La scheggia

Arcadi dice qualcos’altro. Non lo ascolto. È stranamente facile concentrarsi sulla pace, su questa calma frusciante. Un silenzio che mi ricorda qualcosa. È tutto qua, quindi?
“Quindi?”
“Cosa, professore? Scusi, ero sovrappensiero. Non…”
“Ti ho chiesto che cosa ne pensi. È come te lo aspettavi?”
“Cosa?”
Ridacchia. “Qui. Marmonte”.
Guardo il bosco scorrere fuori dal finestrino. Le poche case diroccate che affiorano qua e là in mezzo ai pini. I lampioni con le lampadine spaccate, un traliccio piegato di lato e coi cavi troncati e penzolanti. Sembra una gigantesca canna da pesca, o un albero d’acciaio con liane di rame. Uno stormo di passeri cinguetta sopra di noi e si perde tra le fronde di un faggio, e io non so più nulla, proprio niente, su cosa mi aspettavo di vedere o sentire la prima volta che sarei venuta qui.
“Sì” rispondo
, “me lo immaginavo proprio così”.
Mi lancia uno sguardo di sbieco. Preme un po’ il freno, imbocca una stradina ingombra di calcinacci e rami secchi. Supera un motorino sfondato da un’insegna crollatagli addosso. Qualche vocale leggibile, forse il disegno stilizzato di un orologio.
“Io non me l’aspettavo così”
, dice. “Quando me l’hanno descritto la prima volta, mi ero figurato una cosa apocalittica. Scene da film americano, con la gente che scappa e le auto in fiamme. Invece è tutto fermo. Silenzio e basta. Credo che anche la gente se ne sia andata con calma, senza dire una parola”.
Non ho voglia di parlare, ma tento di reggere la conversazione. “Già. D’altronde è iniziato tutto con una semplice pianta. Una piantina nel bosco. Niente di eclatante, no?”
“Sì. Forse sbaglio io. Anche i continenti si muovono un millimetro alla volta”.
Credo sia deluso. Forse dovrei mostrarmi più entusiasta. Fare più scena. Ma da quando siamo qui – dieci minuti, forse? – non sento il bisogno di mentire. Non è come in università. Ho passato gli ultimi otto mesi a leggere ogni articolo, ogni saggio, ogni speculazione sulla zona di esclusione di Marmonte e la Scheggia. Otto mesi a ostentare interesse in qualsiasi cosa riguardasse quello che è successo qui. Un’eccitazione che non so più quanto abbia davvero a che fare con ciò che mi attirava di questo posto. Ciò che credevo mi attirasse. Non è mai stata realmente una forza vigorosa, frenetica, esaltante. È qualcosa di diverso. Che ha a che fare col silenzio. Siamo così addentro la zona che gli uccelli sono già spariti?
“Eppur si muove
”, dice Arcadi. “Il picco di due settimane potrebbe aver causato un’espansione. Probabilmente si sarà sparso qualche frammento a ovest, o magari dove quelli della Sorbona hanno fatto l’esperimento con l’inserimento. Samoseli sarà molto nervoso”.
“Non sarà più nervoso per la spedizione del MIT?”
“Anche. Va in ansia per qualsiasi cosa che non possa prevedere. Direi che ha sbagliato lavoro
”, dice sorridendo. Accosta accanto a un lampione caduto, a pochi centimetri da una transenna arrugginita. “Siamo arrivati. Da qui si va solo a piedi”.
Scendiamo. I sanpietrini della piazzetta hanno forzato la crescita delle ortiche in un arabesco caotico. È una distesa di zigzag ondeggianti, un mosaico di pietra e clorofilla sino alla sede del centro di ricerca.
Il centro è un’ex-abitazione privata. Una casetta che mi era sembrata più grande in foto.
La testa delle due guardie arriva all’altezza dello stipite della porta. L’anta e le imposte delle finestre sono in legno, e da uno dei vetri spaccati passa un fascio di cavi che si connette a un impianto elettrogeno adagiato fuori, a fianco di un grosso mucchio di foglie verdi coperto da un telo di cellophane.
“L’ultima volta qui era recintato
”, dice Arcadi mentre camminiamo. Indica un punto al centro della piazza, dove il pavimento cede in una piccola conca. “Pensavano ci fosse finito un frammento. Io gliel’ho detto che era strano, perché era troppo distante dal corpo principale. Ma loro hanno dovuto fare non so quanti inserimenti di prova. Una perdita di tempo incredibile”.
Ora non è più infastidito. Si sta divertendo. Gli piace essere qui, in un modo diverso rispetto a me. Forse se anche io avessi i suoi anni di studi di chimica e fisica mi sentirei come lui.
Se fossi una docente di fama internazionale, conosciuta da tutti, se mi chiamassero da ogni parte del mondo per parlare della Scheggia. È sempre stato questo, no? Studiare, scrivere, faticare gratis e senza sosta. Adattarsi di continuo e tentare di essere sempre me. Per poter essere conosciuta da tutti, per far sì che gli altri vedano subito che significato ho saputo dare alla mia vita.
Ma qui non c’è questa smania. E forse neanche Arcadi l’ha mai avuta. Il suo è un gusto intellettuale, del tutto mentale. Nel centro di ricerca lui vede un’occasione sprecata, un goccio d’invidia, la promessa di infiniti misteri. Io invece vedo una facciata piccola, di mattoni, con del legno
infradiciato. Dietro si alza un bosco di faggi e pini dalle tinte scure. Il vento muove solo alcuni dei rami, e forse questa pace nel mio cuore. Da dove viene?
“Documenti
”, chiede una delle guardie. È un ragazzo alto, dai lineamenti duri. Ha l’aria più minacciosa dei soldati svogliati e assonnati che abbiamo incontrato al perimetro, prima del bosco.
“Marco, c’è davvero bisogno
?”, chiede Arcadi.
“Lo so, professore. Ma è la regola”.
“Spero ti paghino di più, per questa solerzia”. Gli porge gli stessi documenti che abbiamo già mostrato agli altri checkpoint.
“Mi pagano così tanto che dopo le offro il caffè
”, sorride Marco. Il fucile a tracolla è un blocco d’acciaio e polimeri. Sul mirino s’è posato un seme di soffione.
“La dottoressa…” dice poi.
“C’è qualche problema
?”, chiede Arcadi.
“No. Ma nella sua mail il nome era diverso”.
“Le assicuro che sono davvero io
”, dico. Sorrido. Per qualche motivo mi sembra di aver appena mentito. Che mi debbano scoprire da un momento all’altro.
Marco
però sorride. Ci fa entrare nel centro.
L’interno è un
nido di cavi e macchinari, rischiarati dal bluastro accecante dei monitor accesi. La stanza è più grande di quello che potessi pensare. Doveva essere una cucina, o un soggiorno. In un angolo hanno accatastato due sedie impagliate e una tinozza di plastica celeste. Al muro è rimasta una foto appesa: un una strada polverosa, un paese in bianco e nero, due signore con un cesto poggiato sulla testa. Forse è la stessa Marmonte che abbiamo attraversato. Marmonte prima che diventasse un gigantesco errore nel mondo. Vorrei sapere dove si trovano ora quelle donne. Cosa portavano in questi cesti. Sento un moto di tenerezza, ma qualcosa nel profondo mi dice che loro proverebbero lo stesso per me.
“Allora, Samoseli è
sicuramente di là”. Arcadi indica una porticina sulla destra verso la quale confluiscono anaconde di gomma e fibra ottica. “A quest’ora starà finendo il test quotidiano”.
“Vedremo la Scheggia?”
Arcadi sorride. Le possibilità sono ciò che gli fa scorrere il sangue. “Molto probabile. Vado un attimo da lui”.
Scavalca un macchinario per l’analisi organica e per poco non fa cadere un mobiletto zeppo di campioni. Sparisce oltre la porticina, lasciandomi nel ronzio dei computer accesi. Dice qualcosa di
là; alla sua voce risponde una più acuta e stridula. Dall’esterno, invece, nulla. Non le guardie, e neanche gli uccelli, naturalmente.
Raggiungo la fotografia appesa. Accanto, in penombra, c’è un mobiletto con una teca di vetro. Dentro si erge una piantina alta venti centimetri. Le foglie a destra sono larghe, lucide, d’un verde scintillante. Di plastica. Le foglie a sinistra invece non esistono più: ne ricordano la scomparsa solo dei moncherini giallastri.
Di nuovo non mi sento come dovrei. Dov’è l’emozione? La commozione? Questa è la pianta che ha permesso di trovare la Scheggia. Il signor Portinari l’ha trovata nel bosco, nove mesi fa. Una pianta di plastica circondata da piante vere. All’inizio deve aver pensato a un giocattolo perduto. Poi a uno scherzo. Poi è tornato a Marmonte, è andato al bar. Nei giorni successivi gli sono arrivate le voci di modellini di passerotto trovati per terra nello stesso bosco, tra le radici e le foglie fradicie. Poi di un cane portato giù in città perché una zampa gli si era indurita di colpo, come se non fosse più di carne. E poi? Cosa ha fatto sì che Portinari si decidesse a chiamare i poliziotti e condurli lì, alla piantina? Cosa ha sentito?
Cosa sento io invece è chiaro. Pace. Una pace immutabile, cristallina come questo vetro. Forse ora mi ricordo da dove viene questo senso di quiete. Quando papà e io giocavamo sulla spiaggia…
“Vieni”. La porticina fa emergere la testa di Arcadi come delle fauci che lascino prendere un ultimo respiro alla preda. “Ha finito”.
Lo seguo. L’altra stanza è più piccola e meno ingombra di macchine. C’è una porta a vetri che dà sul bosco dietro la casa. Uno scaffale, un paio di server ronzanti. Una scrivania con un pc e un uomo appollaiato su una sedia pieghevole. Mi fissa con occhi incorniciati di celluloide e policarbonato.
Arcadi ci presenta con entusiasmo. Sì, conosco il dottor Samoseli. Sì, lui ha sentito dei miei studi. Il mio articolo sulla conformazione frattale dei campioni vegetali è interessante. Apre prospettive innovative. Dovrei parlarne con quelli del MIT, tra due mesi. Sarebbe bello vedermi qui più spesso.
“Non fosse così pericoloso
”, aggiunge poi.
“Lei non è un uomo d’azione” ribatte Arcadi
, “qui è come stare in guerra. Ci sono rischi, ma anche gloria”.
“A me la guerra non piace”.
“Quando la guerra viene da noi, ci deve piacere per forza”.
Samoseli cambia argomento. Ci aggiorna sul picco di due settimane fa. La frequenza è aumentata a livelli mai visti prima. A un certo punto hanno creduto di dover evacuare il centro di ricerca. Poi tutto è rientrato, ma sono certi che da qualche parte ci sia stata un’espansione. Arcadi fa finta di non aver già letto tutti i report, e infine gli chiede di portarci alla Scheggia. Samoseli ovviamente se lo aspettava, ma tentenna in modo allarmante. Mi sembra incredibile trovare del senso di agitazione in questo posto, ma lui è riuscito a incarnarla.
Alla fine si convince e tira fuori tre
tute da un armadietto nascosto in uno stanzino. Ci sistemiamo così, alla bell’e meglio. Sappiamo tutti che queste tute non servono assolutamente a nulla. Ma le procedure ci piacciono troppo, sono parte integrante della nostra specie, del nostro modo di eseguire la vita, del continuo bisogno di sicurezza, anche in questo oceano di quiete.
Seguo Arcadi e Samoseli oltre la porta a vetri, nel bosco ingombro di luce e corteccia e rami. I filtri della
hazmat non mi permettono di sentirlo, ma là fuori ci deve essere una gran profumo di resina, di pino e di umido. Gli aghi che cadono dai rami devono certo fare il solletico sulla pelle nuda. Per me, però, rimbalzano sulla tuta con un ticchettio insignificante. Mentre affondo nel fango seguendo questi due dottori, questi due grandi scienziati, mi sembra che il senso di pace si vada affievolendo. È al di là della gomma di cui sono rivestita? Mi sembra di sentire la voce di papà sulla spiaggia.
“E dove si sarebbe spinta l’espansione
?”, sta dicendo Arcadi.
“Verso ovest, credo. C’è un calvario, all’incrocio con la vecchia strada per la città. Lì hanno trovato delle piume di plastica”.
“Gli uccelli non vanno più dentro i frammenti, Sandro. Hanno imparato”.
“Lo so. Ma magari qualche esemplare in migrazione, no? Meglio essere sicuri”.
“E come fa a
essere sicuro? Bisognare fare le rilevazioni ad altitudine. Il ministero ha mandato gli scanner?”
“No. Forse il mese prossimo. Ma quelli dell’ENPA ci hanno portato un falchetto morto. Aveva il sangue pieno di microplastiche”.
“Microplastiche. E secondo lei questo dovrebbe significare qualcosa?” ridacchia Arcadi
.Io e lei ne siamo imbottiti da ben prima che apparisse la Scheggia”.
Samoseli borbotta qualcosa di incomprensibile. È nervoso, si guarda attorno di continuo. Un pesce tirato fuori dall’acqua e gettato in un deserto, con ogni granello di polvere a ingolfargli le branchie. Soffoca, qui. Quasi come me dentro la
tuta. Ci conduce incerto oltre un filare compatto di faggi, poi lungo il pendio scivoloso di una collinetta. Qua e là si allungano fasci di plastica bianca e rossa, legati a lunghi pali metallici. Al ramo di un larice pende una luce arancione lampeggiante circondata da piccoli catarifrangenti. Dietro si erge un grosso recinto d’acciaio, ornato in cima da cespugli di filo spinato.
Mi fermo un
istante. Lì c’è il frammento che hanno individuato due mesi fa. Ho usato le rilevazioni per uno studio che devo ancora pubblicare. È il candidato per il prossimo inserimento. Prenderanno un frammento organico scelto e ce lo metteranno dentro. Magari questa volta la smetteranno col legno e proveranno con qualcos’altro. Non dico una fetta di carne, sarebbe troppo, ma forse si potrebbe ripetere il test di materiale chitinoso fatto dai francesi. O quello con i capelli, proposto da Bombay. Se soltanto potessi…
“Vuoi restare lì?”
Sono in piedi davanti al recinto. Perché? Arcadi e Samoseli sono poco più avanti, e mi guardano. Mormoro qualche parola di scuse e li seguo. Il bosco ora è più luminoso. Più aperto. Invece
che provare imbarazzo, mi sento inondata da un nuovo spazio di quiete. Mi accarezza il cuore. Lo coccola, lo culla. Vorrei togliermi la hazmat. Vorrei smettere di seguire Arcadi e Samoseli. Forse dovevo venire qui solo per questo: scoprire che ho cercato di conoscere la Scheggia nel modo sbagliato. Scoprire, in un attimo preciso, che quest’eco di ricordo che mi rimbomba in testa può d’improvviso divenire chiara.
“Ogni volta che ci vengo è un’emozione nuova. Qualcuno pensa che sia un posto splendido
”, dice Arcadi.
“No” ribatte Samoseli, “in
realtà non lo è, davvero”.
“Ecco. Non lo credo neanche io. Forse direbbe che è un posto sbagliato?”
“Sì. Sì, questo posso dirlo”.
“Può?”
“Posso. In coscienza sì”.
Arcadi annuisce
, “In coscienza. Davvero un termine adatto. A proposito, che mi dice della teoria Kaidanovsky? Secondo lei funziona?”
“Non mi sono ancora informato
”, borbotta Samoseli.
“Sarei curioso di sapere che ne pensa. La faccio breve. Kaidanovsky dice che potrebbe essere proprio una questione di coscienza. E con ‘coscienza’ intende ‘consapevolezza’. Lei si immagina mai la coscienza di un dente?”
“No. Il dente non ha coscienza. Non ha neuroni. Come potrei sapere di essere un dente?”
“Se permette, questo potrebbe essere del tutto ininfluente. Non le ho detto di immaginare la sua stessa coscienza nel dente. Le ho chiesto della coscienza propria del dente. Potrebbe essere una coscienza del tutto diversa dalla nostra…”
“Potrebbe”. Samoseli si stringe nelle spalle. “Credevo Kaidanovsky si occupasse di strutture molecolari”.
Pali aguzzi come canini. Un recinto più grande. Riflettori imbrattati di fango. Cavi avvinghiati di edera. Un brivido che mi scuote la schiena, come la brezza che corre sulla spuma marina. Siamo arrivati.
“In un certo senso è esattamente questo
”, continua Arcadi. “La possibilità che la coscienza si imbrigli in una materia organica non vivente. Non necessariamente una coscienza complessa ma… ammettiamolo pure, sì, complessa. Stratificata. Come e più della nostra. Bene, dice Kaidanovsky, e se queste coscienze si fossero evolute? Se crescessero tra noi, magari da quando abbiamo sintetizzato noi stessi della materia organica non vivente? Si potrebbe trattare di evoluzione non naturale, per terzi, ma pur sempre evoluzione. O magari no, ecco, le coscienze vengono da fuori a prescindere, sono sorte altrove e si sono imposte a noi. Perché non potrebbe? Noi, in coscienza, abbiamo aspirato alla conquista di altri spazi, e loro non dovrebbero?”
“Arcadi, sarò sincero. Non ho una grande stima di Kaidanovsky”.
“Immagini questo. La Scheggia potrebbe essere un atto di guerra. O magari un tentativo di domesticazione. Lo stadio definitivo
, intendo. Finale, superiore, perfetto della materia organica che manifesta sé stesso, in un tentativo polimerico di addomesticarci. Un tentativo di colonizzarci al contrario, senza prendere il nostro regno ma trascinandoci nel suo. Forse è soltanto questo: la plastica che ci conquista, che ci porta nella sua versione del paradiso. Magari dovremmo ringraziarli per questo gesto così pietoso. Crede che se avessimo una pillola che dona la coscienza umana, non proveremmo infine a somministrarla anche ai cani?”
Samoseli non risponde. Armeggia con la tasca, ne estrae un tesserino magnetico. “Lei mi diverte, Arcadi. Sulla Scheggia sono pronti a dire di tutto. Anche che sia una cosa buona”.
“Ha ragione. Probabilmente pecchiamo di arroganza
: non dovremmo giudicare. Tutto quello che abbiamo prodotto per decenni, spargendo rifiuti ovunque. Magari abbiamo solo obbedito a loro. Un primo tentativo, approssimativo. Rozzo. Microplastiche, ma ci pensa? Come possiamo competere con questo? Con la Scheggia?”
Samoseli non risponde. Si ferma davanti al cancello, fa passare il tesserino magnetico sulla serratura e tira a sé l’inferriata. Lo spazio recintato è una sorta di spianata senza alberi larga una quarantina di metri. L’erba e l’ortica si fanno più rade, fino a scomparire quasi del tutto verso il centro.
Arcadi finalmente mostra qualcosa di diverso dal divertimento. Si fa calmo e silenzioso, come in chiesa. Samoseli si accartoccia sulla recinzione, schiacciandovi contro le spalle.
“Eccoci” dic
e, “è qui”.
“Se ti metti di sbieco” mi dice Arcadi, “a quest’ora dovrebbe vedersi qualcosa. C’è la luce giusta”.
Annuiscono dentro il cappuccio della
hazmat. Faccio qualche passo sul terreno polveroso – lì c’è un filo d’erba plastificato di cui si sono dimenticati – e mi chino sulle ginocchia. Guardo verso il centro della radura, poi al grande varco di cielo azzurro che vi si apre sopra. Intravedo un riflesso minuscolo, quasi violaceo, a quattro o cinque metri dal terreno. Mi sposto appena sulla destra. Il riflesso si allunga dalla parte opposta, terminando in una linea obliqua che si proietta verso terra, finendo nella polvere. E se mi inclino di qua, vedo che la Scheggia è un po’ estesa verso ovest, e poi alta nel cielo, come un colossale coccio di bottiglia precipitato dai cieli e conficcatosi sulle disperate lande degli umani. Sorrido. Mi gira la testa.
“Se togliessimo le tute” sta dicendo
Arcadi, “si sentirebbe qualcosa. La frequenza è ancora…”
“No” si affretta a dire Samoseli
,assolutamente no”.
“La frequenza è cambiata?”
“No. È che non dobbiamo togliere le tute. È una questione di sicurezza”.
Sandro” mormora Arcadi scuotendo la testa, “io credo che lei non stia bene qui”.
“Beh…”
accenna Samoseli.
“Non in quel senso. Lasci stare la faccenda di Kaidanovsky. Mi perdoni, ma credo che il suo approccio non le permetta di sfruttare al massimo le opportunità che le si presentano in questo luogo”.
Samoseli non sembra piccato. Risponde qualcosa che davvero non voglio sentire. Mi siedo per terra,
guardando i riflessi di questa maestosa spaccatura nella realtà. L’abbiamo mappata, sappiamo disegnare il suo profilo inclinato, la sua sagoma a foglia di quercia, sappiamo che è spessa due centimetri e che è leggermente bombata al centro. Sappiamo che da quando è apparsa, nove mesi fa, è cresciuta a dismisura. E dissemina frammenti di sé attorno, nel bosco, come se qualcuno la stesse frantumando e seminando in giro. Ma lei non si riduce a questo, no. E non si riduce in ogni senso. È anzi sempre più grande, sempre. Cresce, spargendo attorno i propri frammenti, in un ordine di cui intuiamo appena le leggi. E ogni cosa organica che vi passa attraverso diventa di plastica. Ogni fibra, ogni poro, ogni asperità. Foglie, corteccia, piume, becchi, peli e zampe. Qualsiasi materiale che un tempo sia stato vivo diventa di una plastica densa e resistente, anche se lo si scherma con metalli o minerali. La Scheggia ignora tutto ciò che non è composto vivente e organico. Se ci infilassi dentro un dito, lo estrarrei plastificato. Rosa, con le mie impronte digitali e il graffietto sul polpastrello. Mio, ma non più mio. Di plastica.
“Lei qui potrebbe letteralmente avere lavoro infinito
”, dice Arcadi. “Non finirebbe mai di studiare. Di scoprire. C’è tanto di quel lavoro da non credere. È uno stimolo perpetuo. Questo è il sipario che ci separa da una nuova era. O forse è il gradino prima del tuffo finale. Nella distruzione, magari. Ma non importa. È lei a essere qui adesso, Samoseli. Qui e ora. E anche se non siamo sicuri che ci sia volontà dietro tutto questo, beh… è comunque l’occasione più simile, per l’umanità, di trovare finalmente qualcos’altro. L’altrove”.
“Se non mi ci avesse mandato il ministero…”
Il ministero? E cos’altro? Le nazioni, i popoli? La Scheggia non si fermerà. Un giorno dovranno allargare la zona di esclusione. Non ci saranno più uccelli, cani randagi, gatti o bestie selvatiche. Gli animali avranno capito tutti e se ne
andranno per sempre. Anche le piante lo farebbero, se potessero spostarsi. Soltanto noi continueremo a venire qui apposta. A venire, studiare e raccogliere artigli di plastica. Chissà se qualcuno verrà soltanto per questa percezione di calma, come sto facendo io ora. Per questa percezione di pace così silente, e fresca.
“Lei non capisce davvero
”, ringhia Arcadi.
Dibattono. Si contraddicono. E io li ascolto da lontano. Sono alle mie spalle, ma improvvisamente così distanti. So che non mi stanno guardando. Lentamente sgancio il cappuccio. Il vento mi scorre di colpo, fresco, sulla pelle. Gli odori del bosco non ci sono. L’aria è appena umida, appiccicaticcia. Risuona di un pulsare basso, lontano, costante. La Scheggia che palpita. Eravamo sulla spiaggia con papà, avevo sette anni. Lui mi aveva appena regalato un dinosauro giocattolo.
“Io non dico di arrivare agli eccessi di Kaidanovsky” grida
Arcadi, “ma almeno un’idea. Una sola. O vogliamo subire tutto questo senza avere il coraggio di dargli un valore? Vogliamo osservarlo, misurarlo e basta?”
Samoseli non risponde. Lo sento armeggiare con qualcosa, forse la cancellata. “Dobbiamo davvero andare. C’è il cambio di turno delle guardie. Ci aspettano”.
“Sandro, davvero non c’è altro per lei? Davvero siamo condannati a essere per sempre scimmiette spaventate, destinate a morire
?”
“Le ho detto che ci aspettano”.
Ci aspettano. Mi aspetta. Papà, sulla spiaggia, che mi mostra lo stegosauro di plastica. Papà ha gli occhi verdi, quasi come la pelle del dinosauro. Ha le mani forti, le usa per agitare il giocattolo dalla superficie corrugata e resistente. Il suo profumo si confonde con quello del mare. “Vedi” mi dice, “questo è tuo”.
“Papà, dove sono i dinosauri?”
“Non ci sono più”. C’è una pace perfetta nella sua voce. Una pace infinita, come negli occhi dello stegosauro.
“Quindi di loro non è rimasto niente”.
“Ci sono le ossa. E il petrolio”. Sorride, i denti bianchi come la spuma del mare. Vedo solo i suoi denti. Lucidi duri bianchi organici.
“E questo dinosauro di cosa è fatto?”
“Di plastica”.
“E da cosa si fa la plastica?”
Solo i denti. “Anche dal petrolio”.
Ecco, papà. Impreciso. Vago. Ma circolare. Puntuale. Così vero. Così aperto, calmo, tranquillo. Dagli eoni, materia organica in materia organica. Materia organica perfetta, dove la coscienza
è e basta, senza contraddizioni e senza incertezze, fallacie o difetti. Un ritorno concluso alla propria stessa forma, senza decadimento. Un pulsare continuo, immutabile: la vita cristallizzata in forma imperitura. Sarebbe un regalo? Sarebbe un inferno? Sento una voce da qualche parte: anzi, due; tre. Una, è il professore spaventato; l’altra, il mio professore, che dice: “Ferma!”
Ma una terza voce, una terza che pulsa. Una terza che chiama. Il suo timbro è tranquillità, il suo tono serenità eterna. Là dove non esistono gli articoli, i saggi, e i recinti e i professori e gli uccelli e le guardie e la morte e papà. Dove non c’è più paura e noia, dove ogni scimmia terrorizzata diviene l’archetipo di una contemplazione irraggiungibile. Dove ogni molecola si irrigidisce e deforma, dove ogni superficie si plasma in una sagoma di organicità immortale. Dove papà è come un unico dente.
Mi vedo ancora per un attimo. In piedi, davanti alla Scheggia. Arcadi che grida mentre corre verso di me. Samoseli che strilla. Ma è troppo tardi: ho capito quale incredibile regalo ci sia stato offerto, quale miracolo ci sia stato imposto. Faccio un passo, uno solo, verso la superficie invisibile, nel perfetto nulla della Scheggia: e in un attimo assurgo a una Gloria Infinita.


L’autore

Francesco Corigliano è docente di scuola secondaria di primo grado. Nel 2019 ha conseguito un Dottorato di Ricerca con un lavoro di studio sulla letteratura weird. Ha pubblicato articoli di critica letteraria dedicati a fantastico, folk horror e letteratura del soprannaturale in raccolte e riviste accademiche, e il saggio La letteratura weird. Narrare l’impensabile (Mimesis, 2020). Si è classificato in diversi premi per narrativa di genere e ha pubblicato in antologie, raccolte personali e riviste (Kipple, Delos, Hypnos, Historica, Lethal, Watson, Horti di Giano, Dimensione Cosmica, Il Buio, Narrandom). Suoi racconti in lingua inglese appaiono in raccolte edite da Chthonic Matter e The Great Void Books. Scrive di letteratura fantastica sulla rivista online “La Balena Bianca”.

Illustrazione di Carlotta Contino