Entra nella sua vecchia casa e si guarda attorno. Accosta la porta alle sue spalle, non è possibile richiuderla: è stata sfondata chissà quando, chissà da chi.
Infinite volte ha varcato quella soglia con l’immaginazione, rievocando il ticchettio degli orologi, l’odore della colla e il solletico del baffi di suo padre, ma da tempo la disillusione ha reso dolorosi i sogni a occhi aperti che ora si infrangono contro il silenzio in attesa. Il grigio della polvere che copre gli scaffali vuoti e l’aria stantia che lo avvolge sono più concreti di qualsiasi fantasia.
Vaga con lo sguardo per la stanza, sforzandosi di trovare un segno che gli consenta di capire. Il vecchio è stato rapito? Mancano alcuni mobili, altri sono ridotti a pezzi, delle decine di miracolosi giocattoli non c’è traccia. Probabilmente sono stati rubati ma non gli importa. Il dolore ha consumato ogni traccia di nostalgia come un’infestazione di tarli nel suo petto.
«Pinocchio? Sei tu?»
Lo ha sentito a malapena. La magia ha trasformato il frinire di Jiminy Cricket in linguaggio e gli ha allungato la vita ben oltre i limiti decisi da Madre Natura, lasciando che gli anni arrochissero il suo tono squillante e ne impastassero il suono.
Ciò nonostante il Grillo parla ancora.
«Non hai bisogno di nasconderti. Se non ti ho schiacciato allora, non lo farò neppure adesso, ti pare?»
Da una scatola di sigari rotta il Grillo scivola fuori con movimenti lenti e appesantiti dal rimorso. Indossa ancora il frac anche se è ridotto a un mosaico di pezze, ingrigito come il proprietario. Pinocchio non smette di dargli le spalle, fissando ciò che resta del banco da falegname.
«Quando sei riuscito a scappare?»
«Una settimana fa. Ci ho messo più tempo di te, vedo che ne avete approfittato per riarredare.»
«Pinocchio, Geppetto non è…»
Il silenzio chiude una frase troppo crudele, ma si fa presto insopportabile. «Era… era già vecchio allora e nonostante quello che è successo non sarebbe mai sopravvissuto così a lungo.»
«Cosa gli è successo?»
«Ho provato ad avvertirlo, te lo giuro! Ho cercato di dirgli dov’eri, ma lui non riusciva a…»
«Grillo, porca troia!»
La voce di Pinocchio è rimasta quella di un bambino ma il dolore della prigionia di cui è intrisa la rende straziante.
«Non riusciva a darsi pace, ti ha cercato dappertutto. Poi un giorno è sparito. Quindici anni dopo hanno ritrovato la sua barca nel ventre di una balena mostruosa. Deve… deve aver avuto un incidente in mare. Mi dispiace.»
«Un incidente in barca mentre mi stava cercando.»
«Non devi pensare che sia colpa tua.»
«Oh, ma io questo lo so. So perfettamente di chi è la colpa.»
Quando Pinocchio si gira Grillo si pente di tutte le volte che ha desiderato rivedere il volto del suo vecchio amico.
L’incuria ha lasciato profonde cicatrici e l’umidità ha impregnato il legno un tempo brillante, incrinandone la superficie e sfogliandola. Del sorriso e degli occhi dipinti dall’esperta mano di Geppetto non rimangono che segni semi cancellati e scheggiati, linee sgraziate che abbozzano una grottesca caricatura di volto infantile. Dopo vent’anni di schiavitù e sevizie il burattino è ridotto a un insulto all’arte di suo padre.
Liberando il Grillo dall’imbarazzo Pinocchio rivolge di nuovo la sua attenzione al banco di lavoro, troppo massiccio per essere spostato o rubato. Ne accarezza la superficie, legno contro legno, poi contempla in silenzio il palmo della mano impolverata. Non indossa davvero dei guanti, del bianco di cui è stata dipinta restano giusto poche chiazze sbiadite. Potrei fresarle, pensa.
Con le dita passa a sfiorare le gambe del banco, inginocchiandosi, per poi infilarle sotto, allungando il braccio in profondità tastando, cercando.
«Sai che ho trovato subito la strada di casa? Credevo avrei fatto fatica a ricordare i dettagli, e in effetti sono cambiate molte cose, ma non ho esitato a un solo incrocio, mai. In fondo quelle poche centinaia di metri sono state le uniche che abbia mai percorso da uomo libero.»
«Avevi attraversato il ponte di pietra e…»
«Tu non c’eri. Eri in ritardo.»
Per un attimo Grillo teme di dover di nuovo affrontare l’atroce sguardo di Pinocchio, che però ricomincia ad armeggiare sotto al tavolo «Prima che mi fermassero quei due bastardi e mi vendessero a Mangiafuoco. Girano ancora da queste parti?»
«Sì, frequentano gli stessi posti. Credo abbiano adescato altri bambini in questi anni per conto di un mercante di bestiame, non so cosa ne facesse.»
«Io lo so fin troppo bene, ma non rapiranno più nessuno. Il Cocchiere è morto.»
«Tu c’entri qualcosa?»
Lo scatto di un gancio nascosto fa rinascere un abbozzo sgangherato di sorriso.
Pinocchio tira con forza verso di sé e una guida di legno si libera finalmente della sua prigione, lasciando che le sue mani riportino alla luce un piccolo contenitore rettangolare.
Dopo una serie di lunghi salti Grillo soddisfa la sua curiosità: osserva la scatola aprirsi e la pistola di Geppetto sollevarsi tra le mani del burattino, che la soppesa e la studia con attenzione.
«Mi porterai dal Gatto e dalla Volpe dopo che avrò trovato qualcun altro degli attrezzi del babbo.»
«E poi?»
«E poi quei due pezzi di merda si pentiranno di non avermi lasciato andare a scuola.»
Con l’unico occhio rimasto John guarda il suo amico Gideon, accasciato scompostamente sulla sedia. Le corde impediscono al corpo di cadere ma lo stesso non si può dire della materia cerebrale che sta colando dall’enorme spaccatura sul cranio. Torturare un gatto muto e ritardato non aveva fatto altro che riempire la cantina di lancinanti miagolii, per cui il colpo di grazia è arrivato in tempi relativamente brevi.
La Volpe non ha goduto della stessa pietà.
Ha smesso di tremare e lo shock impedisce ai suoi nervi di provare dolore, sente solo un gran freddo. Soprattutto ai piedi.
«Dov’è la mia mantella?»
Sente le parole uscire dalla bocca ma la voce gli giunge ovattata, così come la risposta di quella creatura spaventosa, quel demonio sbucato dall’inferno per punirlo di tutti i suoi peccati. Honest John, detto la Volpe, ha fatto cose orribili in vita sua, e di altri orrori è stato indirettamente responsabile, questo lo sa bene. Non si è mai illuso di morire serenamente nel suo letto ma si è sempre premurato di farlo a pancia piena. Buffo, considerando come è ridotto ora. Non riesce a capire la risposta del suo carnefice, ma deve essere una battuta molto divertente. Il rumore della sega gli riempie le orecchie, gli vibra dentro, copre le risate del demone che continua a segare, nonostante John abbia già confessato da parecchie ore. Ha risposto a ogni domanda, anche a quelle rivolte al povero Gideon; non è servito a nulla.
Prima di perdere conoscenza trova il coraggio di guardare il volto di quel diavolo con le sembianze di un bambino di legno, cercando negli occhi disegnati le anime di tutti i bambini che avevano sofferto per colpa sua.
Non vede nulla, ma ha un lampo di comprensione.
L’esecuzione di Gideon è stata troppo per i nervi di Grillo. Si sta chiedendo se sia il caso di pulire la macchia di vomito quando Pinocchio riemerge dallo scantinato della Volpe con passo deciso, diretto verso l’uscita. Il sangue ha impregnato il legno del burattino restituendogli lucentezza, nutrendolo come il pasto di un vampiro. Grillo trattiene un altro conato, dandosi giusto il tempo di smaltire un capogiro prima di rincorrere Pinocchio nella notte.
«E ora cosa farai? Hai altre teste da spaccare e arti mozzati di cui occuparti o preferisci riposarti prima di ricominciare?»
Rimane senza fiato tra le urla e i lunghi salti, ma non cede. Continua a inveire, ignorato.
«È questo che farai d’ora in poi? È questo che volevi essere agli occhi di Geppetto, un assassino sanguinario?»
«Levati dalle palle, Grillo. Ora so dove trovare Stromboli, non ho più bisogno di te.»
«Certo, come no, non ne hai mai avuto. Hai buttato la tua intera vita nel cesso facendo solo di testa tua, stupido somaro.»
Pinocchio si ferma di colpo, stringendo i pugni insanguinati.
«Non dirlo mai più.»
«Dico quello che voglio! Sono o non sono la tua coscienza?»
«Non osare! Non dire quella parola, non ne hai il diritto!» La sua voce infantile stona, come se dopo tutto quel tempo stesse finalmente attraversando l’adolescenza. «Il tuo primo giorno di lavoro e tu eri in ritardo. Per colpa tua mi hanno preso e venduto a Stromboli!»
«Ti avevo detto di mandarli a farsi fottere e non mi hai ascoltato!»
«Bravo, vent’anni dopo eccolo lì il tuo “te l’avevo detto”. Ti sei sfogato, ora sparisci.»
I rumore dei passi di Pinocchio riprende a disturbare la quiete notturna, a ritmo sempre più veloce, nel tentativo di sfiancare il Grillo. Niente da fare.
«No! Questa follia deve finire, la vendetta non ti ridarà tuo padre o gli anni che hai perso, devi smettere di…»
«Non voglio più avere paura!»
La velocità con cui Pinocchio inverte il passo spaventa Grillo tanto da fargli compiere un lungo salto indietro, temendo di finire schiacciato.
«Dovevo sempre dare il meglio, sempre! E anche quando era tutto perfetto lo sai cosa faceva?»
Grillo lo sapeva. Quante volte aveva sentito quel tronfio maiale minacciare Pinocchio mentre contava i soldi che aveva incassato sfruttandolo?
Non c’è più biasimo nella voce del Grillo, rotta dal dolore. «“Quando sarai troppo vecchio…”»
«“Sarai sempre utile per fuoco”. Mi ha torturato e spaventato per anni e quello che ho passato dopo che quel figlio di puttana mi ha venduto è stato anche peggio. Non posso lasciargliela passare liscia. Non voglio. Non voglio più avere paura.»
Le nubi riempiono il cielo notturno, oscurando la luna.
«Dicevano che mi avrebbero reso una star» mormora Pinocchio a testa bassa «Te lo immagini quanto sarebbe stato fiero di me?»
Un tuono risponde lontano, a nord.
Il vecchio carrozzone ondeggia sferzato dalla pioggia, così fitta che persino per leggere l’enorme scritta sbiadita sul fianco occorre fare uno sforzo. Un lampo illumina la valle e strappa una bestemmia dalle labbra di Stromboli, bagnato fradicio. Detesta i temporali, gli rovinano gli affari. Questo poi è giunto all’improvviso costringendo il burattinaio a correre come un pazzo per mettere in sicurezza il campo. Rientrando si toglie i vestiti zuppi e inizia a riporli sulla sedia di fronte alla stufa accesa.
Clic.
Non si scompone. Ha sentito altre volte il rumore del cane di una pistola, ma essere colto alla sprovvista gli fa girare i coglioni.
«Se cerchi la borsa del denaro è proprio qui. Ma ti avverto, non vale la pena farsi ammazzare per quello che contiene.»
Mentre appoggia l’ultimo calzino decide di tenere almeno le mutande. Si gira e riconosce la sagoma di Pinocchio nella penombra disegnata dalle fiamme.
«In ginocchio, ciccione.»
La risata di Stromboli inizia con un fischio ma si fa presto assordante. Si regge l’addome prominente con entrambe le mani, smargiasso, sferzando i nervi di Pinocchio con arroganza.
«Cristo, Pinocchio, puoi anche aver trovato le palle in mezzo a tutti quei tarli ma che io sia dannato se supplicherò un fottuto burat…»
BANG.
Dalla vecchia pistola di Geppetto esplode un lampo dall’odore nauseante e una nube di minuscoli pallini frantuma il ginocchio destro dello zingaro, schizzando l’aria di sangue e schegge d’osso.
Stromboli cade pesante sulla tavola al suo fianco, ribaltandola e sparpagliando sul pavimento le sue cianfrusaglie. Anche la lampada a olio si infrange sul pavimento e la larga macchia scura inizia a bruciare in un denso fumo oleoso.
Pinocchio si avvicina, puntando alla testa.
«Fermo.»
«Dove cazzo vuoi che vada, mi hai macellato la gamba fantoccio bastardo!»
«La vuoi vedere una gamba macellata? La vuoi vedere?»
Pinocchio si strappa il pantaloncino logoro con un gesto rabbioso, senza abbassare la pistola. Quella che svela non è la sua gamba, arsa anni fa nella stufa del carrozzone. Stromboli ricorda quando dovette sostituirla con quella di un tavolo, un vero colpo di sfortuna: Pinocchio perse mobilità e da quel giorno dovette rinunciare al balletto coi burattini cosacchi.
«Non ero bravo come il tuo vecchio…»
«Me l’hai spezzata tu, brutto bastardo! Eri ubriaco fradicio e mi hai lanciato contro il muro!»
La faccia di Mangiafuoco è una maschera di pietra. Il sudore freddo svela il suo dolore fisico, ma di rimorso non c’è traccia.
«E per cosa, poi? Ti avevo solo chiesto una parte dei soldi che io ti facevo guadagnare.»
«E che cosa ne avresti fatto? Coraggio, sentiamo. Ti saresti fatto una vita? O magari saresti tornato a scuola? Me li ricordo, tutti quei piagnistei: “voglio andare a scuola, tornare dal mio babbo, fammi uscire”. Beh, ora sei libero, finalmente sei riuscito a scappare e guarda un po’, dove sei finito? Di nuovo qui da me.»
«Tu non sai un cazzo.»
«E lo sai perché? Perché sei solo una merda di burattino, nient’altro. È la tua natura. Ricordo la prima volta che salisti sul palco: non ti diedi neanche un copione. Ti lanciai in scena e dopo pochi secondi eri il re del palcoscenico.»
Un fischio acuto riempie la testa di Pinocchio fino a sovrastare le velenose chiacchiere del suo ex padrone e come un automa arma il cane un’altra volta, mirando alla fronte.
«E allora perché mi hai venduto? Per fare da attrazione al Paese dei Balocchi, per far divertire i bambini fino a quando non iniziavano a cambiare! Ho ascoltato le loro grida di dolore per anni perché quel demonio non mi trasformasse in uno di loro!»
«Il Cocchiere non è un uomo che accetta un no come risposta. Di sicuro ti starà cercando.»
«Difficile, è bruciato insieme al suo schifoso Luna Park. E ora tocca a te.»
Con tre lunghi balzi il Grillo parlante esce dal buio del suo nascondiglio, frapponendosi tra vittima e carnefice.
«Pinocchio, ti prego fermati!»
Jiminy Cricket tossisce debolmente a causa della densa nube che inizia a invadere la stanza mentre le dita di Stromboli, tastando alla cieca, afferrano un fiasco di vino vuoto.
«Guardalo.»
E Pinocchio lo guarda, il grande e terribile burattinaio, Stromboli detto Mangiafuoco, nudo, lercio e grasso, sdraiato sul pavimento lurido di un carrozzone che solo una bestia chiamerebbe casa.
«Non troverai in lui il rispetto che cerchi, né la tua umanità. Non ne ha neppure per sé stesso.»
Il fischio nella testa di Pinocchio cala d’intensità. Nota lo spesso strato di fumo che si addensa sul soffitto della stanza e l’incendio alle spalle dello zingaro che ha occupato buona parte della parete.
Si sente sollevato quando si rende conto che sta per bruciare tutto e che il suo incubo presto sarà ridotto in cenere, nient’altro che un terribile ricordo.
Sarà migliore del suo aguzzino. Non si lascerà accecare dalla rabbia, né si lascerà manovrare ancora una volta. Lo ucciderà, ma solo perché è la cosa giusta da fare. Perché se lo merita.
Inspira lentamente assaporando la sensazione di libertà che lo attende fuori da quell’inferno, ma a riempirgli i polmoni è una coltre nauseante che lo fa tossire: è l’occasione che Stromboli stava aspettando.
Il fiasco nella sua mano diventa un proiettile ed esplode sul viso di Pinocchio che preme il grilletto colpendo il soffitto. Quando riesce ad aprire gli occhi vede il Grillo, stretto nel pugno del burattinaio.
«Abbassa la pistola o lo schiaccio.»
Ogni tentativo dell’insetto di liberarsi dalla morsa del gigante è uno spreco di energie.
«Pinocchio, no! Non ti fidare, vattene da qui!»
Ma lui non lo ascolta. Guarda Jiminy Cricket che di fronte a morte certa continua a dirgli di scappare, di salvarsi la vita, di andarsene via e dimenticarsi di lui e di tutti quegli orrori, della prigionia e di Stromboli, che ancora lo minaccia e pretende di fargli fare quel che vuole, anche senza l’aiuto dei fili.
«Abbassala! Ora!»
E Pinocchio lo fa.
«Falla cadere a terra e calciala verso di me.»
Grillo osserva Pinocchio incredulo mentre Stromboli si china per recuperare la pistola ai suoi piedi ridendo di loro, talmente rozzo da non rendersi conto del miracolo a cui ha appena assistito. Sembra un demonio, tutto rosso per il calore, gonfio e coperto di sudore. Con l’arma puntata verso il burattino e un ghigno sadico dipinto sul viso avvicina il Grillo alle fiamme alle sue spalle.
«Non sarà un granché utile per il fuoco, ma ci libereremo di una bella seccatura…»
«Ehi, sacco di merda!»
Solo allora Stromboli si rende conto: Pinocchio non ha più paura di lui. Lo fissa con quella specie di sguardo reso inespressivo dal tempo e martoriato dai tarli, ma la sua voce non trema e tutto il suo corpo è proteso in avanti in segno di sfida.
«Tieni giù le mani dalla mia coscienza.»
Pinocchio scatta in avanti, ma non così velocemente da evitare il colpo di pistola che gli apre uno squarcio nel torace. Sarebbe all’altezza del cuore se solo ne avesse uno, ma è solo l’ennesima scalfitura nella sua scocca di legno.
Sfruttando lo slancio si butta contro il gigante che perde l’equilibrio precario sulla gamba sana e cade tra le fiamme, imprecando quando la folta barba ingrigita prende fuoco. L’ultima cosa che Stromboli vede mentre cerca di alzarsi da terra è la pistola arroventata che gli esplode a mezzo metro dalla faccia. Cade di colpo e rimane immobile anche quando la carne inizia a sfrigolare.
La porta del carrozzone si apre vomitando fumo, seguita da una minuscola figura che si trascina a fatica. Pinocchio si lascia cadere dal gradino sull’erba bagnata, godendosi la sensazione della pioggia che gli lava il viso. Apre la mano, liberando il Grillo che salta tossendo sul prato con la gola che gli brucia e gli impedisce di assicurarsi che il suo amico stia bene.
Ma non sta bene.
Lo capisce dall’addome che si alza e si abbassa con tempi sempre più lunghi. È di legno, come può fermarsi il cuore di un ciocco di legno?
Pinocchio sembra leggergli la domanda negli occhi e sorride.
La pioggia si fa sempre più debole e tra le pesanti nubi nere si apre uno squarcio che incorona una stella brillantissima, pulsante.
La stella dei desideri realizza Grillo. Capisce cosa sta per accadere e il cuore gli scoppia di gioia.
Una lancia di luce attraversa il cielo, abbagliante. Brillanti luccichii danzano nel cerchio luminoso che circonda Pinocchio, per posarsi delicatamente su di lui. Una voce femminile risuona nella valle annunciando il miracolo.
«Dimostrati bravo, generoso e disinteressato. Impara a distinguere il bene dal male. E un giorno…»
«Un giorno…» le fa eco il Grillo tra le lacrime «un giorno diventerai un bambino vero.»
L’intero processo non dura più di un minuto. Spaccature superficiali e ammaccature svaniscono lasciando il posto alla carne rosea, a mani che diventano gradualmente morbide, graziose e infantili. La chiazza scrostata e sbiadita sulla testa lascia il posto a veri capelli, neri e folti. Persino i vestiti laceri tornano nuovi, con una macchia rossa che si allarga sul ventre dove il proiettile esploso da Mangiafuoco ha aperto uno squarcio. Gli occhi diventano lucidi, vivi, sorridono stancamente prima di chiudersi un ultima volta.
Grillo gli si avvicina all’orecchio mentre il raggio di luce si ritira. Spera che lo possa ancora sentire mentre con un sussurro gli chiede di salutargli il buon Geppetto e di riabbracciarlo forte ora che potrà farlo con mani di carne e ossa, perché finalmente ha dimostrato di saper anteporre quel che è giusto al resto.
Un lampo brilla sul suo petto, accecandolo per un secondo, e quando abbassa lo sguardo esplode in una liberatoria e gioiosa risata.
«Grazie» riesce a gracchiare, continuando ad accarezzare i capelli di Pinocchio e ammirando la medaglia in oro che gli è apparsa sul petto.
«Grazie di cuore.»
La stella dei desideri gli risponde con un ultimo luccichio prima di svanire.
L’autore
Stefano Borciani, classe ‘82, vive in un piccolo paese di nome Fabbrico e ha tutta l’intenzione di rimanerci per sempre. Frontman delle band Demiurgon, Eroinfumo, Instigate e batterista dei Lunedicalm, debutta come sceneggiatore nel 2019 con la miniserie Poker con tre morti su La Iena (Edizioni Inkiostro) e scrive la sceneggiatura del videoclip degli Instigate Indoctrinated Reborn. Ha una barba bellissima.
Illustrazione di Benedetta Baroni