Avevamo scavato tutto il giorno, ma George insistette perché tornassimo sul sito dopo cena. Provai a dirgli di no.
«Fidati, la sera è bellissimo.»
«Ma eravamo lì un’ora fa.»
«La sera è diverso.»
Ma sì, tanto volevo morire, che mi fregava di una camminata in più?
Ci allontanammo dal campo base, inoltrandoci nella foresta; scendemmo giù dal fianco della collina, verso il fiume, finché non fummo nuovamente in vista del costone di roccia bianca e rosa che si apriva nudo in mezzo agli alberi, a strapiombo sull’acqua.
Ci batteva ora direttamente il sole, per le ultime ore prima di scomparire sotto le chiome verdi delle betulle. La pista al centro del costone dove scavavamo da mesi, strappando alle viscere della terra un percorso di una ventina di impronte, era perfettamente visibile. George commentò che al tramonto quel luogo era ancora più carico di magia che di giorno. Mi indicò una per una le orme a tre dita nella pietra, una dopo l’altra, piede destro piede sinistro piede destro piede sinistro, il ritmo calmo della falcata, un animale che stava camminando al suo passo consueto.
«Quando le ombre si allungano, e la foresta diventa silenziosa» mi disse George, «non ci pensi davvero che queste orme sono vecchie di milioni di anni. Ti aspetti che chi le ha lasciate fosse qui un’ora fa, e se hai pazienza lo incontrerai mentre torna indietro.»
«Vero, bellissimo» risposi, lo sguardo grigio d’indifferenza.
Lo lasciai parlare per cinque minuti, poi non riuscii più a sopportarlo e tagliai corto.
«Senti, tu torna pure al campo, io mi faccio una passeggiata nei dintorni. Magari sul fiume, che a quest’ora è fresco. Torno prima di notte.»
«Ok, ma stai attento. Ci hanno segnalato dei lupi nei paraggi. Ce l’hai la pistola?»
«Macché lupi e pistola.»
«Parlo sul serio. Sei sicuro di voler stare solo?»
«Ma stai tranquillo. Arrivo fino al fiume e torno».
Presi così a scendere la collina in direzione del fiume, andando a zigzag tra i tronchi graffiati delle betulle. Il rumore dell’acqua corrente cancellava il silenzio della foresta che si addormentava. Ma invece di tornare indietro come promesso, guadai il fiume e mi inoltrai nel bosco, tutto chiazze di luce, macchie di verde e ombre che si allargavano in sbadigli di tenebra.
Lupi! Questo pensiero mi tolse alla mia tetra indifferenza. La mia ultima mossa era stata un po’ idiota. Partecipo a scavi paleontologici da quasi dieci anni nelle zone più improbabili del pianeta e so benissimo che oggi come oggi, se ti allontani troppo dalla sicurezza del tuo campo base, mangiato da un lupo ci finisci eccome. Magari non sull’autostrada del Connecticut, come dice lo zio Steve, ma nel mondo è pieno così di boschi abbastanza profondi, di forre vaste abbastanza, perché la natura torni a prendersi quello che è suo. Come a volermi fare del male da solo, presi lo smartphone e googolai in giro qualche nome che mi ricordavo. Voilà. I poveri Kenton Carnegie, Stanley Russ, Brent Woodland. Più non so quante decine di contadini russi sull’Amur. Tutti debitamente morsi, trascinati via, sbranati. Tutte vittime che al momento dell’attacco andavano in giro da sole in condizioni di semioscurità, tipo me. Ma anziché essere spaventato, mi scappò da ridere. Quando, mezz’ora dopo, notai con la coda dell’occhio che a centro metri da me, camminando discretamente nel sottobosco in modo da non farsi vedere, mi seguiva un lupo grigio, continuai a trovare la cosa divertente. Mi dicevo: vuoi morire, Michele? Si vede che finora non ti ci sei impegnato granché, ed ecco che qualcun altro ci sta pensando al posto tuo. Qui non è che abbiamo tempo da perdere.
Continuai a camminare a passo svelto, piegando di nuovo verso il fiume da cui mi ero allontanato. A un certo punto pensai bene di voltarmi di scatto. Feci in tempo a vedere, forse a duecento metri, un altro lupo appiattito sul tappeto di foglie secche. Stava immobile mentre io ero fermo, ma riprendeva a muoversi se ricominciavo a camminare.
Ok, pensai, non è un curioso solitario, è un branco e mi stanno dando la caccia. Questo pensiero spense nel mio cervello un interruttore in funzione da ormai un anno, da quando Francesco era morto, e ne accese un altro che stava lì a fare le ragnatele. Accelerai il passo. Il fiume non era profondo e non sarei mai riuscito a scappare a nuoto. Tornare indietro era impensabile. Chiamare i soccorsi anche, non sarebbero mai arrivati in tempo. Addentrarsi ancora di più in mezzo al bosco si poteva fare, ma mi era chiaro che tempo cinque minuti mi sarei trovato un terzo lupo davanti, o che si avvicinava dal fianco sinistro; avrei cominciato a correre, loro a inseguirmi, e in capo a mezz’ora era fatta. Per me, intendo.
Incidentalmente, eravamo ormai al tramonto. Le ombre erano lunghissime. Tenendomi vicino alla riva del fiume avevo una buona visuale sulla vallata che si incuneava tra le due colline dove stavamo scavando. I confini delle foglie, dei tronchi, dei colli erano incandescenti per la luce radente, gli oggetti controsole sempre più neri, ma nitidi. Mi trovò quindi del tutto impreparato quello che a un certo punto vidi davanti a me.
Nonostante avessi il sole davanti, un’intera area del bosco che avevo di fronte era diventata sfocata. Mi toccai la faccia: gli occhiali li avevo. E comunque era impossibile che fosse un problema di miopia: avrei dovuto vedere tutto fuori fuoco, non solo quella specie di vortice dove i colori e le linee del bosco andavano a picco come in una centrifuga. D’istinto andai verso il turbine, guardandomi intorno. Anche i sassi, le foglie morte, le piante accanto a me nel sottobosco sembravano divenire sfocate e nebulose. Sempre guardando a terra misi lo scarpone su un’ombra insolitamente grande e lunga, di qualcuno che stava davanti a me. E così alzai la testa.
Di solito quando racconti un fatto che ti è capitato, insisti spesso su quanto ti abbia colto impreparato. E giustamente: se non fosse così, non varrebbe la pena ricordare il fatto stesso. Non fa notizia quando imbrocchi qualcosa al primo colpo. Pure, nella generale disgrazia di quel momento, riconobbi in meno di cinque secondi che ciò che avevo davanti era intimamente connesso con il mio lavoro.
Avevo davanti una creatura più alta di me di almeno un metro, e lunga forse cinque; longilinea nelle forme, con gambe snelle, coda ben dritta e braccia ad articolazione bloccata, le palme degli arti anteriori una in vista dell’altra, la colonna vertebrale parallela al suolo, i denti bene in vista nella bocca semiaperta. Il corpo era cosparso di un sottile manto di soffici piume di colori diversi e vivaci, il blu che si fondeva col verde e col carminio, le macchie nere sulla livrea dorsale che circondavano cerchi dorati e vermigli. E ancora: il femore leggermente più lungo della tibia, il premascellare che si connetteva alla mascella con una fossa subnasale, le due creste di cheratina longitudinali sul cranio. Insomma, fu per me naturale puntare il dito ed esclamare: «Dilophosaurus wetherilli!»
Lì per lì non sembrò notarmi. Muoveva la testa in tutte le direzioni, annusando rumorosamente e spostando lo sguardo su mille diversi particolari dell’ambiente che lo circondava. Mi ricordava un’aquila al culmine del suo volo, quando setaccia il terreno che ha sotto di sé centimetro per centimetro per scovare una preda.
Poi mi vide e disse: «Prego?»
Sospirai. Certo, che senso aveva per lui il nome della sua specie?
«Niente. Sta cercando qualcosa in particolare?»
«Credo di essermi perso» rispose.
«Non è di qui?»
«Al contrario, io vivo qui da sempre» replicò lui. «Solo che qui non è più il qui che ricordavo. Non credo di avere mai visto una foresta così fitta.»
E certo che non l’hai mai vista. Ai tuoi tempi non c’era ancora, pensai. Cominciavo a fare due più due. Era casa sua, certo. O almeno, lo era stata qualche centinaio di milioni di anni prima. Le orme che andavamo scavando da mesi erano probabilmente le sue.
«Credo che sia un problema di tempo» risposi. «Siamo sempre a casa sua, ma moltissimi anni dopo. Lei è passato attraverso quella…»
E indicai il paesaggio sfocato che stava dietro di lui.
«… non so, quella porta…? E ha fatto un salto in avanti.»
L’altro si voltò, guardò bene dentro la sfocatura, tornò poi a guardare me.
«Il che spiegherebbe perché, da quando sono al mondo, non ho mai visto in giro niente che somigli a te. Forse, da dove vengo, non sei ancora nato.»
Impeccabile.
«Però ieri ho fatto lo stesso percorso, e anche l’altroieri – e quella sfocatura non c’era.»
«Anche io bazzico da queste parti da un po’, perché ci lavoro con la mia équipe, e non l’ho mai vista.»
«Un fenomeno temporaneo?» azzardò lui.
«Probabilmente limitato nel tempo» risposi annuendo gravemente.
«Tu hai una spiegazione?»
«No. Lei?»
«Nemmeno. Ma ha importanza?»
«No.»
«Concordo» concluse. «Non mi resta, finché perdura il fenomeno, che tornare da dove sono venuto. Così chiuderemo questa brutta giornata.»
«Cercava qualcosa di particolare?»
Abbassò la testa.
«Non lo so di preciso. Stavo girando in tondo, cercavo di capire come togliere d’impaccio i miei pulcini. Ma non mi viene in mente niente. Sono addirittura finito nel tempo sbagliato, a forza di non pensare a dove vado.»
«I suoi pulcini? Lei è una mamma?»
«Un padre. Sono un lui, non una lei.»
«Ah sì?»
«Nella mia specie sono io che covo le uova e tiro su i figli.»
Ebbi un sussulto.
«Vedi un po’. E lei ha due pulcini?»
«Li avevo fino a stamattina. Ormai posso dire di averli persi. Pazienza! Mi conviene tornare sui miei passi e dimenticarmi quest’altra sfortuna.»
Fece per tornare indietro, ma lo chiamai:
«Aspetti. Non abbia fretta. Mi spiega che le è successo?»
Si voltò di nuovo, guardandomi negli occhi. Lo sguardo mi stregò. Poteva esserci qualcosa di più remoto di quegli occhi spalancati e gelidi? Di quella cortese indifferenza?
«C’è poco da spiegare. Io vivo sulla collina qui vicino. Di giorno fa caldo e sto con i pulcini nel sottobosco sulla cima del colle, a prendere l’ombra. La sera e la mattina approfitto del fresco e scendo a bere al fiume – se ho fortuna, anche a cacciare. Poche ore fa c’è stato il primo temporale della stagione umida, è venuta giù anche la grandine. Mi sono perso i pulcini, sono ancora piccoli. Li ho trovati poco dopo l’acquazzone, sono caduti in una fossa profonda e ripida. Ho provato a scendere e ripescarli, ma mi è impossibile. Ho girato in tondo senza sapere che fare. Sono finito qui. Adesso torno indietro.»
«E poi che fa?»
«Continuo verso il fiume.»
«E i pulcini?»
«Ormai è andata.»
Cominciavo a iperventilare. Mi sentivo addosso un calore soffocante. Ignorai persino l’ululato di un lupo a poca distanza da lì.
«Macché andata. Non vorrà mica che restino lì a morire di fame o di caldo.»
Scosse le penne sul dorso, poi il collo e la testa, come un cane perplesso.
«I pulcini muoiono. È nell’ordine delle cose. Ogni anno covo venti uova, e ogni anno perdo almeno diciotto pulcini prima che arrivino a sei mesi di vita, se ho fortuna. Tra predatori e malattie, l’infanzia dalle mie parti non è molto allegra. Davvero non ho tempo di perdere il sonno su un problema che non risolverò.»
Un altro ululato interruppe la nostra conversazione. Di nuovo, l’interruttore nel mio cervello si accese. Una serie di pensieri mi attraversò la mente, talmente rapida che non seppi nemmeno io cosa avevo pensato. Mi limitai a dire:
«Senta, come lei è venuto in qua, così posso andare in là io. Se io l’aiuto a tirar fuori i suoi pulcini da non ho capito dove, lei mi dà una mano con un problema che ho?»
Rimase a guardarmi, alto sopra la mia testa, per un istante che mi parve eterno.
«E come pensi di fare a scendere nella fossa e tirarli su?»
Alzai le mani, trionfante, in modo da fargliele vedere bene.
«Guardi. Vede? Cinque dita, posso girare le palme in tutti i sensi e ho il pollice opponibile. Mi posso arrampicare dove mi pare. Lei non può, ha l’articolazione del braccio bloccata, giusto?»
Il mio interlocutore si guardò le zampe, guardò le mie mani e rispose:
«Notevole. E quale sarebbe il tuo problema?»
Tirai fuori dallo zaino una torcia, la puntai all’indietro, dove il bosco si era ormai fatto tenebra. Non ci volle molto perché nel raggio di luce comparissero, a pochi metri da noi, due occhi gialli e una schiera di denti digrignati.
«Vede? Ne ho due alle calcagna. Forse tre.»
«Quattro» mi corresse lui. «Tre li vedo da qui, del quarto sento l’odore.»
«Ecco. Fantastico. Facciamo che io le metto in salvo la prole, e lei mi leva dai piedi queste bestiacce?»
Stette immobile a pensare. Poi: «Va bene. Proviamo.»
«Ci rivediamo qui fra…»
Stavo per dire una mezz’ora, ma che senso aveva per lui, poveretto?
«…fra un po’?»
«Quando avremo finito» ribatté lui; e con una falcata improvvisa si mosse verso il bosco alle mie spalle, annusando l’aria e guardandosi incessantemente intorno. Non persi tempo e partii di buon passo verso il vortice sfocato davanti a me. Tutto si fece confuso e silenzioso, e un secondo dopo ero a casa del mio nuovo amico.
Mi trovavo ai piedi, sempre meno ripidi e più dolci, di un’alta collina rocciosa, col sole a picco sopra di me. Curioso che il vortice avesse connesso due tempi diversi dello stesso luogo, ma non alla stessa ora – da me era quasi notte, qui mezzogiorno. Intorno non c’erano che massi erratici, sassi, erba secca e polvere, tranne sotto di me, dove scorreva un fiume gonfiato dalla pioggia di poco prima. Qui e lì intravedevo i germogli che cominciavano a venir fuori, pronti a inverdire la pianura alluvionale. Non c’era un suono, né anima viva intorno.
Mi diedi subito a cercare la fossa di cui aveva parlato il mio interlocutore. Ci misi poco a trovarla; era dietro a una butte di roccia liscia che digradava in un buco nel terreno, pieno d’acqua sul fondo e cosparso di fango. Mi sporsi. Sulle pareti c’erano abbastanza punti di appoggio per arrampicarsi, se avevi quattro arti funzionanti e nessuna coda. Il mio interlocutore non ce l’avrebbe mai fatta senza rompersi l’osso del collo. Per me era perfettamente affrontabile. Mentre scendevo, riuscii anche a scorgere, rannicchiati sul fondo, a mollo nell’acqua fangosa, due pulcini di Dilophosaurus wetherilli, non più grandi di un gatto domestico, con ancora indosso la livrea pezzata dei nidiaci. Pigolavano senza speranza, come coccodrilli che chiamassero la mamma.
Toccai terra, affondando con gli stivali nel fango; mi avvicinai. Rimbambiti dalla mia stranezza di mammifero, i pulcini non scapparono: si limitarono a fissarmi. Aprii lo zaino e uno dopo l’altro ce li ficcai delicatamente dentro; ripresi a salire. Sudato fradicio, misi una mano sulla terra solida della cima con un grido di esultanza, che si trasformò in un mezzo attacco isterico quando mi resi conto che i pulcini, poco convinti della mia manovra, mi avevano forato lo zaino con gli artigli e stavano cercando di scappare. Mi toccò prenderli in mano, reggendoli per le pance piumate, e tenermeli attaccati ai fianchi, sopportando i loro morsicotti e i calci con le zampe artigliate.
Fu più o meno a pochi metri dalla regione sfocata che crollai in ginocchio e cominciai a piangere.
Mi aveva fregato il contatto, capite, la mia pelle contro le loro piume calde. Quando Francesco era ancora neonato, me lo tenevo a dormire sulla pancia nuda nei pomeriggi d’estate. E lui dormiva per ore, tranquillo, andando su e giù col mio respiro. Lo cullavo, lo cambiavo, lo pulivo, gli davo il biberon, ma in un modo o nell’altro lo avevo sempre con me, sempre attaccato a me, il suo corpicino contro il mio. Ero pieno di ansia – temevo che la mancanza di sua madre, che non lo aveva mai veramente voluto, lo ferisse per la vita. Poi in realtà avevo lavorato per nulla, se lo era portato via una malattia prima che compiesse un anno, e hai voglia a distrarti col lavoro – va bene, il lavoro mi piaceva, ma il lavoro non è un farmaco né una terapia psicologica, né un modo per evitare l’uno e l’altra. Avrei persino accettato di farmi divorare dai lupi, ma sopportare di nuovo lo schiaffo di quel ricordo! Provai a rialzarmi, andai avanti alla cieca, piangendo a dirotto. Magari adesso mi sbranerà lui al posto dei lupi, pensavo, sentendo di nuovo sul mio collo e sulla faccia l’aria fresca della foresta, la luce del sole morente, l’umidità del fiume.
Aprii gli occhi quando ormai ero quasi a mollo nell’acqua con gli stivali. Avevo davanti a me il mio interlocutore, la coda dritta verso l’alto, le mascelle immerse nel fiume. Stava bevendo a grandi sorsate, tirando su la testa ogni volta e ricacciandola giù tra le onde. L’acqua intorno era sozza di sangue. Ai suoi piedi stava la carcassa di un lupo grigio, aperta nel ventre, con gli organi interni sparsi lì accanto. Dall’ampiezza dell’apertura, realizzai che era bastato un solo morso.
«Fresca» commentò dopo l’ultimo sorso. Poi si voltò e mi riconobbe.
«Ah! Ci sei riuscito davvero. Te ne ringrazio.»
Lasciai cadere a terra i pulcini, che schizzarono come fulmini sotto al bacino del padre.
«Qui è tutto risolto» mi spiegò. «I primi tre li ho spaventati con qualche verso. Il quarto era molto coraggioso o molto ingenuo.»
«Gli altri sono scappati?»
«Sì. In quella direzione.»
E mi indicò con il muso la parte opposta a quella che dovevo prendere per tornare al campo base.
«La ringrazio» dissi con un filo di voce.
«Dall’odore non mi sembri molto a posto» rispose.
E te lo credo. Tra il fango, i graffi, il sangue sulle mani, la faccia paonazza, il muco al naso e il singhiozzo, dovevo essere un trionfo per i suoi lobi olfattivi.
«I pulcini ti hanno dato noia?»
«Neanche tanto, è solo che…»
Mi fissò, immobile.
«…fino a qualche tempo fa avevo un pulcino anche io» dissi con un groppo in gola. «E poi niente, è morto.»
Rimase in attesa.
«Insomma, come sono morti i tuoi, presumo. Però noi facciamo meno pulcini, per cui se li perdiamo ci restiamo… non so, peggio?»
A queste parole, il mio interlocutore si mosse verso di me ad ampie falcate tranquille; mi superò, puntò verso la regione sfocata, ormai avvolta nella notte come tutta la foresta. I pulcini gli tenevano dietro pigolando. Prima di entrare nella sfocatura, si voltò e mi disse:
«La stagione degli amori viene ogni anno. Quando sarà il tempo, se sarai vivo, ne farai un altro. E alla stagione dopo, un altro ancora.»
Nella penombra della notte trionfante, mi si mozzò il fiato. Ci guardammo negli occhi per un ultimo secondo. Fui tramortito dal remoto pragmatismo di quel padre antico. Gli risposi col silenzio – anche il mio singhiozzo si era spento. Lui dal canto suo si voltò, marciò nella sfocatura e scomparve.
A me non rimase, guadato il fiume, che tornare verso il campo base, cercando di pulirmi la faccia fradicia, ferita dal vento notturno, pensando – tra un singulto e l’altro – che forse anche io, come quel padre di un’altra specie, avevo ancora, quale che fosse, un futuro.
L’autore
Giulio Iovine è nato a Bologna nel 1987. Laureato in lettere a Bologna, dottorato a Urbino, assegno di ricerca a Napoli, da febbraio 2021 ricercatore all’Università di Bologna, dove studia manoscritti antichi e insegna Papirologia. Pubblica prose, meme, teatro e video sui suoi profili Facebook Facebook e Instagram (hashtag #dinosaurifuturi), nonché sul suo blog (Il Monte Analogo); racconti brevi su riviste (tra cui Crack, Digressioni, Dimensione cosmica, Enne2, Kairos, Malgrado le mosche, Smezziamo – lista completa); e romanzi su Wattpad (Francesco Storbini). È membro della redazione della rivista Spaghetti Writers.
Illustrazione di Carlotta Contino