Pane degli angeli

Lo smartphone vibra, nuovo messaggio nel gruppo Whatsapp: “Una richiesta di pane degli angeli. Via Pendice dello Scoglietto 249”.
Compongo la risposta col pollice. “Glielo porto io.”
Mi infilo il telefono in tasca. A piedi mi ci vorrà più o meno una mezz’ora. Lungo la via troverò un solo posto di blocco, dietro a Piazza Unità. Lo posso evitare, se prendo la strada sulle Rive.
Esco di casa e mi metto la mascherina. Appoggio la mano sul petto, la scatola di sigari è al suo posto, fredda a contatto con la pelle. Ho ancora due briciole, questa è la mia penultima chiamata.
Cammino lungo via Cavana, i locali per turisti sono vetrine sfondate colme di immondizie. I tavolini e le seggiole di metallo battuto giacciono ammassate contro le poche saracinesche rimaste intatte. Qualcuno ha scritto con vernice spray rossa sul muro tra due negozi chiusi: “Fatelo anche voi”.

Il primo pane degli angeli cadde sul mondo la notte di Natale dell’anno scorso. Pareva una neve fatta di lucciole: a guardare in alto si vedeva una miriade di scintille la cui luce faceva a gara con le costellazioni del cielo invernale. I granellini luminescenti cadevano a terra, dove rimanevano per qualche secondo, e poi si spegnevano. I fiocchi che invece si poggiavano sul viso delle persone, o sul palmo delle mani, rimanevano accesi.
Nell’aria c’era un profumo dolce, di cannella, di marzapane, di zucchero filato. La tentazione di infilarsi quei fiocchi di neve in bocca era fortissima. Non c’era molta gente intorno a me, io ero uno dei pochi ad aver sentito il bisogno di passeggiare per le Rive a quell’ora della notte, per contemplare la vista del castello di Miramare che galleggiava sospeso tra il cielo nero e il mare dello stesso colore. Non lontano da me, vicino all’Hotel Savoia, una ragazza se ne restava ferma coi palmi rivolti verso il cielo l’alto a raccogliere la neve incandescente.
Era Elisa.
Rispetto all’ultima volta che ci eravamo visti, aveva i capelli corti ed era in stato avanzato di gravidanza. Erano diversi anni che ci eravamo persi: essere andati all’Università nella stessa città non ci aveva garantito di restare amici.
Rimasi a debita distanza e raccolsi a mia volta i granellini sulla mia mano. Li fissavo da qualche minuto, quando mi accorsi che la gente intorno a me soffocava e cadeva a terra. Lo confesso, non sono uno coraggioso: mollai tutto e scappai. Mentre correvo via, mi girai a cercare Elisa con lo sguardo, ma non riuscii a trovarla.
Il giorno dopo le strade erano ricoperte di cadaveri. La faccia dei morti popolò tutte le pagine dei social e dei siti di notizie a livello mondiale. I corpi avevano gli occhi socchiusi, vitrei, le guance rigate dalle lacrime, le labbra piegate all’insù in un sorriso triste.
Erano espressioni tranquille, di chi era morto felice, in pace.
Le persone che invece avevano mangiato il pane ed erano sopravvissute, dicevano sempre la stessa cosa: ho visto il paradiso.

Cammino sul marciapiede in riva al mare. L’olezzo dei cadaveri che galleggiano sull’acqua è come petrolio che mi entra nei polmoni e mi ristagna dentro. Stringo la mano sulla mascherina sopra al naso. I gabbiani sono migliaia, volano in stormi compatti, come locuste. Il loro baccanale li ha resi ubriachi, i loro versi risuonano sconnessi. Ne scaccio alcuni con un calcio. Indietreggiano con aria offesa: sono loro i padroni di Trieste, ormai. Trieste: duecentomila abitanti ridotti a quarantamila in meno di un anno.
Mi volto a fissare l’orizzonte. Le ciminiere degli inceneritori collegano cielo e mare con un lungo filo di fumo nero: i cadaveri vengono bruciati per scongiurare epidemie.
No, non ce la faccio a fare questa strada. Devio verso i canali di Ponterosso e risalgo verso monte. Il posto di blocco dovrei averlo passato. Svolto l’angolo e supero la statua di James Joyce.
Merda: in Piazza San Giovanni un carro armato blocca la via. Un soldato in mimetica e maschera antigas mi viene incontro e mi urla l’alt, pare un alieno con tanto di tuta spaziale.
Sospiro. Ormai sono dappertutto, non mi riesce più di evitarli.

La seconda neve luminosa cadde a marzo. Lo stato ordinò un coprifuoco nazionale, sembrava di essere tornati al 2020. La polizia rastrellava le vie guidando a trenta all’ora per controllare che nessuno uscisse di casa. Nessuno però poteva impedire alla gente di sporgersi dalle finestre. Io stesso allungavo le mani oltre il davanzale per raccogliere i granelli luminosi, incurante delle regole. L’odore di cannella era invitante, l’istinto di mandare giù una manciata di quel pane celeste era fortissima.
Ma non lo feci.
Chiusi un po’ di neve in un barattolo da marmellata vuoto e me lo portai a letto, sotto le coperte. Quella notte, abbracciato a quella neve incandescente, mi immaginavo le cose più tremende. La neve maledetta poteva solamente venire da Dio o da un’entità superiore, ma comunque qualcuno che certamente aveva un piano ben definito in testa: sterminarci tutti.
L’umanità aveva fatto il suo tempo e se Dio voleva estinguerci era un suo diritto. Eppure, quelle lucette nel mio barattolo non avevano niente di malefico, sembravano innocue, si agitavano sul fondo, come fossero vive. Danzavano per me.
La nevicata terminò. I notiziari riferirono che le perdite tra i cittadini erano alte: pochi erano riusciti a resistere a quel dolce profumo di marzapane e alla curiosità di provare il paradiso cui tutti i giornali alludevano. Anche una buona parte delle forze dell’ordine che avevano pattugliato le strade era morta dopo aver inghiottito la neve, contravvenendo alle disposizioni.
Il pensiero mi fa ridere ancora oggi: quella fu la conferma che gli sbirri erano pur sempre esseri umani come tutti gli altri.

“Fatelo anche voi”. Così c’è scritto sulla statua di Giuseppe Verdi, accanto al carro armato. I militari devono averlo notato, forse si sono appostati lì per quello. Il soldato mascherato da alieno fa cenno di avvicinarmi. Obbedisco e tiro fuori il portafoglio con la carta d’identità. Senza dire niente, lo stronzo me la strappa di mano. «Lei si trova lontano dalla sua residenza. Dove sta andando?» La voce è strozzata dal casco, pare una versione un cosplay casalingo di Darth Vader.
La mascherina sul mio viso rende inutile sforzarsi di fare un’espressione docile. Tanto meglio: non sono mai stato bravo a fingermi quello che non sono. «Allo spaccio di viveri in via Cantù.»
«Non va bene quello di Piazza Cavana, vicino a casa sua?»
«La roba che vendono in via Cantù è più buona, la verdura è fresca e la carne non è vecchia come i faraoni.»
Il cosplayer di Darth Vader non si scompone e mi sbatte una delle sue manone guantate sul petto. Puntella l’indice sul rilievo dei vestiti lasciato dalla scatoletta. «Cos’è questo?»
Deglutisco. Metto una mano sotto alla camicia, slaccio il nodo intorno al collo e porgo la scatola al soldato. L’apre, scorre l’indice sui sigari. Alza per un momento la maschera e annusa. «Tabacco aromatizzato?» Le sue spalle si rilassano. «Sono mesi che ne cerco un po’.»
Tiro un sospiro di sollievo. «Prego, gliene cedo uno volentieri.»
Scuote la testa. «Non voglio approfittare.» Mi ridà la scatola. «Va bene, vada pure.»
Ringrazio e sgambetto via. Passo vicino al carro armato, le mie scapole sono tese. Magari è tutta una finta, in realtà non se la sono bevuta e mi spareranno alle spalle. Attraverso la strada per entrare in viale XX Settembre e mi volto. Nessuno mi segue: l’ho passata liscia.

Si venne a sapere che la neve spenta era fatta di innocuo pan pepato, ma i granelli caduti accanto alle fonti di calore rimanevano accesi, e con quelli non c’era da scherzare. In tutto il mondo partirono diversi programmi di ricerca. A Trieste il professor Weber della SISSA venne intervistato da tutti gli emittenti locali, chiese dei campioni da studiare a chiunque avesse raccolto dei granelli che ancora emettevano luce. Mi ricordo la faccia di quell’uomo, coi suoi capelli sparati in aria e le occhiaie di uno che trascorreva le notti col naso incollato al pc.
Andai alla SISSA, il centro di studi la cui sede era un ex manicomio sulle montagne del Carso. La vista era stupefacente, si vedeva tutto il golfo di Trieste, da Miramare a San Giusto.
Quando consegnai il barattolo, il professor Weber mi squadrò con quegli occhi da pazzo e mi chiese se volevo partecipare a un esperimento scientifico. Si trattava di mangiare quella neve collegati a elettrodi che misuravano l’attività cerebrale. Weber voleva assolutamente capire che cosa capitasse al cervello di chi inghiottiva il pane degli angeli, per dare una spiegazione scientifica al paradiso che i testimoni dicevano di aver visto.
Presi parte all’esperimento il giorno successivo. Mi ricordo la poltrona imbottita, i cavi dei macchinari e gli occhi tristi dei ricercatori intorno a me, che mi guardavano con l’espressione penosa che si riserva ai moribondi.
Stavo per partire per un viaggio senza ritorno, ma non potevo rinunciare: la curiosità di infilarmi quella roba in gola era troppo forte. Mi appoggiarono con delle pinzette un unico granello sulla lingua, il sapore di marzapane si diffuse in tutta la bocca e nelle narici. Quella dolcezza era come una mano che mi portava via.
Non fui l’unico a sottoporsi all’esperimento, ce ne furono molti altri. Io sopravvissi, ma in tutto morì il 68% dei volontari. Quella soglia probabilistica venne chiamata sigma-1. Il 95.4% del totale moriva dopo la seconda dose: sigma-2. Non c’erano casi di qualcuno che aveva mangiato il pane per tre volte, ma venne stimato che doveva comunque esserci uno 0.03% di probabilità di sopravvivere: sigma-3.
Weber mi spiegò che durante gli esperimenti, sotto l’effetto del pane, il cervello urlava impulsi elettrici con un’intensità fuori scala. Inoltre, l’impronta elettrica del sistema nervoso cambiava: era come se le connessioni nervose venissero riprogrammate. Insomma, c’era abbastanza roba per riempire interi trattati di neuroscienze, ma sebbene si potesse descrivere gli effetti della neve al cervello, nessuno riusciva a capire come si originassero le visioni del paradiso. Weber stesso non ne veniva a capo. Come tutti gli scienziati dava la colpa alla mancanza di dati e cercava di convincerci a ripetere gli esperimenti, ma nessuno di noi voleva rischiare di nuovo di morire. Weber chiese e ottenne ingenti fondi da offrirci come incentivo per fargli ancora da cavia, ma non aveva considerato che per chi aveva avuto un assaggio di paradiso i soldi avevano perso ogni valore.

Un’auto della polizia risale via Cologna. Mi nascondo dietro a un cespuglio. L’odore di piscio di gatto è insopportabile. Sull’erba, accanto ai miei piedi, scatolette di Friskies scoperchiate sembrano linguacce di alluminio.
La macchina si ferma, esce il poliziotto. Occhi chiari, barbetta di capra sul mento, mani appoggiate ai fianchi. Cerca me, ne sono sicuro.
I pochi poliziotti rimasti sono dei fanatici, e questo non fa eccezione: la sua divisa è perfetta, le scarpe e la cintura risplendono di luce propria. Nemmeno indossa la mascherina, si sentirà un superuomo. Risale in macchina, mette in moto e procede a venti all’ora.
Cammino rasente al muro e mi infilo in via Pendice dello Scoglietto. Perfetto, ora sono al sicuro, nascosto tra le file di case a ridosso della montagna. I polpacci tirano mentre salgo, le punte dei piedi si infilano negli spazi tra le mattonelle sconnesse.
Sorrido. Una volta risalivo questa strada carico di libri, e adesso solo al pensiero mi manca il fiato. Non era da queste parti che abitava Elisa? Aveva scelto un posto vicino alla sede centrale dell’Università, dove studiava. Io avevo preferito la Città Vecchia, proprio per avvicinarmi a Lettere. Da quando siamo arrivati a Trieste, non ho fatto mai niente per restarle vicino. Anzi.

Dopo aver inghiottito il pane, mi venne subito un gran sonno.
Quando mi risvegliai, l’odore di marzapane era stato sostituito da un forte profumo di more di gelso. Di fronte a me c’era Elisa, i suoi occhi azzurri mi fissavano in attesa.
Gli occhi di Elisa.
Le sue mani macchiate di rosso reggevano un mucchio di frutti violacei. Masticava e sorrideva. Raccolsi una mora dalle sue mani e la schiacciai con la lingua sul palato.
Ero tornato indietro al tempo delle scuole superiori e stavo rivivendo un episodio della vita che avevo dimenticato: l’estate in cui mangiammo more di gelso e andammo in bicicletta per la campagna, l’estate della maturità. A quel tempo eravamo ancora amici, ma solo perché non avevo mai avuto il coraggio di dichiararmi a lei. Negli anni del liceo lo sguardo di Elisa riusciva a fermarmi il cuore. Ero innamoratissimo di lei, l’amavo come solo un adolescente sa fare: senza riserve e senza badare alle conseguenze di un’eventuale delusione. Scegliemmo di andare a studiare a Trieste, di restare amici, anche se la vita ci stava proponendo strade diverse. Com’era bello il pensiero di lasciare casa e averla comunque vicino, così da poter trovare il coraggio per dichiararle i miei sentimenti, prima o poi. Com’ero stupido: pochi mesi dopo esserci trasferiti lei si fidanzò con un compagno di corso. Come si chiamava? Non ho mai voluto incontrarlo. Taglio netto. Così decisi, ero convinto fosse la cosa migliore per entrambi.
Assaporando la mia mora di gelso, con il suo volto di fronte a me, capii che non mi sarei lasciato sfuggire l’ultima occasione che avevo per dirle quello che provavo per lei. Quante cose si possono fare se si rivive la vita con l’esperienza di quando si è più grandi? Mi sono pentito per anni di non essere stato abbastanza coraggioso, quell’estate, ma ora stava a me rimediare: con la lingua impastata di succo di more e con lo stomaco che pulsava all’unisono col mio cuore, scattai verso di lei e le stampai un bacio sulle labbra.
Lei si spostò in avanti e ricambiò il mio bacio con uno più lungo e più tenero. Le nostre labbra si sfregarono le une sulle altre in un contatto innocente, da ragazzi.
Chiusi gli occhi e inspirai, il sapore in bocca si trasformò da asprigno in dolce e pepato.
La mia bocca era piena di marzapane.
Quando riaprii gli occhi il volto di fronte a me non era quello di Elisa, ma quello di Weber che a debita distanza volgeva lo sguardo spiritato verso il display solcato da linee di grafici che ballavano su e giù.
Mi ero svegliato di colpo lasciando un bellissimo sogno a metà. Volevo riaddormentarmi per vedere come la storia andava a finire ma, man mano che il sapore di cannella scompariva, sapevo che il mio desiderio sarebbe rimasto inappagato.

Sono quasi in cima alla via, un rumore di automobile mi arriva alle orecchie.
Merda, è lui: il poliziotto di prima!
Stavolta non ho scampo. Le gambe si inchiodano in mezzo alla strada. Respiro. Calma.
Scende dalla macchina e mi fa un cenno di saluto. «Ehi, sei tu quello che sto aspettando?»
Alzo le sopracciglia. «Come scusi?»
«Hai una consegna per me, o sbaglio?» Indica il numero civico attaccato al muretto della casa: 249.
Rilasso le spalle, scuoto la testa. «Mi ha messo proprio una bella paura, prima.»
«Scusa, volevo solo darti un passaggio! Arrivare fin quassù non è mica facile.»
Da non credere, uno sbirro che viene a chiedermi il pane degli angeli. E se fosse una trappola? «Non è uno scherzo, vero?»
Si accarezza la barbetta. «Senti, se volevo arrestarti, mica mi mettevo qui a parlare, no?»
Forse mi avrebbe sparato e basta. I poliziotti rimasti si sentono eroi del far west. «Ok. Arrivo.»
Mi avvicino. È biondo, labbra inespressive. Entra in casa, lancia le chiavi su una mensola. «Vieni, andiamo in camera da letto.»

La terza volta nevicò ad agosto. Ormai tutti conoscevano le regole: chiudersi in casa e guai ad annusare il profumo di marzapane, il solo desiderio di inghiottire quella roba sarebbe stato fatale.
Gli eserciti in tutto il mondo erano stati massacrati dall’ultima nevicata e le forze dell’ordine erano allo stremo. I negozi erano chiusi, le merci marcivano nei container del porto, i beni iniziavano a scarseggiare.
Weber comparve in pubblico un’altra volta, supplicò la gente di non provare a mangiare il pane degli angeli: gli effetti al cervello erano devastanti, permanenti. Pochi lo ascoltarono.
Quanto a me, l’esperimento mi aveva cambiato: sentivo che la mia vita non aveva senso poiché avevo sprecato l’occasione di essere davvero felice. Nei miei sogni rivivevo quel bacio, ci pensavo di continuo, ma era un ricordo che impallidiva sempre di più.
Non avevo più il numero di Elisa. Avevo provato a contattarla sui social, ma niente. Avevo provato a chiamare qualche vecchia conoscenza che avevamo in comune, ma nessuno sapeva che fine avesse fatto. Chissà se la neve l’aveva presa, forse prima di morire aveva visto me, come io avevo visto lei.
I fiocchi di neve angelica che volteggiavano giù dal cielo mi invitavano a terminare il mio viaggio. La probabilità di morire con una seconda dose era del 95%. Esitai e infine rinunciai.
Riempii una scatola di metallo con fiocchi di neve profumata, feci un buco sul bordo, ci infilai uno spago e me l’appesi al collo per tenerla al caldo. La scatoletta poggiava vicino al mio cuore, un cuore che batteva vicinissimo ai granelli di neve che anelavo inghiottire, ma senza mai riuscire a trovare il coraggio.

Il poliziotto si stende a letto. Sul comodino c’è la foto di una donna con lunghi capelli biondi. La indico col mento. «Sua moglie?»
Annuisce. «Morta con la prima neve.»
Stringo i denti. Poveretto, capisco perché vuole andarsene.
Metto una mano sotto alla camicia ed estraggo la scatola, la apro. Prendo un sigaro, srotolo la foglia di tabacco e libero il granello nascosto all’interno. Il luccichio del pane degli angeli illumina le pareti di metallo. Ora è sul mio palmo, il profumo di marzapane è come una carezza.
«Adesso lo metterò sulla sua lingua. Avrà un colpo di sonno, si lasci andare. Io resto qui, così se vuole potremo parlare, se si risveglierà.»
Sorride. «No, io morirò.»
Ecco il fanatico che si palesa. «In realtà, c’è più o meno una probabilità su tre di sopravvivere.»
«L’ho già fatto tre volte.»
Il cuore mi prende a calci il petto. «T-tre?»
«Ho raccolto una manciata di granelli all’ultima nevicata. Solo tre non si sono spenti. Li ho mangiati, uno dopo l’altro. Conosco la distribuzione normale, mi guardavo tutti i video di Weber.» Sorride. «Avevo lo 0.03% di probabilità di sopravvivere.» 
Mi mordo un labbro. «Ha visto anche l’ultimo video, di Weber?»
«Sì. Ma non è per quello che voglio la quarta dose.» Guarda la foto sul comodino. «Se l’hai provato anche tu, sai perché la voglio.»
Certo che lo so. Prendo il fiocco di neve con pollice e indice, lo porto vicino alla sua bocca.
«Un’ultima cosa.» Sorride «Per piacere: se non ti fa troppa impressione, tienimi la mano mentre muoio.»

La quarta nevicata ridusse la popolazione mondiale a un miliardo. A Trieste migliaia di cadaveri in decomposizione vennero raccolti dagli appartamenti e gettati in mare. I gabbiani si moltiplicarono così velocemente che parevano dividersi per mitosi, raddoppiando ogni giorno. Lo stridio dei loro versi riempiva l’aria.
Poi arrivò l’ultimo video di Weber. Per scongiurare la fine del mondo, il professore voleva essere filmato mentre mangiava un granello di neve, così da convincere tutti degli effetti devastanti al cervello. Gli posarono sulla lingua un unico granello luminoso. Qualche secondo. Un sorriso. Le sue labbra si mossero e con un filo di voce sussurrò: «Fatelo anche voi.»
Era un sigma-1: morì subito.
Capii che mangiare quel pane era la cosa migliore che avessi mai fatto. Il pane mi aveva aperto gli occhi, mi aveva fatto capire quanto era miserabile la mia vita. Una vita senza amore non ha motivo di essere vissuta e il marzapane celeste mi avrebbe potuto donare una morte dolce, bella: una vera e propria eutanasia.
I granellini di neve che avevo raccolto brillavano dentro la scatola a contatto col mio petto. Bastava allungare le dita, prenderne uno, mettermelo sulla lingua e sarei morto in pace.
Ma non lo feci.
Tra i sopravvissuti agli esperimenti di Weber si formò un certo legame. La morte del professore ci spinse a reincontrarci e a condividere le nostre esperienze. Non era un caso se tra tutti, noi eravamo gli unici sopravvissuti: forse qualcuno voleva che portassimo la neve in nostro possesso a chiunque ne volesse. La polizia non ci faceva paura, sapevamo cosa c’era dall’altra parte, non avevamo nulla da perdere. Decidemmo di sfidare la legge per offrire la dolce morte a chiunque la chiedesse. Il pane degli angeli era un dono di Dio, e se Lui in cambio voleva la nostra vita, allora dargliela era la sola cosa sensata che rimanesse da fare.
La sua mano stringe la mia, gli occhi si spengono. Le sue labbra si piegano in un sorriso. Una lacrima gli scivola sulla guancia ispida di peli biondi. Le sue dita si fanno molli, la presa si allenta.
Appoggio il braccio morto sul suo petto e gli chiudo gli occhi.
Sei in pace, amico.
Mi appoggio allo schienale della sedia. Rimango in silenzio.
Ecco, ho fatto quello che dovevo, ho portato tutto il pane in mio possesso a chiunque volesse andare in paradiso. Mi resta solo un’ultima briciola. Una sola. È arrivato finalmente il momento, ora non ho più nessuna scusa per rimandare. Almeno per una volta nella mia inutile vita, devo trovare il coraggio di andare fino in fondo.
Srotolo un sigaro, il granello mi cade in mano. Lo fisso. La luce mi abbaglia come la fiamma d’una candela, sulla mia retina si forma un alone fosforescente che mi impedisce di percepire altro che la lucetta sul palmo della mia mano.
Lo faccio: uno scatto del polso e il pane è nella mia bocca.

Cannella, qui c’è solo cannella.
Eccola, c’è anche Elisa. I suoi occhi azzurri mi invitano ad alzarmi in piedi e a camminare. Mi tende la mano, mi sorride. Il cielo sul mare è attraversato da una ferita verticale avvolta nel buio. Come sono uscito dal ventre di mia madre alla nascita, ora voglio entrare in quella fessura.
Elisa cammina avanti a me, mi tiene per mano. L’acqua pulita mi accarezza i piedi, le onde sono tiepide come il mare in una notte d’estate.
Il cielo è vicino, l’apertura piena di buio è solo a un passo.
Elisa mi dà un bacio. L’oscurità ci avvolge, chiudo gli occhi.
Il sapore di cannella mi porta in alto, via di qua, è bellissimo.
Bellissimo.

Fatelo anche voi.


L’autore

Nato nel 1987 in un paesino della pedemontana friulana in culo ai lupi, e nutrito fin dalla tenera età con frico e polenta, Matteo Mantoani impara a leggere coi romanzi di Asimov e cresce sviluppando una forte passione per l’arte in tutte le sue forme. All’università, per scherzo e per gioco, inizia a scrivere un romanzo, coltivando la sua più grande passione: raccontare storie e trasferirle su carta (o meglio, su disco rigido). Cercando di rimanere fedele ai suoi studi universitari, ottiene un dottorato in Fisica nel 2017, per poi abbassare la cresta e dedicarsi a un lavoro d’ufficio. Felicemente sposato dal 2018, porta avanti col Vaticano il processo di canonizzazione di sua moglie (ispirazione e cavia di gran parte dei suoi scritti). Il Covid lo costringe a rimanere chiuso in casa, inizia così a proporre i suoi racconti nei forum online e a strisciare fuori dal suo guscio. Porta avanti, in segreto, il progetto per quel romanzo che, si spera, riuscirà a farlo vivere di rendita.