Questo corpo, quasi invisibile sotto il lenzuolo, annuisce e inizia a sibilare.
«Sì che mi ricordo di quel giorno.
Tu vuoi parlarne perché qui il tempo non passa mai e gli ospedali ti mettono a disagio. Non vuoi stare a guardare questo vecchio che si consuma senza aver qualcosa di cui blaterare. Questo vecchio che una volta era un ragazzino come te, solo che poi ha preso una strada diversa. A te i libri, a me le armi. A te la cattedra e a me gli AK-47, il Congo, il Sudan.
E allora parliamo. Qui non abbiamo nulla da fare se non parlare o stare ad ascoltare questo bastardo che mi divora da dentro. Se facciamo silenzio, possiamo sentirlo che continua a mangiarmi, metastasi dopo metastasi.
Parliamo. Ma sarò io a raccontare. Non una parola di protesta. Non una correzione. Parleremo non solo di quel giorno, ma di trent’anni in un paio d’ore.»
Tende la mano verso il bicchiere che gli porgo. Lo aiuto a bere. Un po’ d’acqua gli cola da un lato della bocca quando poggia la testa sul cuscino.
«Ricordo che uscii dal paleoscopio completamente nudo, come da prassi. Con la ConVon si viaggia leggeri, palle al vento nel flusso di elettroni.
Lo shock termico nel passaggio dall’aria condizionata del laboratorio al caldo torrido della grotta esterna del bunker quasi mi buttò a terra. In termini di spazio, non saranno stati più di venti metri, ma lo sbalzo di temperatura fu pesante.
Due minuti dopo arrivò anche la mia attrezzatura: viveri per qualche giorno e di che vestirmi.
Mi misi indosso una tunica di tessuto grezzo, alla maniera degli antenati dei Galla – o, almeno, così avevano detto le teste d’uovo dell’Università, i tuoi colleghi – e un otre di pelle pieno d’acqua.
E anche una Desert Eagle, molto grossa e molto scenica, ma efficace in caso di indigeni troppo curiosi. La nascosi in una fondina sotto la tunica e uscii a fare il lavoro sporco per voi, gente pagante ma noiosa.
A chi interessa se gli invasori preellenici usavano davvero i falcetti per castrare i nemici, come nel mito di Urano?
Però, quando venni a sapere che avrei fatto da apripista a te, non mi dispiacque.
Farò fuori un paio di trogloditi per il mio amichetto d’infanzia, mi dissi, così lui poi potrà venire e studiare con calma e scrivere il suo libro.
Ma il mio interesse primario era non arrivare troppo vicino a quei falcetti, non so se mi spiego.»
Si interrompe, come per ricordare. Un accesso di tosse lo scuote e per un attimo temo si possa rompere. Quando torna la calma, ricomincia anche il racconto:
«Il programma prevedeva una scarpinata di circa tre ore sotto il sole spietato, dal bunker del paleoscopio fino al villaggio di caprai che sarebbe diventato Mogadiscio.
L’Uebi Scebeli però non si vedeva. Me lo sarei dovuto trovare a nord, a circa un chilometro di distanza, ma al suo posto c’era solo un avvallamento secco. L’acqua del fiume sembrava prosciugata da parecchio tempo.
La faccenda puzzava, ma mi misi in cammino. Le informazioni delle teste d’uovo della ConVon e dei loro amici geologi potevano essere sbagliate.
Me lo ripetevo come un mantra.
Hanno sbagliato. Che cazzoni. Si sono sbagliati.
Prima di accorgermi della loro presenza, camminai nell’ombra delle torri per almeno trenta secondi, stordito dal calore disumano, atroce anche per un mercenario che sulle guerre civili subsahariane ci ha prosperato.»
Sono qui accanto a lui, ma i suoi occhi non mi vedono, persi nella memoria.
«Quelle torri. Quella specie di alveare. Devi vederle prima o poi, quelle torri. Enormi strutture, bianche come colonne di un tempio greco senza tetto.
Ecco, una città-tempio piena di oracoli muti e iperconnessi.
Ho avuto modo di guardarla bene, negli anni, tanto bene da scolpirmi ogni geometria nelle retine. Se la si guarda al tramonto, col sole che cala dietro di essa, sembra che allunghi dita nere verso di te. E allora le colonne sembrano di carbone incandescente, non marmo.
Si erano sbagliati, quei cazzoni della ConVon.
La luce mi friggeva la testa, ero svuotato di qualsiasi energia. Mi feci prendere da suggestioni lovecraftiane di civiltà dimenticate e avanzatissime, ma preferii usare il rasoio di Occam. Se davanti agli occhi ho qualcosa di inconcepibile per il passato, allora non sono nel passato.
Così si spiegava anche il fiume asciutto.
Feci l’unica cosa sensata da fare. Da buon bruto, me ne sbattei della virtù e della conoscenza.»
L’attenzione torna al presente, su di me. Il vecchio mi fa l’occhiolino, per vedere se ho colto la battuta.
«Tornai al paleoscopio e attesi nel bunker la data di estrazione.
Tre giorni. Settantadue lunghissime ore in cui l’unica cosa che potevo fare erano le flessioni e guardare l’orizzonte, sapendo che, nascoste dal riverbero, lì c’erano le torri. Per quanto mi sforzassi di essere pragmatico, mi stuzzicavano.
Il paleoscopio, nel frattempo, trasmetteva in uscita i miei parametri vitali, la mia posizione, ma non riceveva nulla.
Sapevano che ero vivo, forse. Sapevano dov’ero, probabilmente. Sapevano anche quando ero?
La data di estrazione passò e fu chiaro che nessuno sarebbe venuto a prendermi. Mi liberai di quella tunica da capraio e indossai l’equipaggiamento tattico. Mi fece sentire meglio. Ero ingenuo, all’epoca: pensavo fosse un’altra gita nel continente nero. Mi mancavano giusto trent’anni di esperienza, ma quelli sarebbero arrivati dopo.
Non ci saranno strade tra le colonne. È come se fossero spuntate lì, o precipitate dal cielo. Con i loro occupanti.
Merda, devo parlare al futuro o al passato?
Tra le colonne – palazzi, strutture, come vuoi chiamarli – non c’era nessuno. Loro erano dentro, avvolti nei propri sogni. Le entrate si trovavano a un metro e mezzo di altezza rispetto al terreno sabbioso.
Mi issai a forza di braccia e un pannello prese a scorrere autonomamente. Dovevano funzionare come con delle fotocellule. Questa è una domanda con cui la ConVon avrà piacere di confrontarsi, se non lo ha già fatto, così come le mille altre che verranno dopo.
Entrai in un atrio circolare, con l’occhio allineato al mirino ma mentalmente a bocca aperta. Poteva avere un raggio di dieci metri. Alle pareti c’erano altri pannelli e, al centro, una specie di totem con pulsanti associati a simboli che non avevo mai visto in vita mia.
Ne toccai uno a caso e il pavimento iniziò a sollevarsi, a viaggiare su per la torre come un enorme ascensore.
Quando si fermò, ebbi solo l’imbarazzo di scegliere uno dei pannelli laterali. Scoprii che anche questo si apriva al mio avvicinarsi e conduceva a dei corridoi laterali, a raggiera rispetto al locale centrale.
Entrai nell’alveare. I particolari sull’architettura li trovi nella relazione, se la ConVon non ha insabbiato anche quelli.
Per poco non sparai al primo degli inquilini che mi capitò a tiro, appena uscito dal suo loculo. Un evento raro, come imparai in seguito.
Ogni tanto ne vedevo vagare qualcuno per i corridoi, ma erano accadimenti eccezionali. Mi vedevano e continuavano per la loro strada. Il loro disinteresse mi disturbava, per un po’ mi ha anche inibito la spinta all’azione.
Pensavo che una volta accortisi della mia diversità mi avrebbero catturato per studiarmi. O quantomeno per mettermi in un museo. Ma non credo che abbiano conservato il concetto di museo. A meno che non ci sia qualcosa del genere nella loro connessione.
Una volta capito che non erano pericolosi e non portavano armi, mi stabilii in uno di quei loculi non ancora occupati. Trovai la porta aperta. Un parallelepipedo vuoto e bianco di superficie metallica tiepida. Quattro metri per quattro, per due e mezzo di altezza. Dormii.»
Si ferma. L’icona di Quetzalcoatl incombe inerte sul letto. Il dio piumato della vita non può fare nulla, neanche stavolta. Nonostante la volontà di ferro, il respiro del vecchio è poco più di un rantolo. Come le parole.
«Ogni giorno che vissi lì, tranne forse i primi, era scandito da una routine precisa. Sveglia, colazione ed esplorazione.
A ogni mia sortita rubacchiavo un paio dei loro flaconi di alimentazione. Non avevo una poltrona tutta mia per assimilarli, così la prima volta ne forzai uno facendo leva in uno stipetto.
Ne mangiai il contenuto con le mani. Aveva un buon sapore. Vischioso, forse troppo zuccherino, ma tutto sommato accettabile.
Nessuno si è mai lamentato. Magari fossero stati così anche i miei veri vicini di casa.
Quando entravo in un loculo mi prendevo sempre del tempo per contemplarli. Li vedo anche adesso. Guardo questo corpo deforme, distorto secondo le necessità del suo tempo, e non vorrei mai essere come lui, qualunque cosa stia vedendo o sperimentando in questo momento.
Scheletri ricoperti di pelle, arti atrofizzati e muscoli che hanno dimenticato la fatica e l’esercizio. Tutti comodi in queste poltrone-nido.
Non ho mai capito cosa fosse in realtà quel complesso di colonne. Di certo non un centro produttivo, almeno per come lo definiamo noi, con fabbriche, miniere e via dicendo.
L’attività svolta da quegli esseri – umani, certo – forse rimarrà insondabile per un bel po’ di tempo, anche per la ConVon.
Due occhi, due orecchie, una bocca. Eppure quell’innesto nella nuca me li fa sentire più alieni di qualsiasi cosa abbia visto al cinema, forse perché sono – saranno – reali.
E niente infezioni o grumi di pus. Nessuna cicatrice da operazione chirurgica. La mia impressione è che quell’orifizio sarà il frutto di modificazioni genetiche ad hoc, fatte per legare quegli esseri a qualsiasi cosa ci sia all’altro estremo della connessione. Un adattamento come il corpo scheletrico e il cranio gonfio. Come gli intestini che si scaricano in appositi e comodi alloggiamenti delle poltrone. Come gli esofagi che accolgono i sondini di alimentazione delle poltrone. Forse anche la loro lingua sarà atrofizzata.»
Un’infermiera si affaccia nella stanza. Ci riporta per una frazione di secondo a una realtà fatta di beep e odore di disinfettante, di lavanderia industriale. Il suo viso prognato mi scruta, teso in una perenne espressione di rimprovero scimmiesco. Si china per controllare il serbatoio del catetere sotto il letto. L’uniforme le si tende su un accenno di gobba. Dopo aver sostituito la busta, torna a fatica in posizione eretta e caracolla in silenzio fuori dalla stanza.
La storia riprende:
«Avevo cibo e tempo per riflettere.
Il paleoscopio, quando opera nel passato, funziona con due slot di trasferimento ogni 72 ore, uno per il viaggiatore e l’altro per il suo equipaggiamento. Non chiedermi perché. Un tecnico ha provato a spiegarlo ma non è il mio campo. Credo c’entri il tasso di inquinamento temporale.
Ad ogni modo, ipotizzai funzionasse così anche nel futuro e mi feci trovare al paleoscopio allo scadere di ogni intervallo, ma quello rimaneva muto e immobile. La ConVon non mi avrebbe riportato a casa.
Ero il testimone di un incidente. Dovevo entrare in contatto con popoli appartenenti praticamente all’alba dell’uomo, e invece ero la prova vivente che il paleoscopio funziona anche nell’altro senso. Credo che la ConVon lo sapesse già.
Negli anni c’erano stati colleghi – altri mercenari, apripista per voi secchioni – scomparsi mentre erano in missione con il paleoscopio.
Come Zanettini, che doveva perlustrare il territorio vicino alle linee di Nazca e non è mai tornato al paleoscopio di Lima. O Bonilla, ufficialmente disperso nella Mesopotamia di Hammurabi.
Mi convinsi che eravamo tutti manichini da crash test della ConVon. Perdite accettabili per collaudare il viaggio nel futuro, tecnicamente impossibile. Ma se le cavie fossero tornate indietro c’era il rischio che rivelassero il grande segreto aziendale.
Eravamo carne da cannone temporale. E il tutto era mascherato da missione culturale. Anche voi agnellini creduloni dell’Università avete le vostre colpe.
Cercai di mantenermi lucido, ma la paranoia prese il sopravvento. Non era come essere rimasti bloccati nella giungla o all’interno di un territorio controllato dai signori della droga afghani.
Immaginai che avrebbero potuto considerarmi un testimone scomodo e mi convinsi che sarebbero venuti a cercarmi per farmi fuori, quando a chiunque sano di mente sarebbe stato palese che alla ConVon bastava lasciarmi lì.
Fu allora che stabilii la mia residenza nella stanza delle larve.»
Questo corpo, che prima era una macchina da guerra e ora è solo miseria condensata, si drizza a sedere e mi artiglia la camicia prima che me ne possa rendere conto.
«Le hai mai viste tu le larve? Almeno in foto? Bene, allora sai di cosa parlo.
Si trovano – o si troveranno, per meglio dire – ai livelli inferiori delle torri, sottoterra. Una volta capito come funzionava il sistema di glifi dell’ascensore, mi fu facile salire e scendere a mio piacimento.
Chiunque fosse venuto a cercarmi là sotto sarebbe stato quantomeno distratto dallo spettacolo, dandomi un po’ di vantaggio. Questo è quello che pensavo.
Se i miei vicini di poltrona erano l’orrore, allora quel sotterraneo era un gabinetto di follia. Senza braccia, gambe, occhi. Sono sicuro che se la biologia umana non avesse dei limiti insormontabili, avrebbero costruito le larve solo con la testa. Una razza inferiore equipaggiata del minimo indispensabile.
Non c’era giorno in cui non mi chiedessi a cosa servissero quegli umanoidi addormentati in cilindri di vetro pieni di acqua. Acqua? Una soluzione di qualche tipo, probabilmente.
Forse mi avvicinai al vero significato di quel girone infernale verso il mio terzo anno di permanenza. Quegli esseri – umani, me lo dimentico sempre – sono perennemente collegati a qualcosa, a fare qualcosa dentro un sistema in cui per trent’anni cercai di entrare anch’io. E sono contento di non aver mai trovato la soluzione. Ma se quel qualcosa funziona come il nostro internet, allora c’è bisogno di qualcos’altro in cui contenere dati, informazioni.
Ecco: server di carne. Server mutilati che non possono gridare, destinati unicamente a conservare dati nel proprio cervello a uso e consumo dei propri simili dei piani superiori, quelli ancora con braccia e gambe.
Vivere in mezzo a quelle bare di vetro e a quegli esseri contribuì ad aumentare le mie manie di persecuzione.
Mi capitava di svegliarmi per qualcosa di più impalpabile di un rumore. Sensazioni. Immaginavo l’arrivo di elementi estranei.»
Mi scuote.
«Allora mi alzavo e mi muovevo silenziosamente tra i cilindri, mimetizzato tra i corpi galleggianti dei miei fratelli e le loro prospettive distorte dal liquido, in cerca del mio boia.
Un giorno lo vidi.
Gli arrivai alle spalle, mentre guardava giù, nel pozzo di smaltimento delle larve morte, aggrappato alla ringhiera di protezione, come il passeggero di un traghetto che sta per avere un attacco di mal di mare, ma incapace di staccarsi dall’abisso.
Non potevo biasimarlo. Il pozzo esercita un fascino perverso. Corpi che scivolano da condotti laterali verso il vuoto e, alla fine del volo, le lame. Zampilli di sangue e tessuti come fontane. Il ronzio. Un ronzio così forte e immutabile da risparmiarmi lo stridore delle ossa polverizzate. Quel ronzio mi aiutava a dormire.
Il mio boia si girò di scatto. Mi vide. Mi riconobbe.
Ma ormai ero troppo vicino.
Lo avrei colpito con un calcio allo sterno. Mi chiesi se cadendo avrebbe urlato, turbando la quiete del santuario. Ricordo che il pensiero mi diede molto fastidio.
Ti riconobbi appena in tempo. Eri rimasto lo stesso del giorno della mia partenza, ma io ti ricordavo a malapena.
Mi era più facile richiamare la tua faccia da bambino, quella di quando giocavamo insieme, quando gli altri ti prendevano in giro e io ti difendevo, oppure mi accodavo. Dipendeva dell’umore.
L’importante è che non ti spinsi.
Facevamo un bel quadretto: un soldato decrepito e un archeologo ancora giovane, davanti a un pozzo di macello.»
Mi lascia andare. Si rilassa, con il torace rimasto orfano del lenzuolo. Non me la sento di coprirlo.
«Trent’anni. E per voi sarà passato solo… quanto? Dopo quanto ti sei accorto che il tuo apripista, il tuo vecchio compagno di giochi, non era tornato dalla sua ultima missione?
Come hanno giustificato la tua proiezione nel futuro in avanti di trent’anni rispetto all’obiettivo? Ancora con l’inquinamento temporale?
Non fa niente. Avrebbero comunque trovato un modo per farmi stare zitto, se non fossi stato già un cadavere ambulante. Col polonio, magari.
Devi aver montato un bel casino per riuscire a convincere quelli della ConVon. Avrebbero potuto lasciare lì anche te. Si sarebbero volentieri liberati di un altro piantagrane se il progetto ormai non fosse stato quasi pronto per l’avvio.»
Indica con un dito contratto il giornale sul comodino, quello che gli porto regolarmente. Ogni volta gli stessi editoriali, gli stessi titoloni in prima pagina. La stessa carta, lo stesso inchiostro.
«Ora la Configurazione Vonnegut è sulla bocca di tutti. Il viaggio nel futuro è possibile e di dominio pubblico. Ci saranno premi e celebrazioni. L’Inaugurazione.
Sai come la chiamano? La Metropolitana del Tempo. Come se non fosse a uso e consumo di una ditta privata.
Chi controlla il futuro controlla tutto e anche di più. Passato, presente, futuro e tutte le forme ibride e alternative in mezzo. Terrificante.
Tutto ciò che il mondo potrebbe essere, e quello che non sarà mai, in mano alla ConVon.
Pensa alla globalizzazione e trasponila sul piano temporale. Campagne di conquista, sfruttamento, bolle economiche che scoppiano negli anni Cinquanta e si fanno sentire nel Medioevo. Padroni inquisitori che assillano via videoterminale giovani di generazioni non ancora nate.
Quelli della ConVon possono mandarmi tutti gli inviti che vogliono.
Io non sono un eroe. Una volta ero un soldato, per soldi. Ora sono un manichino.
E poi, non ce la farei neanche con una sedia a rotelle.»
Gli occhi che hanno spento decine di vite da dietro un mirino si chiudono.
«Devi andare. Voglio godermi il tempo che mi resta, finché ha un senso.»
Lo accontento. Sono quasi alla porta, sollevato, già libero, quando mi richiama per l’ultimo consiglio:
«Butta l’orologio.»
Penso a quello che potrei dirgli prima di andare.
Che gli rimangono solo due ore e trentasei minuti di vita.
Che anche la prossima volta che verrò a trovarlo mi racconterà delle stesse ossessioni.
Che sono proprio le sue ossessioni, tramutate in realtà dalla ConVon, che mi consentono di tornare ogni volta al suo capezzale.
E invece nulla. Non dico niente. Mi godo una boccata d’aria fresca in corridoio. Espiro e mi avvicino a uno dei finestroni. Poggio la fronte al vetro.
Fuori, il cantiere lavora, fedele alla crescita e al progresso. Enormi fondamenta circolari emergono dalla terra, coronate da gru e sorveglianti armati.
Questa non è Mogadiscio, non è la Mesopotamia. Questo è il Primo Mondo, agli albori di una nuova colonizzazione.
Un furgone si è appena accostato al ciglio dello scavo. Il portellone posteriore si apre e un gruppo di uomini in catene si riversa all’esterno. Sono perlopiù nudi. Alcuni hanno indosso solo un lercio perizoma di lino o una pelle di animale.
Un’infermiera, forse la stessa neanderthalensis di prima, o forse un’altra, mi grugnisce contro dall’altra estremità del corridoio.
«Ok, Java. Vado» le dico, ma non mi muovo.
Riporto l’attenzione al cantiere giusto quando dal gruppo di schiavi si stacca una creatura pelosa, una specie di ominide che cerca la libertà correndo ancora a quattro zampe.
Uno dei sorveglianti alza il fucile.
Distolgo lo sguardo prima dello sparo.
L’autore
Flavio Torba non esiste, ma ciò non gli impedisce di contemplare l’orrore. Ha pubblicato racconti su antologie e litblog (Verde, L’Ircocervo, Malgrado Le Mosche, la nuova carne). Alcuni suoi racconti lunghi sono stati pubblicati nelle collane horror e sci-fi di Delos Digital. Link portfolio e social: linktr.ee/flaviotorba
Illustrazione di Carlotta Contino