Naftalina

[Racconto già pubblicato su Specularia Dicarta numero uno]

Carmine Roccia aveva fretta.

Uno sguardo all’orologio da polso, un ripasso mentale agli impegni della mattinata, avvolto dalle spire di vapore che s’arricciavano dal lavandino e dal profumo di schiuma da barba costosa.

Porto Marica a scuola. Un salto all’Unicredit appena tirano su le serrande. Poi dritto in azienda per la riunione delle nove e un quarto con la prima linea. Incontro col responsabile qualità alle dieci e mezza. Pranzo veloce con quel coglione delle risorse umane.

L’idea di dover tenere un ritmo serrato lungo i tortuosi percorsi dell’esistenza gli era stata inculcata dai genitori: la madre responsabile all’anagrafe comunale di Torino, il padre industriale a capo di una delle più importanti fabbriche-satellite della Fiat dedita alla produzione di componenti in plastica per l’automotive. Due figure sempre di corsa, spesso fuori casa, chine su conti e scartoffie, che avevano accumulato più soldi e ore di straordinario che affetti ed esperienze.

Chi dorme non piglia pesci. Il tempo è denaro. Il lavoro nobilita l’uomo. Tieni tutto sotto controllo, sempre. Chi fa da sé, fa per tre.

Mentre finiva di radersi nelle prime luci dell’alba che rimbalzavano sulle piastrelle, pronto ad affrontare una nuova giornata di lavoro, dedicò un pensiero distratto ai suoi vecchi: erano morti anni prima lasciandogli in eredità la fabbrica e un capitale importante, eppure non poteva fare a meno di figurarseli ancora indaffarati e oberati di impegni, lassù, nel regno dei cieli. Di sicuro San Pietro doveva averli messi a gestire qualche reparto del paradiso, e l’immagine mentale gli strappò un sorriso nervoso che lo specchio restituì bianco, brillante, pubblicitario, piazzato in un bel volto mediterraneo, olivastro, impreziosito da occhi nerissimi e da un solido naso romano.

Non dimostrava i quarantacinque anni compiuti la settimana precedente, né se li sentiva: cremine all’acido ialuronico e sedute di jogging, padel e pilates dovevano pur servire a qualcosa, perlomeno a creare la fragile illusione di un tempo rallentato.

Ciononostante, il giorno del suo compleanno, chiuso nel proprio ufficio mentre trangugiava un panino al tonno con pomodorini, aveva provato una fitta di perdita e nostalgia mai sperimentata prima, nemmeno quando aveva compiuto i fatidici quaranta, e s’era domandato: è questo invecchiare? E subito dopo: son diventato come mamma e papà?

Quesiti cui non aveva risposto, richiamato all’ordine dal cellulare che lo aveva informato che di lì a pochi minuti lo attendeva una riunione con l’ufficio amministrativo per discutere di tagli finanziari, esosi lavori di manutenzione che sarebbe stato meglio rimandare e aumento del costo delle materie prime. Per non parlare di quello del gas, della luce.

Non correvano bei tempi per il settore automobilistico. Le vacche grasse erano ormai lontane. La crisi. La guerra. L’incertezza globale. C’era da stringere i denti, fare sacrifici, usufruire della cassa integrazione e sperare che la situazione si risollevasse.

Quel cazzo di Putin…

S’asciugò la faccia con un asciugamano tiepido e uscì dal bagno in rapide falcate, nella cabina armadio impiegò pochi minuti a indossare camicia e completo. Nero, lindo, perfetto.

Poi, scivolando sulle pattine nell’alloggio lussuoso, infilò la testa nella stanza della figlia.

«Psss! Marica! Sveglia! Sono le sette e venti, mezz’ora per fare colazione e vestirti. In piedi, veloce, ché oggi papà ha un sacco di cose da fare».

Poco più che un bozzolo informe sotto il piumone, la bambina si produsse in un lungo sbadiglio e in una serie di sbuffi. «Ma ho sonno, papiii!»

«Non mi interessa, anche io ho sonno, ma devo andare a lavorare e tu a scuola. In piedi. Tra due minuti ti voglio di là. Domani è sabato e stai dalla mamma, potrai dormire quanto vuoi. Oggi no. Metto su il latte. Forza!».

Mentre si spostava in cucina e infilava la tazza nel microonde, udì Marica continuare a lamentarsi. Borbottava tra sé, irritata, e Carmine non poté fare a meno di pensare che avrebbe volentieri scambiato ruolo con la figlia. Una giornata tra i banchi di scuola delle elementari, un giorno soltanto, libero dai pensieri, o alla peggio attraversato da preoccupazioni frivole, scevre di responsabilità.

«Ci siamo?» sollecitò la figlia, e la seguì con lo sguardo mentre ciabattava sino al tavolo e inzuppava il primo biscotto nel caffelatte, gli occhi cisposi, i capelli rossi arruffati, imbronciata.

Dio, quant’è cresciuta! Otto anni? Com’è possibile?

Nella pelle lattea del viso tempestata di lentiggini, nel naso all’insù, nella curva cerbiattesca degli occhi, individuò i connotati della ex-moglie e lo spettro del matrimonio fallito. Una separazione asettica, consensuale. Troppi impegni, troppo lavoro, troppe ore fuori casa, un distacco fisico ed emotivo dopo la nascita della bambina, e Alessia aveva visto più uccelli del parco ornitologico Martinat, così aveva riassunto la situazione a Simone, uno dei pochi amici rimasti dopo gli sconvolgimenti dell’età adulta.

Fanculo, tiro avanti un’azienda che dà da mangiare a cinquanta famiglie, cosa dovevo fare? Non c’è abbastanza tempo per tutto.

Si ricordò che avevano programmato un incontro con gli avvocati per aggiornare la cifra dell’assegno di mantenimento. Già, ma quando? Non ricordava. Ci avrebbe pensato la sua ex a farlo, fuor di dubbio.

Quando Marica finì di bere il latte con suzioni rumorose intervallate da risatine, la aiutò a vestirsi e a preparare lo zaino, continuando a lanciare occhiate all’orologio e pregando che il traffico torinese del venerdì non fosse troppo intenso.

Era intenso.

A metà di Corso Regina si ritrovarono imbottigliati in una muraglia di lamiera, gas di scarico e clacson strombazzanti.

Carmine, aggrappato al volante con l’espressione arcigna di un avvoltoio, pregava di non trovare troppa coda in banca; Marica, stravaccata e imbacuccata sul sedile posteriore, lamentò un principio di mal di gola per tutto il tempo in cui rimasero bloccati nell’ingorgo. Poi, come una sbuffante lumaca di metallo, la colonna di automobili riprese ad avanzare.

Con un gesto stizzito, Carmine accese la radio del SUV. Solite cose: navi cariche di grano ferme in qualche porto ucraino, test missilistici in Corea del Nord, una donna uccisa a coltellate dal marito, una terribile frana in Abruzzo che aveva provocato morti e dispersi. Solite cose, la solita merda.

Nello specchietto retrovisore inquadrò la testolina incappucciata della figlia; s’era assopita, e tensione e impazienza lasciarono spazio a tenerezza e contemplazione. Questione di attimi: l’auto che lo seguiva strombettò un paio di volte, costringendolo a riportare gli occhi sulla strada.

Qualche centinaio di metri più avanti, dopo una rotonda, volteggiavano le luci blu di alcune sirene. Due pattuglie dei carabinieri, un’ambulanza. Un vigile dal ventre pingue regolava il flusso di macchine agitando una paletta con movimenti meccanici e rallentati.

L’incidente doveva essere avvenuto da poco: mentre raggiungeva il punto in cui il traffico cominciava a defluire per poi disperdersi verso la periferia della metropoli, Carmine vide uno scooter disintegrato, due gambe piegate in una posizione innaturale che spuntavano da sotto il paraurti di una Mercedes, quattro anziani che osservavano la scena curiosi confabulando tra loro e una chiazza di sangue che s’allungava sull’asfalto brinato.

Ringraziò che Marica stesse dormendo, e soltanto quando fu lontano dal luogo dell’impatto si rese conto di essere in ritardo. Ma se schiacciava un po’ poteva farcela ad arrivare all’Unicredit pochi minuti prima dell’apertura.

Dagli altoparlanti del SUV, una voce nasale affermava con enfasi che non c’era più tempo, che se l’umanità non si fosse adoperata quanto prima per contrastare il riscaldamento globale ogni cosa sarebbe andata in vacca.

Carmine Roccia spense la radio e pigiò forte il piede sull’acceleratore.

Raggiunte le scuole elementari, un agglomerato di quattro anonimi edifici attorniati da un prato giallastro e moribondo, gli ci vollero cinque minuti buoni per trovare parcheggio. Maledisse le orde di mamme che se ne stavano in mezzo alla strada a cianciare, le loro auto parcheggiate in doppia fila.

Quando aprì la portiera posteriore, sua figlia riemerse dalla sonnolenza fissandolo con occhi acquosi e tristi. «Ho fatto un brutto sogno».

«Cos’hai sognato, tesoro? Prendi la cartella, andiamo, su».

Intanto che la accompagnava al cancello – ma sarebbe più giusto dire mentre la trascinava – Marica borbottò qualcosa su dei signori coi capelli bianchi che la inseguivano lungo i corridoi della scuola, anziani che urlavano come pazzi e cercavano di afferrarla. Carmine si chiese da dove provenissero quelle immagini oniriche, se la bambina stesse covando un’influenza

che brutte occhiaie

poi le mollò una pacca affettuosa sulla schiena come per sospingerla più velocemente verso l’ingresso, la classe.

«Ci vediamo domenica sera, piccola. Fai la brava con mamma, okay?»

La bambina non si voltò, né rispose. Delle amichette sulla soglia della scuola avevano già cancellato il ricordo dell’incubo, la figura di suo padre, il mal di gola.

Correva con la cartella che sobbalzava sulle spalle magre, come se anche lei avesse una fretta del diavolo.

In prossimità dell’Unicredit del quartiere Mirafiori, distante poco più di cinque chilometri dall’azienda di famiglia, Carmine lanciò un’occhiata al cruscotto del SUV e si mollò un paio di compiaciute pacche mentali sulla schiena.

Le otto e ventidue.

La banca avrebbe aperto i battenti alle otto e mezza; si ritrovò a sperare che non ci fossero già persone in attesa, dimodoché sarebbe riuscito ad arrivare in ditta in orario per la prima riunione della giornata. Sì, ce l’avrebbe fatta. Gli occorrevano non più di dieci, quindici minuti per effettuare alcune operazioni relative all’azienda e inviare il bonifico ad Alessia per il mantenimento di Marica.

Le sue speranze andarono in frantumi non appena svoltò nella via occupata dall’Unicredit, e li vide.

Era arrivato presto, ma non abbastanza presto da anticiparli.

Erano già lì, come spesso accadeva.

I vecchi.

In coda.

Ne contò almeno quattro, che ciondolavano con movenze zombesche davanti alle serrande, lanciando di tanto in tanto sguardi all’interno dell’istituto bancario, le mani raccolte dietro la schiena, ingobbiti, avvolti in pastrani lisi e berretti di lana marroncini per difendersi dai rigori dell’inverno.

Con un rapido calcolo mentale, valutò che era l’ultimo venerdì del mese: il giorno in cui l’INPS versava le pensioni.

Carmine Roccia mollò l’auto accanto a una fila di platani e imprecò, individuando una vecchina magrissima che andava a unirsi al capannello di cariatidi.

Hanno tutto il tempo del mondo, tutta la giornata libera, un cazzo da fare, perché diamine non possono scegliere un altro momento per assediare sportelli, uffici postali, negozi? C’è gente che deve lavorare, produrre, portare i figli a scuola, Cristo…

Smontò dall’auto nella galaverna torinese, il fiato che gli si condensava attorno alla faccia in una sciarpa di vapore, e andò a piazzarsi dietro gli anziani cercando di affossare i pensieri maligni che gli percorrevano il cranio.

Siete qui dalle cinque? Non dovreste affannarvi tanto, se va bene tra un paio d’anni siete sottoterra. Ma non potevate dormire ancora un po’? Ah già, i vecchi dormono poco.

S’accese una sigaretta osservando le loro giacche di velluto logoro, i bastoni di legno su cui poggiavano le ossa stanche, gli spessi collant color carne, le gonne floreali, le scarpette ortopediche che pestavano sul posto nell’attesa ansiogena di entrare, di difendere la posizione in coda tanto faticosamente guadagnata. Percepì i loro odori, e il caffè ingollato al risveglio minacciò di risalire l’esofago in un’eruzione acidula: latte bollito, sudore stantio miscelato al dolciastro del borotalco, lacca, broccoli, colonia da quattro soldi, naftalina. Soprattutto naftalina. Tutti questi aromi si coagulavano in un lezzo pietoso, e Carmine si colse a pensare: Questo è l’odore della morte che s’avvicina.

Poco alla volta, mentre li sentiva confabulare di dottori e acciacchi, di medicine e vaccini, il fastidio lasciò spazio a un moto di pietà. Immaginò la solitudine, i risvegli all’alba, il dolore nelle ossa, la noia di giorni sempre uguali in cui il massimo del divertimento e della socialità era una visita in posta, all’alimentari, dal medico di base.

Lo sguardo misericordioso con cui studiava i vecchi resse pochi secondi: giusto il tempo di schiacciare il mozzicone sotto la scarpa e avvicinarsi all’ingresso di vetri e metallo dell’Unicredit.

Con una torsione del collo da rapace, un collo grinzoso di rughe e scuro di macchie del fegato, l’anziano che apriva la fila si volse all’indietro a fissare Carmine tenendosi in equilibrio su un deambulatore, marchiato nel viso un ghigno sardonico, uno slabbro su una colata di cera fusa, gli occhi neri da roditore. «Ci sono prima io, né!»

Produsse quell’affermazione con un tono di voce che aveva un’inflessione maligna e dileggiante, tanto che la signora che precedeva Carmine si lasciò sfuggire un: «Oh, che modi!»

Nella luce del sole basso che cominciava a splendere sulle strade, facendo fumigare il catrame gelido, un suono metallico e prolungato, come il lamento di una dimenticata creatura meccanica, annunciò l’apertura della banca. Le serrande automatizzate si stavano sollevando.

Si rese conto di non riuscire a staccare gli occhi dal vecchio col collo rugoso; lo osservò mentre sgambettava all’interno dell’Unicredit con passetti sghembi, da granchio, utilizzando il deambulatore con scioltezza, come fosse una propaggine del corpo. Avvolto in una lisa giacchetta color cammello, un attimo prima di varcare la soglia della banca si voltò ancora verso la strada, e Carmine avrebbe giurato che stesse guardando proprio lui, con un sorrisetto saccente. Poi il deambulatore fischiò sul linoleum dell’ingresso, un suono atroce nella sua fastidiosità, di coltelli sfregati su un piatto,

fffiiiiiiicrrrr fffiiiiicrrrr

e l’anziano svanì nell’interno al neon dell’Unicredit.

Avvertì una sensazione di disagio, mescolata a un’ancor più seccante impressione di familiarità.

Aveva già visto quell’uomo piegato dagli anni da qualche parte. Forse proprio lì all’Unicredit, oppure in coda alle poste, o in panetteria.

O forse no.

In fondo i vecchi sono tutti uguali, si disse.

Entrò in banca e attese su una bassa poltrona di pelle che uno sportello si liberasse.

Sarebbe arrivato in ditta in ritardo, poco ma sicuro.

Le schiene curve dei vecchi, schierate, gli ricordarono una processione di gargoyle consumati dal tempo, in un’eterna e pietrificata attesa.

La giornata fu un martirio: un flash di telefonate, riunioni, strette di mano e slide Powerpoint.

Arrivò alla riunione mattutina dieci minuti dopo l’orario stabilito. Qualcosa che un direttore e proprietario d’azienda non può permettersi.

Da leader, devi dare il buon esempio, diceva sempre suo padre.

Si sorbì le lamentele e i grafici del responsabile qualità, troppi prodotti fallati, troppa poca attenzione nelle procedure di lavoro, e soltanto prima di pranzo, finalmente, ebbe qualche minuto per chiudersi nel proprio ufficio e riprendere fiato.

Quasi mezzogiorno.

La velocità con cui erano trascorse le prime cinque ore della giornata aveva dell’incredibile. Gli sembrava fossero passati soltanto pochi minuti da quando aveva lasciato Marica davanti alla scuola.

Inviò alcune mail, fece un paio di telefonate, e alle dodici e quarantacinque si ritrovò con Massucci, capo delle risorse umane, in una piccola tavola calda frequentata perlopiù da colletti bianchi.

Un posto senza pretese, ma dove il cibo era buono, caldo, casereccio.

Dieci minuti di coda, due porzioni di lasagna, un po’ di roastbeef, niente vino che la giornata è ancora lunga.

Presero posto in un angolo della vasta e affollata sala da pranzo, e mentre Massucci parlava e parlava e parlava, Carmine lasciò vagare lo sguardo sulle persone assiepate intorno alla cassa e al bancone degli antipasti self-service.

Dita che manovravano soldi, mani che mulinavano cucchiai, altre che reggevano piatti e vassoi, gambe tentennanti in attesa del proprio turno, un indistinto e variopinto agglomerato di persone.

E in quella danza di un’umanità frettolosa, guidata tra le mura di cartongesso della tavola calda dall’intento comune di riempire lo stomaco, credette di scorgere un deambulatore, le maniche di una giacchetta color cammello, un collo da tartaruga che si tendeva sopra un busto magro come un foglio, un collo da rettile che si tendeva nella sua direzione per permettere a piccoli occhi sorcini di studiarlo e compatirlo.

«… e se i prezzi dell’energia non scendono e se ‘sta guerra non finisce saremo costretti a tagliare ancora ore, per non parlare degli stra… Ehi, tutto bene? Non hai fame?» Massucci si voltò, perplesso, seguendo la direzione dello sguardo di Carmine. «Ti eri imbambolato?»

«Sì, sì, scusami». Distante, attraverso il brusio della tavola calda, gli parve di cogliere una risatina gracchiante, seguita dalle parole “c’ero prima io, né!”. Il vecchio era scomparso. Anzi, no, non c’era mai stato. Solo impiegati che sgomitavano per un boccone. Distolse l’interesse dalla folla e lo riportò sulla lasagna fumante, stuzzicandola con la punta della forchetta. «Oggi sono un po’ frastornato, sempre di corsa…»

«E adesso non ci vedi più dalla fame?» lo interruppe il capo del personale, citando un famoso slogan pubblicitario e scoppiando a ridere come avesse fatto una battuta degna di un grande cabarettista.

Coglione. Dio mio, ma davvero abbiamo assunto questo coglione?

Un principio di mal di testa che pulsava dietro i globi oculari, si ritrovò a sperare che il pranzo finisse il prima possibile. Massucci aveva ripreso a cianciare, e ogni parola gli penetrava nel cervello come un coltello caldo affonda nel burro.

Carmine attaccò la lasagna, infilandosene in bocca una forchettata abbondante; mentre masticava, e il pasticcio di pasta sfoglia, ragù e besciamella non comunicava alcunché alle sue papille gustative, fu colto dalla certezza di essersi beccato il Covid. Non sentiva alcun gusto. Soltanto il calore sul palato del cibo riscaldato al microonde. Poi, come un’esplosione, il sapore gli esplose sulla lingua in una zaffata chimica che gli fece lacrimare gli occhi, costringendolo a sputare il boccone nel tovagliolo.

«Cristo. Che schifo». Massucci dall’altra parte del tavolo lo fissava allibito. Buttò giù un sorso d’acqua per togliersi dalla bocca quel sapore sintetico e nauseabondo, domandandosi se sarebbe morto, che diamine avessero infilato nella pietanza. «Ma la tua è buona?»

«Forse manca un po’ di sale, ma è okay. La solita lasagna che mangiamo qui. La tua non è buona?»

«Sa… sa di naftalina», si ritrovò a spiegare Carmine, e poi spostò lo sguardo verso il bancone della tavola calda, e stavolta lo vide, credette davvero di vederlo, il vecchio col deambulatore che lo spiava da dietro una colonna della cucina a vista, per ritrarsi e sparire un secondo dopo, dileguandosi col suo deambulatore che sibilava sulle piastrelle con un rumore appena percepibile eppure assordante.

Aprì le labbra per dire qualcosa a Massucci, ma non ne uscì alcun suono, e l’altro come in risposta si sporse sopra il tavolo e infilzò un po’ di lasagna dal suo piatto, per poi masticarla con aria pensosa emettendo troppi suoni, troppi lapilli di saliva.

«Guarda che è come la mia, eh. Un po’ sciapa, ma è buona. Sei sicuro che non stai covando qualcosa? Hai una faccia…»

Carmine non toccò più cibo. Quando il pranzo finì, e insieme al capo del personale s’infilarono in auto diretti verso l’azienda, si domandò se non stesse lavorando troppo, se non avesse bisogno di una bella vacanza, magari con Marica, relax, del tempo insieme a sua figlia. Sì, sì, doveva organizzare, parlarne con Alessia, prendersi del tempo.

Poi attaccò a rimuginare sulle questioni che lo aspettavano in ditta, sui tempi stretti per la consegna del prossimo lotto di cruscotti per la Cinquecento, sugli stipendi da pagare, e l’idea delle vacanze scivolò via nella corrente di pensieri come una foglia in una grondaia durante un acquazzone.

Il tempo vola, mormorarono i suoi genitori defunti, da qualche parte nella testa e nei ricordi.

Come se gli avessero fratturato tutte le ossa, passi strascicati e dolori acuti nella parte bassa della schiena, rientrò nel palazzo alle nove passate. Miagolò il proprio malessere a ogni gradino, mentre i marmi bianchi dell’androne riflettevano la luce dei neon trasformando l’ambiente in un sarcofago accecante, il mausoleo di una qualche divinità celestiale.

Nella buca delle lettere, Carmine trovò ad aspettarlo un involucro di un verde poco rassicurante: le poste lo informavano che c’era una raccomandata da ritirare, e si disse che doveva senza dubbio trattarsi di una multa, o di qualche rottura di coglioni analoga. Ci avrebbe pensato l’indomani.

Vuoto e silenzioso, l’appartamento lo accolse in un abbraccio di ordine asettico e odore di chiuso; rimpianse che nel weekend toccasse a sua moglie tenere Marica. Un po’ di compagnia gli avrebbe fatto bene, anche se non si sentiva affatto in forze. E fermarsi in azienda tutte quelle ore non era stato d’aiuto.

Dopo pranzo, stordito e con ancora in bocca l’orribile saporaccio di naftalina, aveva pensato di prendersi qualche ora di permesso

non devi prenderti permessi, sei il boss, puoi fare quel che vuoi

ma poi il senso del dovere e un grave intoppo a una linea di produzione avevano avuto il sopravvento, obbligandolo a fermarsi in ufficio a prendere decisioni e smazzarsi scartoffie ben oltre il calar della sera.

Cercò tentoni l’interruttore della lampada a piantana, regolandola al minimo, e una penombra malaticcia invase il soggiorno: la stessa luce delle camere mortuarie dove aveva vegliato il corpo di suo padre pochi anni prima, la stessa luce degli uffici vuoti e delle linee di produzione dopo l’orario di chiusura. Pensare alla ditta deserta, dopo che tutti erano tornati a casa, dopo che lui era tornato a casa, gli causava sempre qualche problema: luogo popolato di vita durante il giorno, la notte l’azienda di famiglia mutava in un tempio di assenze e mistero, di corridoi oscuri e macchinari immobili che lamentavano ticchettando le fatiche giornaliere. Nessun testimone di quelle ore mute, nessun organo di senso operativo nell’ecosistema di metallo e cemento che nel corso dei lustri aveva fatturato miliardi, sfornato tonnellate di leghe plastiche. C’era una parola per descrivere quell’emozione, derivante dall’immaginare inabitati luoghi solitamente popolosi di vita, rumori, luci? Non lo sapeva, ma per qualche ragione sentì che aveva importanza. Avrebbe cercato su internet, sì, ma prima doveva poggiare le chiappe su una superficie morbida, rilassarsi.

Oscurità premuta contro le finestre e oscurità nel cuore, seguì il proprio riflesso nei vetri mentre attraversava la stanza, poggiava l’avviso postale sul tavolino e si lasciava crollare sul divano, pervaso da quella stanchezza anomala di cui faticava a trovare l’origine.

Quasi le nove e trenta. Nessun appetito. Ripensò alla lasagna della tavola calda, al sapore di naftalina, e l’idea di mangiare gli provocò un moto di protesta nello stomaco.

È tardi. Domani si ricomincia daccapo. No, domani è sabato. Riposo. Tempo per me. Tempo per me. Tempo.

Avrebbe tanto voluto avere le energie per alzarsi dal divano e combinare qualcosa: guardare un film, leggere un libro, sentire Simone e magari uscire insieme a farsi una birra come ai vecchi tempi,

tempi tempo tempi

ma le sue palpebre erano così pesanti e i suoi pensieri così aggrovigliati che senza accorgersene scivolò nei sogni, mentre le pupille squadravano il corridoio nero d’ombre che conduceva alla camera da letto.

S’assopì con l’abito ancora addosso, le braccia poggiate sul divano coi palmi delle mani rivolti al soffitto e la testa reclinata su una spalla.

Un moderno martire dell’industria e del fatturato.

Nell’oscurità, densa e incondizionata, nella tenebra raggelante di una periferia metropolitana colpita da un blackout, presero a sfarfallare luci azzurrine.

Rettangoli luminosi che tentennavano per alcuni istanti, per poi fissarsi stoici nel buio.

Uno, due, tre, innumerevoli riquadri che abbandonavano l’oblio passando a una vita lucente, andando a comporre l’immensa vetrata di una basilica post-industriale costruita su un pianoro di cemento e acciaio che sorgeva da abissi impenetrabili.

A scandire la visione, oltre all’accendersi delle luci, un suono. Dapprima proveniente da vicino, tanto che temette per l’incolumità dei propri timpani. Poi sempre più flebile e distante. Fuor di dubbio, il ticchettio di un orologio.

Tic. Tac. Tictactictac. Tic. Tactic. Tactictac.

Ma non c’era regolarità nel procedere di quell’ingranaggio cosmico, come se la lancetta dei secondi procedesse secondo astrusi dettami, enigmatici assiomi.

Carmine prese a marciare verso la sorgente luminosa, di fretta: non gradiva le ombre alle proprie spalle, l’aria artica e maleodorante di smog che gli scompigliava i capelli, la paura ch’era quasi certezza che se non si fosse incamminato qualcosa l’avrebbe raggiunto per afferrarlo e scagliarlo in un bugigattolo-bara dove sarebbe rimasto ad ammuffire in un’eterna solitudine; qualcosa di tanto vasto e inimmaginabile e fondamentale che la sua presenza era spaventosa tanto quanto la sua assenza.

Dopo decine e decine di passi, sempre più frenetici man mano che avanzava, riconobbe la struttura da cui proveniva il bagliore. O meglio, ne riconobbe le parti da cui era composta.

Non si trattava di una basilica, né tantomeno di un tempio, anche se dall’edificio che ora gli si parava davanti innalzandosi per centinaia di metri sino a svanire in un soffitto di cumulonembi cancrenosi, emanava un’aura sacrale.

In una curiosa fusione architettonica, la fabbrica di suo padre

tua, ora è tua

e il casermone dell’anagrafe comunale dove sua madre aveva trascorso trent’anni di vita, costituivano l’ossatura della costruzione. Con angoli astrusi e indecifrabili combinazioni urbanistiche, altri fabbricati che ben conosceva s’intersecavano allo scheletro principale in un alienante collage di vetri, malte e mattoni: l’Unicredit, l’ufficio postale sotto casa, la panetteria del quartiere in cui viveva, la scuola di Marica, il palazzo occupato dallo studio del loro medico di base, il supermercato di fiducia…

Finestre e aperture continuavano a illuminarsi, finché da qualche parte lassù, piantato in una ciminiera-corridoio, Carmine Roccia individuò un gigantesco orologio metallico che sembrava composto di rottami e neon. Le lancette presero a scorrere sul quadrante con regolarità, ma troppo veloci,

Tic. Tac. Tic. Tac. Tic. Tac.

e un senso di impellenza gli calò addosso costringendolo ad avanzare.

Doveva sbrigarsi. C’erano cose da fare, soldi da guadagnare, code da affrontare, Marica da recuperare, pratiche da sbrigare, visite da effettuare. Si lanciò verso l’ingresso del tempio-puzzle percorrendo una strada lastricata di bollette, fatture, moduli per raccomandate e lapidi, mentre l’urgenza trasmutava in frenesia e angoscia.

Se non fosse arrivato in tempo, e dubitava ci sarebbe riuscito, avrebbe dovuto attendere per entrare.

E così fu.

In prossimità di uno scintillante portone di vetro, scorse teste che ondeggiavano e braccia che gesticolavano in una processione di migliaia e migliaia di vecchi.

Erano già lì.

In attesa.

Come un’onda sismica, un violento tanfo di naftalina e cavoli investì Carmine.

Lui andava di fretta, e loro non l’avrebbero fatto passare.

Crollò in ginocchio, reggendosi il volto con le mani, disperato, perché non c’era più tempo e non sarebbe riuscito a sbrigare le pratiche che doveva sbrigare; quando tornò a sollevare la testa lo vide, che apriva la fila, appollaiato sul suo deambulatore con le mani devastate di venuzze, il collo di cartapesta, gli occhietti furbi, e antichi, e abissali e insensibili, che si piantavano nei suoi in un orrendo zoom.

«Ci sono prima io, né!»

Il portale si spalancò cigolando, lasciando intravedere gli intestini d’uffici, corridoi, macchinari e sportelli del mausoleo, e l’anziano sgattaiolò all’interno ridacchiando, accompagnato dal suono del deambulatore che fregava sul pavimento in un cachinno demenziale, fffiiiiiiicrrrr fffiiiiicrrrr…

Carmine sfuggì all’incubo con un sussulto e un gemito, ritrovandosi zuppo di sudore sul divano, immerso nella penombra catacombale della lampada a piantana. Come spesso accade dopo sogni spaventosi, impiegò lunghi secondi a capire dove si trovasse, chi fosse.

Udì una sirena ululare in strada, l’orologio da polso gli comunicò che mancavano pochi secondi alla mezzanotte, a un nuovo giorno. Un sonnellino di quasi tre ore. Nella stessa posizione in cui s’era assopito, i suoi occhi continuavano a inquadrare il lungo corridoio buio che portava alle camere e al bagno. Là in fondo, nei recessi del rettangolo oscuro, percepì un movimento, un contorcersi d’ombra tra le ombre.

Seguito da un fischio strascicato.

Fffiiiiiiicrrrr. Fffiiiiicrrrr.

Quando trovò il coraggio di alzarsi e raggiungere l’interruttore, prima che le plafoniere inondassero di luce il passaggio, credette di morire d’infarto. Un vago sentore di naftalina, e una sagoma ingobbita e vetusta che lo studiava sovrimpressa sulla parete di fondo del corridoio, un braccio sollevato come a indicarlo canzonante.

Soltanto quando le ginocchia minacciarono di cedere, si rese conto di stare fissando la propria ombra.

Dormì di un sonno troppo leggero e agitato perché fosse riposante, e alle sette di un sabato uggioso si ritrovò a ciondolare per la cucina nell’attesa che la moka attaccasse col suo borbottio.

Gli abitanti più mattinieri di Torino, già indaffarati, si esibivano in un concerto di suoni al di là delle finestre: voci, clacson, rombi di motori, passi ticchettanti di tacchi. Dal mercato di Porta Palazzo, poco distante, un coro di contrattazioni, risate e frasi negli idiomi più disparati faceva a gara di decibel con uno stormo di passeracei infreddoliti che sostava sull’albero prospiciente il balcone della cucina.

Mentre beveva il caffè, stabilì il programma della giornata: sarebbe passato in posta a ritirare la raccomandata, poi avrebbe fatto quattro passi al mercatino antiquario del Balon e da lì si sarebbe spostato a quello degli alimentari di Porta Palazzo. Voleva comprare qualcosa di buono per Marica: domenica pomeriggio doveva andarla a prendere dalla ex, cena insieme, nanna da lui, e il lunedì l’avrebbe accompagnata a scuola.

Abiti caldi, comodi, e uscì dall’alloggio godendo del freddo mattutino e del sapore della sigaretta che si mescolava a quello del caffè che ancora indugiava sulla lingua. Percorse il quartiere gioendo della propria condizione psicofisica: la stanchezza della sera prima poco più di un ricordo, l’incubo spazzato sotto il tappeto di un nuovo giorno, di nuovi compiti.

Era ancora presto, appena le otto, e reputava quello il momento migliore per godere di Torino: il sole, riuscito a stracciare il velo di nubi, cadeva nelle strade con un’angolazione e una sfumatura che gli ricordarono un momento dell’infanzia che la sua mente non fu in grado di cesellare nei dettagli. Giunto nei pressi delle poste gli venne da piangere, un groppo in gola sano e bello e rincuorante, e si diede dello stupido, fregandosi gli occhi con un sorriso; che morì in una smorfia mentre imboccava il vialetto di autobloccanti dell’ufficio postale.

Erano già lì.

Davanti alle saracinesche ancora abbassate, un capannello di chiome bianche, gambe arcuate e dita nodose, sostavano tre anziani ciacolanti che senza dubbio stavano parlando di qualche morto o di qualche malattia. Ma non erano loro il problema, sebbene avrebbero rallentato i suoi piani. Il problema era il vecchio che se ne stava in disparte, dandogli le spalle, appoggiato con noncuranza al suo deambulatore.

Il primo della fila, ovvio.

Un sottile afrore di naftalina gli solleticò le narici. Quasi senza rendersene conto,

Carmine Roccia arretrò di un paio di passi con l’avviso di ritiro raccomandata stretto in una mano.

Non poteva vederlo in faccia, né riusciva a scorgere l’inconfondibile collo simile a una straccio strizzato, e la giacchetta color cammello era stata sostituita da un k-way azzurrino percorso da chiazze color ruggine, ma aveva pochi dubbi sul fatto che fosse lui.

Il vecchio dell’Unicredit, così alieno e al tempo stesso familiare, che aveva creduto di scorgere alla tavola calda e che gli aveva fatto una terribile visita in sogno.

Per la seconda volta quella mattina, si diede dello stupido: davvero si stava lasciando suggestionare da un povero pensionato, che per pura coincidenza aveva incontrato due volte nell’arco di ventiquattrore e che la sua mente stanca e iperstressata aveva persino plasmato negli incubi e ammantato di significati ostili?

Rilassati. È solo un vecchio.

Ma per quanto cercasse di rilassarsi, si ritrovò a scoprire di non voler stare lì in coda, a perdere tempo, e soprattutto di non voler vedere l’anziano col deambulatore voltarsi, scoprire che…

Scoprire cosa?

Senza indugiare oltre, girò sui tacchi e si diresse verso il mercatino antiquario del Balon. Durante il tragitto di ritorno, sarebbe potuto passare in posta a ritirare la raccomandata.

Inoltrandosi per vie laterali e strade poco battute, inseguito da folate secche e gelide, più volte si sorprese a guardarsi le spalle, con la vaga impressione di essere pedinato.

Fffiiiiicrrrr.

Il vento. Il vento che soffia e fischia nei vicoli.

Faceva freddo. Un freddo insistente che gli scivolava su per le maniche del cappotto, giù per il colletto della felpa; si disse che forse avrebbe dovuto coprirsi di più, e ormai giunto alle propaggini esterne del Borgo Aurora e del mercatino decise di fermarsi in un bar per un altro caffè e per assorbire un po’ di calore.

Luci, odore di brioches e un piacevole calduccio lo abbracciarono confortanti appena varcò la soglia. Il locale era gremito di antiquari intabarrati in sciarpe e buffi cappelli, eleganti e mature coppie della borghesia torinese, turisti, gente comune.

Carmine si guardò intorno alla ricerca di un varco per raggiungere il bancone, s’irrigidì.

Era già lì, e non era possibile.

Di spalle, alla cassa dietro la quale s’agitava un cameriere indiano con la camicia inamidata, il k-way azzurrino, una mano sul deambulatore, l’altra allungata a porgere una banconota da cinque euro.

Il vecchio della banca, della posta.

All’aroma del caffè adesso s’accompagnava un appena percettibile tanfo di nafta.

Come ha fatto a precedermi?

Ammutolito, senza riuscire a staccare lo sguardo, Carmine Roccia osservò la testa dell’uomo ruotare verso sinistra, senza spostare il busto. Lentamente. Ancora. E ancora. Finché non fu evidente che il collo, quell’affare molliccio e cadente che sembrava privo di vertebre a sostenerlo, avesse ormai superato un angolo accettabile dalle leggi anatomiche umane. Era una torsione che avrebbe potuto compiere una civetta.

Quando il vecchio ebbe ruotato la testa di centottanta gradi, fissò Carmine e sorrise, abbozzando un balletto mentre le sue mani spostavano il camminatore, strusciandone i piedi gommati sul pavimento.

Fffiiiiiiicrrrr.

La visione, ridicola, grottesca, sarebbe stata persino divertente se contemplata in un film o in uno spettacolo teatrale.

Ma quello non era un film, era la sua cazzo di vita, in un bar affollato di un sabato qualunque, e Carmine guardava le persone pregando, pregando che qualcuno di loro stesse assistendo alla scena e provasse paura con lui.

La gente rideva, addentava cornetti, parlava.

E anche il vecchio parlò, annullando qualunque altro suono e spazzando col suo alito infetto di naftalene la sala: “Ci sono prima io, né…”

Carmine rimase inchiodato alle piastrelle. Inchiodato agli occhi dell’anziano. Qualcuno dietro di lui borbottò: «Allora, ci diamo una mossa per ‘sto scontrino?»

Riuscì a mettere in moto le gambe, sgattaiolare fuori dal bar, col rombo del sangue che gli martellava le tempie e l’impressione di essere vittima di una macchinazione, di un brutto scherzo.

Gli parve che l’unica cosa sensata da farsi fosse tornare all’appartamento, rinunciare al mercatino antiquario e a quello rionale.

Così fece.

Rinunciò anche a una seconda visita alle poste, certo che una volta arrivato lì avrebbe trovato la cariatide in coda agli sportelli.

Prima di lui, sempre prima di lui.

Il sabato fuggì via in un mélange di noia, sigarette, serie Netflix e schifezze riscaldate al microonde.

Dopo cena, stravaccato sul divano, aprì una bottiglia di Talisker che gli avevano regalato il Natale precedente: nonostante il sapore torbato che in qualche modo gli ricordò la naftalina, ne bevve tre o quattro bicchieri, e con la nausea che gli montava dentro ripensò al vecchio e al modo in cui aveva reagito quando l’aveva visto, giungendo a una conclusione semplice quanto preoccupante: nella sua testa c’era qualcosa che non andava.

Poi ingollò altri tre o quattro bicchieri guardando un film della Marvel, e pensieri e conclusioni persero importanza.

Stramazzò sul divano intorno alle undici; poco prima di svegliarsi e correre in bagno a vomitare, sognò di correre verso un bagno pubblico perché non stava granché bene e doveva vomitare.

Nel sogno, raggiunti i cessi, il vecchio era già lì.

Prima di lui, sempre prima di lui.

Domenica.

Dedicò la mattinata a smaltire la sbronza, e si augurò con tutte le forze di assumere un aspetto presentabile per il tardo pomeriggio: intorno alle cinque e mezza, sei, doveva passare dalla ex-moglie a prendere Marica, portarla a casa sua, sfamarla, trascorrere insieme una bella serata, metterla a letto e l’indomani portarla a scuola.

Nel pomeriggio si occupò di questioni di lavoro, smaltendo mail a cui non aveva risposto e imbastendo i grafici Power Point relativi al business plan dell’anno seguente.

Intorno alle quattro le telefonò Alessia, con brutte notizie: Marica s’era presa l’influenza, con tutto l’arsenale di febbre, tosse, mal di gola e raffreddore. L’avrebbe tenuta lei, avrebbe preso qualche giorno di ferie: sapeva che per Carmine sarebbe stato impossibile assentarsi dal lavoro.

Accolse la notizia con un misto di frustrazione e sollievo: un peccato non trascorrere la serata con la figlia, una liberazione non doversene occupare, farla vestire, portarla a scuola.

Avrebbe avuto più tempo per le faccende da sbrigare.

Andare in posta.

Andare in posta a recuperare la raccomandata.

Arrivò presto, molto presto, ma erano già lì.

«Siam venuti un po’ prima. Tanto chi riusciva più a dormire…»

C’era anche lui.

Avvinghiato al camminatore.

Fffiiiiicrrrrr.

Odore di naftalina.

Ritirò la raccomandata, una multa, ma arrivò tardi al lavoro perché i vecchi l’avevano rallentato.

Nelle settimane successive, l’anziano dal collo grinzoso divenne una presenza costante. Ovunque andasse, in banca, in posta, all’alimentari, al supermercato, se lo ritrovava davanti. Magro come un foglio, poggiato al suo deambulatore, la faccia di pergamena, odiosa, che lo studiava con un sorrisetto cattivo.

«Ci sono prima io, eh!»

Gli impegni lavorativi e familiari e burocratici sempre più pressanti.

Mille cose da fare. Milioni.

Fretta.

Non aveva tempo da perdere.

Arrivare prima della dispettosa cariatide, divenne per Carmine Roccia una questione di principio, una sfida, una gara a spezzare la routine di giorni sempre uguali.

Prese a recarsi in posta, in banca e nei negozi a orari improbabili, un’ora prima dell’apertura, un’ora e mezza: ma ogni volta il vecchio era già lì, accompagnato da qualche altra mummia. “Siam venuti un po’ prima. Non avevamo niente da fare, sa…»

In coda fuori dall’Unicredit, una mattina di neve sporca di smog e stanchezza, cominciò ad autointerrogarsi con un crescente senso di ansia: da quanto non vedeva Marica? Da quanto non faceva una vacanza, un pranzo con amici? Aveva ancora amici? Gli pareva che la sua vita fosse ormai divisa tra uffici, code mattutine, l’azienda e l’appartamento anonimo e semibuio.

Un giorno di primavera, Carmine uscì di casa alle cinque e mezza per un’emergenza sul lavoro: sfrecciando in auto davanti alle poste, notò il vecchio in attesa. Avvolto dalle ombre. Col suo deambulatore. Che scrutava oltre i vetri degli uffici ingombri d’oscurità.

Alle. Cinque. E. Mezza.

Roba da matti. Quel poveraccio doveva soffrire d’insonnia, di qualche disturbo senile che lo spingeva a mettersi in coda nel cuore della notte, che fosse estate o inverno, che piovesse o nevicasse.

Rinunciò ad anticipare il vecchio incartapecorito. Col trascorrere del tempo, delle settimane, da spauracchio era diventato una sorta di presenza confortante, una certezza. Iniziò a risultargli quasi simpatico. Carmine arrivava con le sue bollette, la sua ricetta medica, documenti far firmare all’anagrafe: il vecchio era già lì.

Si ripromise di rivolgergli la parola, un giorno. Fare quattro chiacchiere. Si ripromise di telefonare alla ex-moglie, andare a prendere Marica, organizzare delle ferie insieme, uscire a farsi una birra con Simone, prendersi del tempo per sé, ma c’erano sempre altre cose da fare, così tante cose da fare, burocrazia, padel, impegni, pranzi di lavoro con Massucci, pilates, mail, avvocati, ricevute, bollette, traffico, riunioni, code, fatture…

Si svegliò di soprassalto.

Senso di urgenza.

Nella stanza buia, impiegò alcuni secondi a ricordare il proprio nome, il proprio ruolo nel mondo.

Poi ricordò.

Primo compito della giornata: andare in posta a pagare il gas.

Si sentiva stanco e rimbambito, forse aveva dormito troppo, ma dopo il caffè cominciò ad andare meglio.

Uscì di casa molto presto, sotto un cielo albeggiante di nuvole rosa, e raggiunse gli uffici postali fischiettando un motivo inventato: con un filo di disappunto, notò che il vecchio col camminatore non c’era.

Strano.

Molto strano.

Poi sorrise.

No, non era tanto strano.

Pensò che il vecchio fosse malato, o forse morto, e provò una punta di vergogna.

Ma per una volta, Cristo santo, era il primo della fila.

Doveva solo attendere l’apertura.

E attese, mentre si faceva giorno e un canto di passeri tintinnava nel silenzio.

Le mani a coppa intorno al volto per escludere il riflesso dei vetri, curiosò all’interno della struttura: uffici deserti, pile di carta abbandonate, luccichio di monitor, l’ombra storta di un impiegato che dondolava sulla parete dietro gli sportelli,

Attese, Carmine, e mentre attendeva pensò a Marica, a quanto gli mancava, pensò ai giorni dell’adolescenza e al lavoro che gli aveva succhiato il tempo, gli affetti e la salute.

Sussultò quando le saracinesche cominciarono a sollevarsi con un clangore spaventoso, e individuò una donna sulla quarantina, capelli rossi, occhi da cerbiatto, viso tempestato di lentiggini, un bel naso alla francese, che attraversava la piazzetta antistante la posta per mettersi in coda; lo studiò irritata, poi sbuffante, infine con un sorriso impietosito. Carmine la fissò di rimando, e agendo d’impulso sollevò un pugno al cielo in un gesto intimidatorio, affermando con un ghigno: «Ci sono prima io, eh!»

Nell’istante in cui pronunciava le parole, una sensazione di debolezza e paura gli morsicò la base della nuca e una zaffata di naftalina gli aggredì le narici costringendolo ad abbassare lo sguardo sulle proprie mani: artritiche, chiazzate di giallo e percorse da rughe implacabili, stringevano tremanti un deambulatore.

Era già lì.


L’autore

Luigi Musolino nasce nel 1982 in provincia di Torino, dove risiede e lavora. È traduttore e autore di romanzi, novelle e racconti nel campo del weird, dell’horror e del gotico rurale (Bialere, Oscure Regioni 1 & 2, Uironda, Eredità di carne, Pupille, Un buio diverso) per vari editori tra i quali Acheron, Zona42 e Hypnos. Nel 2022 Valancourt Books ha pubblicato la sua prima antologia personale in lingua inglese A different darkness and other abominations, finalista al World Fantasy Award.