Noi viviamo così

I am mad, I am mad forever, and God is the shit of nothing, nothing…

Moore–Barrows, Providence 3

Mi hanno suggerito di cominciare con una frase apparentemente contraddittoria, perché i paradossi – usati con parsimonia – aiutano a spiegare una situazione troppo complessa per essere descritta in breve. Allora comincerò con un controsenso: il mio piccolo mondo è molto grande. Grande nel senso che è vasto: nessuno di noi sa dove finisca veramente. Piccolo perché ne frequentiamo solo una minima parte. E perché è semplice. Si divide in Operatori – noi – e Utenti – quelli di cui ci prendiamo cura. Gli Operatori vivono nella loro Camera, gli Utenti nei pozzi.

Io sono un Operatore e mi chiamo Themes – ma questo non è fondamentale.

La chiamiamo Camera perché quello è, una stanza. Ha solo due porte, una verso i pozzi, l’altra verso il bagno; e i soffitti molto alti. Alle pareti, per non annoiarci, abbiamo incollato poster e appeso quadri. Sul pavimento c’è una montagna di oggetti di ogni ordine e grado. Anzitutto i letti, altrimenti non sapremmo dove dormire. Le lenzuola ce le cuciamo del colore che ci piace. Poi tra letto e letto troverete a volte una poltrona, a volte un appendiabiti, una cassettiera, una dispensa, una pila di libri, o mio nonno che prepara lo spezzatino di carne sul suo fornello rischiando di dare fuoco al letto di mia cugina Thopheise. Non ci ho mai contati, ma nella Camera dovremmo essere un centinaio di persone di ogni età. Tutti Operatori, naturalmente, anche i neonati, che però ancora non lavorano.

Esiste un altro mondo oltre al nostro? Stando ai libri che leggiamo, parrebbe di sì. Nei libri leggo spesso di comunità dove le persone si sforzano di stare sole, magari perché sono tristi, o per lavarsi, o per cercare intimità. Ma io fatico ad afferrare il concetto di solitudine, perché nessuno di noi è mai solo. Anche il silenzio è una questione relativa. Qui c’è sempre un bordone di sottofondo – se non sono gli altri che chiacchierano è il suono dell’acqua corrente nel bagno, o il rumore della caldaia che si sente di là dalle pareti, o i sospiri e gli urletti e i letti che cigolano se a qualcuno viene in mente di essere romantico. Qualche notte fa non riuscivo a dormire; ho provato a leggere qualche pagina di Anna Karenina, ma non ero dell’umore. Mi sono girato dall’altra parte per vedere se Barathes, il mio amico che dorme nel letto accanto, era in vena di fare due chiacchiere. Ma dormiva come un ciocco di legno abbracciato al suo compagno Meheridates – credevo che avessero litigato e non stessero più insieme, ma sapete come sono queste coppiette. Non era il caso di svegliarli, così ho ripreso Anna Karenina e mi sono diretto verso il bagno.

Il bagno è grande come la Camera, ma mentre di notte la Camera viene lasciata nelle tenebre, nel bagno aleggia sempre la luce tenue dei faretti incassati nel soffitto. Se vuoi liberarti vai a destra, cammini cinquecento metri in una sorta di nebbia, ed ecco la parete con i servizi. Se vuoi lavarti o rilassarti, vai a sinistra. Le cinquanta docce erano a quell’ora quasi deserte, tranne per mia cugina Thopheise e due suoi ammiratori, Salmanes e Zabdibolus, che si strusciavano sotto il getto di acqua bollente (hanno solo sedici anni, non sanno ancora che l’acqua fa attrito ma lo scopriranno a breve). Ma non era questione di sentirsi sporchi, è che ero teso, e quindi andai nell’angolo delle vasche. Quella di acqua bollente, fumante di vapori profumati, sobbolliva invitante e mi ci infilai, provando ad andare avanti con Anna Karenina.

«Com’è? Si legge?» mi chiese una voce da dentro il vapore, che riconobbi per quella della mia amica Babatha.

«Pure tu non riesci a dormire?»

«No.»

Stavo per chiederle come mai, ma mi anticipò: «Non ho voglia di andare ai pozzi domani.»

«Nemmeno io.»

«Sarà per questo che non dormi?»

Comparve nel vapore, avanzando nell’acqua, nuda com’ero io. Arrossii perché la desideravo, ma lei aveva messo in chiaro da tempo che non ne aveva nessuna voglia, e così eravamo rimasti buoni amici.

«Possibile» risposi.

«E quindi, il libro?»

«Non riesco a seguirlo bene. Troppe cose che non conosco, e di conseguenza non capisco. Non so perché ce l’abbiano passato.»

«È il problema di tutti i libri che ci passano, no? Che ne sappiamo di altri mondi?»

Ed è vero: conosciamo bene il nostro, che consiste nella Camera, nel bagno e nei pozzi, e nient’altro. A dire il vero c’è anche il corridoio, che percorriamo tutti i giorni almeno due volte, ma lì non c’è niente – solo un pavimento senza pareti.

Al mattino, quando ci svegliamo, abbiamo meno di un’ora per prepararci e indossare la tuta, e poi gli Operatori di turno quella giornata devono trovarsi fuori dalla Camera e andare nei pozzi. E così eccoci nel corridoio. Come vi dicevo, nel corridoio non si vedono le pareti perché sono troppo lontane. Alcuni pensano che il corridoio sia infinito in larghezza: in lunghezza conta solo mezzo chilometro. Nessuno di noi è mai riuscito a trovare queste benedette pareti. Anche quella mattina ci mettemmo in cammino di buon passo, chiacchierando, finché il pavimento non prese a scendere brutalmente verso il basso, costringendoci ad avanzare di culo fino a una serie di scale molto ripide, che portano al grande vano dove sono i pozzi.

Anche in questa stanza le dimensioni e i confini non sono chiari per niente. C’è un pavimento, ovviamente, dove si aprono i pozzi. E ci sono le scale per cui si scende e si sale dalla stanza. Ma non c’è soffitto e non ci sono pareti. C’è un delirio di luci, di stelle su fondo nero e milioni di colori, e raggi accecanti che si alternano a battere prima su un pozzo e poi su un altro, e un’arteria di tenebra che ci sovrasta pulsando regolarmente – e un rumore cavernoso, come il respiro di una belva immensa. Ecco perché dico che il nostro mondo è molto grande – in senso fisico, geografico, lo è. Alcuni dicono che sia infinito.

I pozzi non sono che fori circolari nel pavimento di metallo. Ce n’è quasi un migliaio, e ognuno ha il suo numero di serie inconfondibile, un suo monitor di controllo, ed è distante dagli altri cinque metri e mezzo. All’interno di ogni pozzo c’è un Utente.

Babatha quella mattina era di turno con me. Non voleva essere lì, e nemmeno io. Tutti e due volevamo tornare a letto, io con lei, lei probabilmente abbracciata a Salmanes, che anche se aveva sedici anni era molto popolare anche con le ragazze più grandi. Così ci confortavamo parlando, almeno finché non siamo arrivati ai pozzi. Perché dopo non c’è mai tempo per nient’altro, se non lavorare.

Gli Operatori badano ai pozzi e agli Utenti che sono dentro ai pozzi. Lo fanno da sempre, e lo faranno per sempre. Ogni tanto ce ne arriva uno nuovo da fuori, penso per evitare l’inbreeding, ma quasi sempre è un neonato e non ricorda da dove viene o se c’è qualcosa al di là di questo nostro mondo. Qualcuno evidentemente ha disposto le cose in modo che funzionassero così, ma non sappiamo chi. Sappiamo solo che ci nutrono e ci fanno stare dove stiamo, e che se non lavoriamo succedono brutte cose dentro di noi, quelle malattie che ti mangiano dall’interno. Non è bello da vedere, e così lavoriamo.

Babatha, io e il mio amico Barathes eravamo stati assegnati al pozzo 245 per tutta la mattina e forse per il pomeriggio – dipendeva da quanto in fretta avremmo risolto il problema dell’Utente. Dopo una mezz’ora di cammino siamo arrivati al pozzo: non c’era quasi nessuno in giro lì intorno, e la luce nel vuoto sopra di noi danzava senza senso.

«Ma quindi tu e Meheridates state ancora insieme?» ha chiesto lei.

«Perché?» ha chiesto lui a sua volta.

«Vi ho sentiti ingropparvi tutta notte.»

«Delicatissima» ho interloquito.

«Fatti i fatti tuoi» ha risposto Barathes, che è uno abbastanza riservato.

«Però a Themes lo dici.»

«Sì, Themes è mio amico.»

«E io no?»

«No, finché non gliela dai.»

«Non gliela darò mai. Lo vizierei.»

Abbiamo riso come tre cretini. Poi, buttate a terra le nostre borse, ci siamo chinati sul monitor del pozzo per leggere la comanda:

Ricostruzione corpo e verifica condizioni di salute. Eventuale conforto.

Ci siamo sporti sul pozzo, pieno di un liquido bluastro fosforescente che sobbolliva e svaporava come l’acqua nelle nostre vasche.

«Non capisco» disse Babatha. «Dov’è l’Utente?»

Per quanto guardassimo dentro il pozzo, non si vedeva traccia di un corpo. Solo acqua e il fondo scuro, forse chilometri più in basso. Questo era strano. Non potendo far altro, rimanemmo dov’eravamo per dieci minuti almeno. Poi dal fondo del pozzo ci è parso di vedere qualcosa che saliva verso di noi, fermandosi a galleggiare a pelo d’acqua.

«Avevate mai visto questo Utente?» ho chiesto.

«No.»

«Io sì. Molto tempo fa.»

Deglutii.

«Ti risulta che ci fosse solo la testa, Barathes?»

«No.»

Misi le mani nell’acqua, presi delicatamente la testa dell’Utente e la tirai fuori. Del resto del corpo non c’era traccia. Controllammo il collo. Buona parte delle terminazioni nervose, compreso il midollo spinale, era stata troncata e ricucita con cura. Invece i vasi sanguigni, vene o arterie che fossero, erano attaccati ad altrettanti tubicini di plastica, a loro volta fissati a un curioso macchinario di piccole dimensioni e consistenza morbida. Nei tubicini vedevamo scorrere il sangue.

«Che cos’è, Babatha?»

Babatha esaminò l’oggetto.

«Ossigena il sangue, vi scioglie nutrienti fondamentali, e lo rimette in circolo perché torni al resto della testa» dichiarò alla fine. «Praticamente sostituisce il corpo e impedisce che il cervello muoia.»

La testa aveva i capelli biondi, gli occhi azzurri e gonfi come cipolle per un pianto silenzioso e disperato. Appoggiai con tenerezza la testa e il macchinario accanto al pozzo.

«È cosciente?» chiesi.

Barathes accostò l’orecchio alle labbra dell’Utente, che continuava a piangere silenziosamente e a mormorare qualcosa, muovendo appena le labbra. Ogni tanto inghiottiva del muco, che vedevamo scorrere nei tubicini di plastica e scomparire nel macchinario che ronzava.

«Dice che è pazzo, pazzo per sempre. E che Dio è la merda del nulla.»

Ci guardammo.

«Non capisco cosa dobbiamo fare.»

«La comanda dice ‘ricostruzione corpo’, ma ci vorrebbe il corpo.»

Mi sporsi di nuovo sul pozzo. Qualcosa era comparso, molti metri più in basso.

«Barathes, clicca ‘emersione’ sul monitor.»

Immersi in acqua le mani fino al gomito. Dopo pochi secondi, sentii le braccia di un corpo umano sotto le palme.

«Aiutatemi» chiesi.

Ci mettemmo in tre, lo prendemmo da sotto le ascelle e lo tirammo fuori dal pozzo. Era un corpo nudo, glabro a parte un po’ di pelo biondo sul pube e sull’ombelico, e completo di tutto tranne la testa. Al suo posto stava un macchinario di consistenza morbida, attaccato al collo come una borsa di pelle, e che – ci spiegò Babatha – badava a far funzionare cuore, reni, stomaco eccetera al posto del cervello che non c’era.

«Voglio morire» sussurrò la testa, e questa volta si sentì. «Voglio morire.»

Non riusciva a smettere di piangere.

«Mi pare tutto chiaro» disse Babatha. E anche noi cominciavamo a capire. Io sono un chirurgo – avrei dovuto riattaccare testa e corpo. Babatha, un ingegnere, si sarebbe occupata di smontare i macchinari. Barathes, che è un terapeuta, doveva provvedere il conforto di cui parlava la comanda, cioè assistenza psicologica quando l’amico si fosse risvegliato dall’anestesia totale.

«Come ti sembra messo al momento, Barathes?», chiesi.

«Male» rispose Barathes, che stava guardando negli occhi l’Utente. «È in stato di shock e non risponde a nessuno stimolo.»

«Dio è la merda del nulla» sibilò la testa, e singhiozzò. Senza il torace e il flusso d’aria dei polmoni, la voce era orribilmente sottile e tenue.

Disponemmo la testa e il corpo in posizione. Tirammo fuori ciascuno i suoi strumenti.

«Gli farai l’anestesia totale, vero?» mi chiese Barathes mentre carezzava la testa dell’Utente.

«Il problema è un altro. Per riattaccare i due pezzi mi servirebbe prima staccare queste due borse di circuiti.»

«A quello ci penso io» disse Babatha.

«Ok, ma quando le stacchi queste smettono di pompare sangue ossigenato al cervello, o di far funzionare l’organismo senza testa. Passi il corpo, posso mandarlo in stasi perché non sopravvenga la morte cellulare. Ma non posso lasciare il cervello senza ossigeno per non so quante ore. Il macchinario della testa non può essere disattivato tutto d’un colpo.»

«E allora lo spegneremo un circuito alla volta» commentò Babatha. «Io stacco un tubicino, tu riattacchi un vaso, o un nervo. Uno dopo l’altro finché non finiamo.»

«Ok.»

Sistemai una lampada fluttuante sopra di noi, indossai gli occhiali microscopici, disposi in ordine tutti gli attrezzi per la microchirurgia laser. Iniettai nella testa l’anestetico, subito sotto l’orecchio sinistro. Dopo qualche minuto gli occhi dell’Utente si chiusero e potemmo iniziare.

«Barathes, reggi tu la testa?»

«Certo.»

E sedemmo in tre a gambe incrociate, in cerchio.

Il taglio non era perpendicolare alla verticale del collo, ma diagonale: partiva dalla base della nuca e scendeva fino alla connessione tra lo sterno e la clavicola. La perfetta corrispondenza del taglio ci confermò che non erano una testa e un corpo a caso, ma parti separate di uno stesso individuo. Procedemmo punto per punto. Babatha staccava un collegamento dalla testa e il suo corrispondente nel corpo; io intervenivo suturando immediatamente in modo che testa e corpo non perdessero troppo sangue, e poi procedevo a riaprire e ricucire le due estremità del vaso o del nervo. Infine inserivo gli innesti rigeneranti sulle cuciture di arterie, vene, nervi e ossa perché si riconnettessero più in fretta. Un collegamento dopo l’altro, sangue e impulsi elettrici ricominciavano a viaggiare dal cervello al corpo. Ci vollero qualcosa come otto ore di fila per riattaccare tutto. Quando finalmente arrivai a riconnettere i due tronconi di colonna vertebrale e midollo spinale e il cervelletto tornò a dare ordini al corpo, tirai un sospiro di sollievo. Il grosso era fatto. Inserii gli innesti staminali sui lembi di pelle del collo lungo la linea del taglio, ed essi ricostruirono muscoli, epitelio e cute. Barathes sollevò l’Utente in posizione seduta, e la testa reclinò dolcemente sullo sterno – ma non rotolò via. L’operazione era riuscita.

Babatha e io cademmo sdraiati sul pavimento con un tonfo. Deliravo di stanchezza: parlai per non so quanto con mia nonna morta da dieci anni. Quando mi fui ripreso, mi voltai per vedere come se la passava l’Utente. Stava uscendo dall’anestesia: era ancora appoggiato su Barathes, anzi circondato dalle sue braccia. Appena si riebbe, per qualche minuto non parve capire in che mondo fosse. Mosse le braccia, le gambe, le punte dei piedi, come se non ci credesse. Poi si strinse con forza nell’abbraccio del mio amico, raggomitolandosi in posizione fetale e scosso dai singhiozzi. Barathes, che è un omone di quasi due metri, non ebbe difficoltà a cingerlo. Li sentii conversare.

«Sono pazzo per l’eternità, Dio è la merda del nulla e io voglio morire.»

«Stai benissimo, amico. Bentornato tra noi. Sei come nuovo. Senti il tuo corpo che si muove con te?»

«Posso stare qui? Posso non alzarmi?»

«Certo, finché vorrai.»

E gli strinse la mano, cui l’Utente si attaccò con forza.

«Mi hanno staccato la testa dal corpo» mormorò tra i singhiozzi. «Ero nel pozzo, immerso nell’acqua, viaggiavo con la mente non so dove. Mi hanno estratto, io ho detto loro che dovevo fare altre cose. Non mi hanno risposto. Sono stato immobilizzato.»

«Tranquillo» ripeteva Barathes. «È tutto finito.»

«Ero ancora quando l’hanno staccata» continuava l’Utente. «Ero cosciente. Stavo sopra un tavolo e non sentivo più il corpo, solo la superficie gelata del metallo. Il corpo era sull’altro pianale. Ci lavoravano.»

Si divincolò dalla stretta di Barathes. Tememmo che diventasse violento, ma in realtà voleva solo mettersi a quattro zampe e vomitare. Barathes gli resse la testa e poi lo riprese nel suo abbraccio. A poco a poco la sua voce di basso e il vibrare del suo petto calmarono l’Utente, che schiacciò la faccia sul suo bicipite come fosse un cuscino. Nel frattempo sia io che Babatha ci sedemmo accanto a Barathes.

«Adesso che facciamo?» chiese lei.

«Lo rimettiamo nel pozzo» risposi io.

L’Utente mi fissò con orrore.

«No. Nel pozzo no. Lo rifaranno. Non mi lasceranno in pace.»

«Gli Utenti vivono nei pozzi» replicai io.

Sporse la mano e mi strinse il braccio.

«Portatemi con voi. Nella vostra Camera. Nascondetemi lì. Vi spiegherò tutto. Vi racconterò cosa succede nei pozzi.»

Era una cosa talmente priva di senso che nessuno di noi tre rispose. L’Utente ebbe un sussulto, si raggomitolò di nuovo contro Barathes.

«Siamo la stessa cosa, io e voi, sapete. Lo capisco ora che vi vedo. Non dobbiamo fare il loro gioco. Io sono umano come siete umani voi tre.»

Babatha scosse la testa, confusa.

«Ma no. Noi siamo Operatori, tu sei un Utente. Non è mica la stessa cosa.»

«No, no, no» esclamò lui. «Non ci cascate, siamo la stessa specie. Ascoltatemi! Nei pozzi noi viaggiamo. Buttiamo energie chimiche, combustibile, e le nostre menti si espandono – lassù nell’universo infinito, fuori da questa tomba di metallo dove ci hanno chiuso. Non potrebbero gestire il loro mondo senza di noi. Hanno bisogno di noi. E hanno bisogno di voi perché badiate a noi. Ma è tutto un unico sistema, abbiamo lo stesso padrone. Mi capite?»

Mi portai una mano alla fronte. La solita emicrania da sfinimento. Babatha era indispettita. Solo Barathes, in apparenza calmissimo, continuava a stringere la mano dell’Utente, e ad accarezzarlo sulle spalle e sulla nuca.

«Dobbiamo immergerlo» disse Babatha a un certo punto. «Verremo puniti se tardiamo ancora.»

«Venite con me. Vi mostrerò come si vive nei pozzi» ripeté l’Utente guardando ora me, ora Babatha. «Non volete vedere l’universo? Non volete sapere cosa c’è fuori di qua?»

Né io né lei avemmo la forza di rispondere. Ci sentivamo confusi e come violati. Barathes si alzò in piedi, aiutò l’Utente a rialzarsi, lo abbracciò e gli sussurrò nell’orecchio qualcosa. L’Utente lo guardò e parve rassegnarsi. Ricominciò a piangere come formaggio che suda, lacrima dopo lacrima, in silenzio. Si sedette sull’orlo del pozzo, mise le gambe a mollo. Barathes gli si fece accanto.

«Amico, non avere paura. Non ti faranno nulla che noi non possiamo rimettere a posto, come stavolta.»

«Francamente spero di non rivedervi mai più» rispose lui.

L’acqua del pozzo cominciò a sobbollire e brillare con più violenza. Puntellandosi sulle mani, l’Utente si immerse di nuovo nel pozzo, e vi scomparve all’interno, inghiottito dal vortice. Lo vedemmo scendere fin dove quasi non lo distinguevamo più, e lì fermarsi, sfolgorando di luce, mentre tornava a quella vita misteriosa di cui aveva provato a parlarci. Poi ci alzammo, e senza dire niente tornammo verso le scale di accesso, perché il turno di lavoro era finito. Ripercorremmo il corridoio, sempre in silenzio, insieme ai compagni e alle compagne, incontrando l’altro scaglione che veniva verso di noi per iniziare il loro turno. Nessuno di noi aveva le forze, o il coraggio, di parlare di quello che avevamo visto e sentito. Nella Camera ci separammo, ognuno verso il suo letto dove cademmo come marionette senza fili. Io in realtà rischiai di inciampare nella pentola dove mio nonno stava facendo il sugo di cipolle da – a occhio e croce – otto ore e mezza, per fortuna senza conseguenze sul sugo o sulle mie tibie. Ebbi appena il tempo di vedere che Thopheise mi aveva lasciato sul cuscino un libro arrivato da poco, Guerra e pace, con un biglietto (‘se ti sei rotto di Anna Karenina, ridammelo e leggiti questo’) e un cuore a matita rossa. Ci siamo sempre voluti bene, io e mia cugina. Sono un po’ geloso che fa le cosacce con i suoi compagni di classe nelle docce, pensai mentre il cervello mi si spegneva sul cuscino – e poi, prima di addormentarmi: oggi è stato un turno davvero strano, e bisogna che domani lo metta per iscritto, magari aggiungendoci un po’ di contesto, perché qui tutti ci dimentichiamo di quello che ci mette in difficoltà, e me lo dimenticherò anche io se non me lo segno da qualche parte. Sai mai che interessi a qualcuno oltre a me, magari uno che vive fuori di qui.


Giulio Iovine è nato a Bologna nel 1987. Laureato in lettere a Bologna, dottorato a Urbino, assegno di ricerca a Napoli, da febbraio 2021 ricercatore all’Università di Bologna, dove studia manoscritti antichi e insegna Papirologia. Pubblica prose, meme, teatro e video sui suoi profili Facebook Facebook e Instagram (hashtag #dinosaurifuturi), nonché sul suo blog (Il Monte Analogo); racconti brevi su riviste (tra cui Crack, Digressioni, Dimensione cosmica, Enne2, Kairos, Malgrado le mosche, Smezziamo lista completa); e romanzi su Wattpad (Francesco Storbini). È membro della redazione della rivista Spaghetti Writers.

Su Specularia ha giù pubblicato il racconto Ne farai un altro

Illustrazione di Carlotta Contino