelli scuri, raccolti, spartiti al centro da una riga chiarissima, precisa. Un atteggiamento fiero, elegante, nessuna sciatteria. Il vestito nero, semplice, stretto in vita, mostra un corpo asciutto, come quello di Sara, scosso da un tremore appena percettibile. Le mani bianche abbandonate lungo il corpo sono in contrasto con la posizione eretta della schiena. Agostino resta un passo indietro. Sara si avvicina e Angela la riconosce. Non si sono mai viste, ma la riconosce. Si alza e fa un passo verso di lei.
«Sei tornata.»
«Volevo vederti.»
«Dov’è Luciano?»
«Vieni con me?»
Angela perde il controllo delle mani, le intreccia, le strofina ossessivamente. Cerca di dominare l’emozione. Queste mani senza tregua le conosceva anche il padre di Sara. Le aveva raccontato di quel loro primo incontro, qui, in questo stesso posto, accanto alla stessa finestra. Era entrato di nascosto a nove anni, dentro il cappottone di Agostino per vedere la mamma rinchiusa.
«Il mio Luciano.» aveva detto Angela e poi le mani si erano perse, inseguendo i giri della mente sconvolta. Quel bambino che cresceva in mezzo agli uomini, il padre e i due fratelli maggiori, si era spaventato davanti a tanta inquieta bellezza.
Sara si avvicina e la prende delicatamente per le spalle per spingerla verso l’uscita, ma Angela va verso la finestra. Quella luce negli occhi del primo istante non c’è più. È tornata a sentirsi vuota come dopo i trattamenti. Non ha più visto il mondo, non sa quante automobili girino per strada, non sa cosa siano una minigonna o un frigorifero. Non avrebbe più il coraggio di uscire. Appoggia le mani sul davanzale, si gira verso di loro con un mezzo sorriso e si alza in punta di piedi.
Sara abbassa lo sguardo, si nasconde nel cappotto di Agostino come fece suo padre. Vede solo le scarpe scalcagnate e i talloni induriti, spaccati, che si sollevano con grazia, per assecondare quella vecchia voglia di volare. Vorrebbe riuscire ad agire, a fare quello che deve fare. Credeva di essere coraggiosa, invece non si muove. Poi qualcosa la investe, la butta a terra.
Agostino con la forza di un corpo duro, da lottatore, spinge via Sara e in due passi è su Angela. Senza un fiato, per non richiamare l’attenzione delle infermiere, se la mette addosso. Sa come fare. Lei un burattino e lui Mangiafuoco. La ricompone. Quella nipote, venuta da chissà dove, merita una fine diversa.
Angela, precaria sulla sedia, come una sonnambula svegliata bruscamente, trema e cerca qualcuno con gli occhi. Sara si alza, prova a sorriderle. La nonna si calma. Le braccia calano lentamente lungo i fianchi, la schiena si raddrizza. La voce incolore che esce non sembra la sua:
«Vieni anche domani?»
Sara fa l’ultimo tentativo.
«Papà ci aspetta. Torniamo insieme?»
Vorrebbe aggiungere qualcosa, ma Angela è di nuovo assente, non la vede più. Non ha nessuna intenzione di seguirla. Agostino e Sara la baciano, sentono un fascio di nervi tesi sotto le labbra. Si allontanano.
In economato dicono a Sara che non possono darle la cartella clinica. Ci vuole una richiesta scritta e l’autorizzazione del medico che non è presente. L’infermiera la rassicura.
«Ci penso io a scrivere tutto, stia tranquilla».
Sara abbraccia il suo nonno gigante.
«Resta», lui le dice piano.
«Devo tornare indietro».
Si ripete questa frase ossessivamente mentre lo accompagna a casa. Mentre aspetta che lui chiuda la porta. Mentre lo immagina andare in camera e schiantarsi nel letto. Non per l’alcol questa volta. Poi finalmente torna.
Nella sua cucina la prima cosa che fa è aprire il frigorifero e mangiare uno yogurt scremato. Subito dopo la doccia bollente, anche se fuori non è così freddo. Con calma si siede sul divano e apre il faldone con tutti i documenti faticosamente messi insieme in questi anni, per capire la storia di sua nonna. Riprende la cartella clinica. Con mani malferme va subito alla fine, all’ultima pagina. L’anno di decesso è cambiato. La parola suicidio è scomparsa.
«Papà, sono tornata, ci vediamo a pranzo? La nonna è rimasta lì. Ma ho tante cose da raccontarti».


L’autrice

Stefania Micheli è nata a Brescia e vive a Roma da sempre.
Ha studiato, è andata a teatro quasi tutte le sere, ha passato molto tempo in acqua di mare poco nell’aria di montagna. Ha perso numerosi amici per strada sin da giovanissima. Ha avuto grandi amori, ormai finiti.
Ha pubblicato traduzioni dal francese e dall’inglese e ha tradotto per le scene due testi teatrali. Alcune riviste letterarie online hanno dato spazio ai suoi racconti.
La mattina va in bicicletta negli uffici dell’Ambasciata del Canada. La sera, quando non ha lo spettacolo in teatro, va a letto presto.
Scrive ogni giorno. Per resistere.