La distruzione di Yalta

Si svegliò con un’inconsueta energia addosso quella mattina. Si sentiva come carico di una potente carica magnetica o elettrostatica.
La voglia di caffè lo fece alzare. Superò tazze sporche, posaceneri e bottiglie di vodka sparsi intorno al materasso buttato a terra e raggiunse il cucinino nell’altro angolo della soffitta.
Appoggiò la schiena al frigo e, con la tazzina calda in mano, si godette quel momento di intima euforia.
Un raggio di sole polveroso attraversava la stanza e illuminava i suoi ultimi quadri appoggiati in giro. Era in quello che chiamava il suo periodo glasnost, visto che le sue produzione più recenti rappresentavano trasparenze di vario genere: una lente che ingrandiva un pezzo di pelle e un pelo; un giornale di qualche settimana prima, La Pravda Parigina del 27 maggio 1975, distorto attraverso un bicchiere; la finestra della sua minuscola soffitta che incorniciava il paesaggio dei tetti di Parigi deformati dal vecchio vetro rovinato. Ciascun quadro aveva un significato vagamente concettuale: l’amore distorto di Charles per la carne, possibilmente pelosa; l’alterazione della realtà data dalla stampa; la decadenza della Ville Lumière, vecchia e rovinata.
Charles bevve il caffè, si grattò sotto le mutande, mise su un disco e andò a prepararsi per il corso di pittura.
Era elettrizzato da tutta quella libertà. Aveva finalmente lasciato la casa provinciale dei genitori dove era cresciuto e ora viveva a Parigi da solo, con i suoi progetti, la sua arte, i suoi pasticci.
Poteva mangiare, fare sesso e dormire come e con chi gli pareva.
“Posso finalmente cogliere i frutti maturi dall’albero della vita, succhiarne il succo e buttare la buccia”, aveva detto qualche sera prima a una compagna di corso, ispirato dalla quinta birra.
La musica dei Genesis ad alto volume si spargeva nel piccolo ambiente e arrivava fin dentro la doccia. ‘The lamb lies down on Moscow’ era uno dei suoi dischi preferiti.
Mentre si strofinava i capelli con un asciugamano, dal letto disfatto giunse un grugnito. “Charles, abbasta ‘sta merda. Non hai del folk bielorusso?” Si era completamente dimenticato il nome del suo amante della sera prima. Lo avevo conosciuto all’Allure, un bar dove la repressione omossessuale era più blanda e la presenza dei militari russi meno opprimente. Ricordava che era carino, con un bel viso barbuto, gran masticatore di gomma. Avevano passato un paio di piacevoli orette quella notte.
“Spegni tu”, rispose Charles uscendo di casa. “Ora devo andare. Quando te ne vai tira bene la porta, a volte non si chiude. Non fregare niente, mi raccomando. Ci vediamo.”

Arrivò al corso in ritardo. Un’enorme modella stava sdraiata su un lettino, le sue carni lattescenti erano malamente coperte da un drappo stropicciato. Charles sistemò la tela su un cavalletto, prese il carboncino e cominciò a tracciarne le forme tondeggianti.
Non aveva notato il nuovo insegnante. Ebbe un sussulto quando questi gli si avvicinò da dietro e prese la sua mano, quella che impugnava il carboncino. “Il movimento deve essere più fluido e armonioso, la pittura deve essere sensuale come una danza. Il gesto stesso deve essere arte”, gli disse. Charles si lasciò guidare nei movimenti, la mano dell’altro era ruvida e ferma, calda e avvolgente.
Si girò per guardarlo. Succhi gastrici gli si riversarono nello stomaco liberando un calore che gli salì fino alle guance, arrossandole. Il nuovo professore aveva una faccia nota, lo aveva già notato varie volte all’Allure, anche la sera precedente, e ne era rimasto ogni volta affascinato. Non era tanto giovane, i capelli fini e neri erano grigi sulle tempie. Anche gli abiti, eleganti e antiquati, erano grigi, e avevano un odore come di vecchi armadi, di altri tempi. Gli occhi erano verdi, luminescenti, mobilissimi. E infelici.
“Buongiorno Prof”, balbettò Charles, indugiando un attimo in più negli occhi dell’altro. Anche il professore tenne la mano appoggiata su quella di Charles qualche secondo in più del necessario.
“Buongiorno”, rispose lui. “Tu sei…”
“Charles.”
“Piacere. Io sono Ugo”, disse. Poi alzò la voce, parlando a tutta la classe: “Ciao, sono Ugo, il vostro nuovo prof di disegno.” Parlava francese con un forte accento italiano. Aveva una voce profonda e potente.
Charles passò il resto della lezione a sbirciarlo mentre si avvicinava agli altri studenti, e ad attendere che tornasse da lui.
A differenza di quanto accadeva per la maggior parte della gente, che li disprezzava, a Charles gli Italiani piacevano. Erano così vicini, giusto aldilà delle Alpi, ma così distanti e misteriosi. Non si sapeva quasi nulla di come vivevano, quei pochi che riuscivano a fuggire dal regime e a superare vivi il confine erano tutti interessanti, magri, malinconici e seducenti. E belli pelosi. La loro storia recente era lontana e poco conosciuta, nessuno se ne interessava né la raccontava. La loro musica, il loro cibo, tutto era vicino ma esotico allo stesso tempo, prossimo e distante come un cugino che torna dopo aver fatto il militare in Uzbekistan per sei anni: lo conosci ma non sai più chi sia.
Nei giorni seguenti Charles frequentò le lezioni di disegno con particolare entusiasmo. Ascoltava concentrato Ugo, mentre gli altri studenti trattavano l’insegnante con superiorità. Ugo non sembrava curarsene, aveva dei modi distanti ma garbati. A Charles dava l’impressione che tenesse celate enormi energie, pronte per essere utilizzate in occasioni migliori.

In un tardo pomeriggio di metà luglio di quel torrido 1975, con l’umidità che incombeva su Parigi come una cappa di vapore su una palude, Charles, la cartella con alcuni schizzi sottobraccio, guardava i colori meravigliosamente indefiniti di alcune scarpe da donna in una vetrina. Le stava annotando mentalmente per cercare di riprodurle poi su tela.
Una mano gli si appoggiò su un braccio. Si girò di scatto e vide una donna, anzi una ragazzina, con una lunga sottana di cotone stampato e un fazzoletto sulla testa. Gli occhi erano grandi, come quelli dei bambini abbandonati in certe foto di guerra. Allungava una mano. “Per favore, vengo dall’Italia”, disse a Charles guardandolo fisso. Solo il fatto di essere italiana doveva sembrarle un argomento convincente per farsi dare dei soldi. Lo era. “Con dieci franchi sfami me e la mia famiglia per tre giorni.”
Charles si frugò in tasca e allungò una moneta verso la mano tesa e sporca.
Una voce profonda, calda e potente, anche questa con accento italiano, lo interruppe. “È una cosa oscena questo potere, non trovi?”
Charles si girò e incrociò lo sguardo verde luminescente di Ugo.
“Come, scusi?”
“Dicevo che è osceno avere il potere di decidere se una persona debba o non debba mangiare.”
“Crede? Io invece in queste situazioni mi sento solo impotente.”
Ugo sorrise e guardò la ragazzina. Si scambiarono un lungo sguardo, sembravano conoscersi. Lei prese i soldi e sparì.
“Tu sei bravo a dipingere, Charles. Ti dò qualche lezione privata da me, vuoi?”
“Non ho molti soldi prof. Quello che mi passano i miei mi basta a malapena per sopravvivere e per pagarmi i corsi.”
“Gratis, ti darò lezioni gratis. Mi ripagherai quando venderai i tuoi quadri.”
“Quando?” Il cuore gli batteva più forte.
“Te l’ho detto, sei bravo. Presto avrai successo e le tue opere saranno ben valutate, vedrai.”
“Intendevo dire: quando mi potrà dare lezioni private?”
Ugo sorrise ancora. Era un sorriso asimmetrico, spostato a sinistra, né impertinente né aggressivo, che non dava niente per scontato, privo della minima ostilità e carico di malinconia, che colpì Charles in un punto in profondità.
“Anche subito, andiamo”, rispose l’italiano. Charles si sentì avvampare.

L’abitazione di Ugo era in un vecchio palazzo in mattoni rossi nel diciottesimo arrondissement, con un enorme portone di legno e schiacciato tra due edifici grigi.
Charles entrando si prese le mani, come si fa quando si entra in chiesa.
Era un appartamento stretto e lungo, poco illuminato, che odorava di vecchie cose, di cuoio e di polvere. Ugo lo guidò fino al piccolo studio al termine del corridoio. Un quadro in sfumature di grigio occupava una parete. Raffigurava un gruppo di militari in piedi e tre persone, evidentemente importanti, sedute su una panchina e che chiacchieravano amabilmente, con un colonnato che faceva da sfondo.
“È meraviglioso, cos’è?” Chiese Charles.
“È la riproduzione di una foto. L’ho intitolato La Distruzione di Yalta. È solo l’inizio di un’opera più ambiziosa, un giorno te ne parlerò se vorrai.”
“Grazie, mi piacerebbe.” Charles si asciugò il sudore dalla fronte, il caldo era torrido. “Dipingiamo, dai. Da cosa iniziamo?”
“Dal corpo umano.” Ugo prese un calco in gesso di un piede e lo mise su un ripiano illuminato.
Prepararono la tela e Charles incominciò a tracciare linee con il carboncino.
Ugo prese la mano del giovane e lo accompagnò nei movimenti. Charles non riusciva a concentrarsi: sentiva l’odore della pelle di Ugo, il suono del suo respiro, il calore della sua mano, gli vedeva i peli spuntare dalla camicia, fissava una goccia di sudore che gli scorreva sul collo vicino a un neo. Si fermò, il carboncino cadde a terra. Ugo mantenne la sua mano su quella di Charles.
I due si guardarono negli occhi.
Un’ambulanza passò in strada, poi tornò il silenzio.
Si baciarono, poi fecero l’amore.

A metà della notte il caldo era ancora opprimente e Charles si svegliò. Guardò nella penombra l’altro addormentato. Erano i peli e i segni dell’imperfezione di Ugo ad affascinarlo: il sorriso asimmetrico, la tristezza, il neo sul collo, un’escrescenza a fianco all’ombelico. Oltre alle cicatrici, le tantissime cicatrici che gli percorrevano il corpo. Bruciature, tagli, colpi d’arma da fuoco. Rimase a guardare questi segni a lungo, poi si riaddormentò.

Nei mesi che seguirono si videro molte volte e molte volte fecero l’amore. Il modo di fare sesso di Ugo era imprevedibile: a volte fluido e armonioso come un gesto artistico, sensuale come una danza, a volte ripetitivo, a volte distratto come se scarabocchiasse svogliatamente su un foglio. Sempre malinconico. Charles era terribilmente attratto da questa imprevedibilità e dalla sua profonda tristezza.

“Perché non vuoi mai che rimanga qui a dormire?” Chiese Charles una sera, mentre erano sdraiati nel letto e guardavano il soffitto.
“Voglio che loro pensino che tu sia solo un altro degli studenti a cui dò lezioni private.”
“Loro chi?”
“I Servizi. I Russi. Il Governo.”
“Ti controllano?”
“Controllano tutto e tutti. Se dovessero pensare che siamo amanti ci deporterebbero in un campo di rieducazione per omosessuali in Siberia, lo sai. Ma soprattutto non voglio che sospettino che tu sia coinvolto nei miei affari.”
“Quali affari?” Charles si appoggiò su un gomito e si girò per guardarlo in faccia.
“Commercio di informazioni.”
“Informazioni?”
“Informazioni. Sullo sbarco russo sulla luna del ‘67 per esempio, quello che tanto ha fatto incazzare gli americani. Informazioni che possono colpire i russi. È un mio modo di prendermi una rivincita.”
“È pericoloso questo tuo trafficare in informazioni?” Chiese Charles, non prendendolo sul serio.
“No, se sto attento.”
“Senti, ho capito bene prima? hai detto «un altro degli studenti a cui dò lezioni»? Guarda che se veramente ce ne sono altri, allora io divento pericoloso, mica i russi”, disse Charles tirandogli una cuscinata. E rifecero l’amore.

Un’altra sera, settimane dopo, Charles accarezzava con le dita le cicatrici sul corpo dell’amante. Si passavano una bottiglia di vodka. Erano praticamente ubriachi. Una pioggerellina fredda di fine autunno bagnava le strade e la luce dei lampioni si rifletteva nelle pozzanghere.
“Dimmi dell’Italia. Com’è?”
“È meravigliosa. E terribile. Ci sono posti di una bellezza che neanche ti immagini. Roma, Venezia, i laghi, il mare. Ma non c’è da mangiare. Tutto è razionato, tutto è distribuito dal regime. Ti tengono affamato così ti controllano meglio. Non puoi fare niente che loro non sappiano o non vogliano. E poi la gente sparisce. Così da un giorno all’altro. Sparisce. Un giorno il tuo vicino è lì con te che chiacchiera del tempo, e il giorno dopo non c’è più, come se non fosse mai esistito. Ti fanno sparire per il minimo sospetto di tradimento, o per un pensiero non allineato, per una soffiata di un parente o di un collega.”
Charles non aveva parole per commentare e continuava a percorrere con le dita le cicatrici. “È terribile. È sempre stato così?” Provò a dire.
Ugo bevve una lunga sorsata dalla bottiglia. La voce gli tremava. “È da quando ci sono i russi che è così, ma è peggiorato dopo la guerra civile del ‘54-‘58. È stata quella guerra a lasciarmi questi segni sulla pelle.”
Charles era affascinato e impaurito. La guerra era sempre stata qualcosa di lontano, addirittura a volte di romantico. Ora sentirla così vicina nei discorsi, vederla sul corpo e nelle cicatrici di Ugo lo spaventava.
Ugo bevve ancora, la bottiglia verticale verso l’alto. Poi continuò, ubriaco: “Lo vedi il quadro? La Distruzione di Yalta?” Disse indicando con la bottiglia l’opera in bianco e nero appesa al muro. “È a Yalta che quei tre personaggi si sono divisi il mondo durante la seconda guerra mondiale. Stalin, Roosevelt e Churchill. Mezza Germania a te, la Francia a me, l’Italia a te, l’altra mezza Germania a me, la Polonia a te, eccetera. L’Italia è finita ai russi. Roosevelt aveva la febbre quel giorno, sai. Aveva trentanove e mezzo di febbre e non era molto lucido. E così Stalin si è preso molto di più di quello che gli spettasse all’inizio. Roosevelt non ebbe la forza di contrastarlo, era troppo debole fisicamente. Trentanove di febbre, ed ecco che Stalin si frega l’Italia. Maledetti tutti.”
Lo sguardo di Ugo era fisso nel vuoto mentre parlava. Charles non osava fermarlo. L’Italiano, ormai del tutto ubriaco, sembrava un fiume che avesse rotto gli argini, impossibile da bloccare.
“Ho dipinto quel quadro per fermare l’attimo maledetto in cui hanno preso la decisione e condannato l’Italia, e probabilmente anche l’Europa. L’ho fatto più dettagliato possibile, perché poi lo voglio bruciare, distruggere. Voglio distruggere tutti i dettagli. La Distruzione di Yalta. La mia opera d’arte più ambiziosa sarà la distruzione simbolica di quel momento. Di Yalta.”
Charles lo guardava, impotente e affascinato. Ugo bevve l’ultimo sorso di Vodka e riprese il delirio: “Poi gli Americani, quegli storditi, cambiarono idea. Negli anni cinquanta, dopo la guerra di Corea, gli USA vollero prendersi una rivincita e scelsero l’Italia.”
“La guerra civile …”, lo interruppe Charles.
“Esatto. Quella cazzo di guerra civile eterodiretta. Eravamo delle marionette. Ma non andò come avevano programmato, caro. Gli yankee si presero una gran bastonata, mentre i russi vittoriosi si sono fatti sempre più sfrontati e influenti. E ora eccoci qui: ascoltiamo musica russa, beviamo ‘sta merda di vodka e votiamo leggi in cirillico. Pensi che ci sarebbe tutta questa repressione contro gli omossessuali se avessimo come amici gli americani invece di questi? Io non credo. Maledetto quel giorno. Maledetta Yalta.”
Ci fu un attimo di silenzio. Poi Ugo si alzò e, barcollando, aprì un armadio. “Questa è per te, nascondila”, disse porgendo a Charles una valigetta.
Charles la prese. “Cos’è?”
“Informazioni. Sono più sicure da te. Non volevo coinvolgerti ma è un rischio che dobbiamo correre, ho uno strano presentimento. Me la ridarai quando mi sarà passato. O quando mi sarà passata questa sbornia. Ora scusami, devo andare a vomitare.”
Quella sera Charles se ne andò con la valigetta in mano e le tele sottobraccio, terrorizzato e un po’ nauseato dal quello sproloquio dell’amante ubriaco.

Il giorno dopo, al corso, Ugo non c’era e Charles pensò che fosse per i postumi della sbornia. Ma Ugo mancò anche nei giorni successivi e quando un supplente prese il posto dell’insegnante italiano, Charles incominciò a preoccuparsi veramente.
Una sera si fece coraggio ed entrò nel portone di legno del vecchio palazzo in mattoni dove tante volte era andato a trovare l’amante.
Salendo le scale intravide sguardi dietro porte socchiuse, immediatamente serrate al suo passaggio.
L’appartamento di Ugo era sbarrato da nastro adesivo giallo e nero con i simboli della gendarmerie. Charles scappò di corsa.
Il giorno seguente disegnò un ritratto di Ugo e andò all’Allure.
Chiese in giro mostrando il disegno e ricevette in risposta teste che negavano, bocche chiuse e spalle girate.
Gli si avvicinò un bel tipo con la barba lunga, che masticava vigorosamente una gomma. “Ascolti ancora quella merda di progressive inglese?” gli chiese.
Charles lo riconobbe, ma ancora non gli venne in mente il nome. “Ciao! Mi devi aiutare, sto cercando una persona.”
“Ho sentito. Ti consiglio di buttare quel disegno e di lasciar stare.”
“Perché?”
“Te lo consiglio.”
“Dimmi perché!”
“Cazzo, lo so che mi sto mettendo nei casini.”
“Perché?”
“Lo abbiamo preso noi.”
“Voi chi?”
“Noi.”
“Voi. Perché lo avete preso?”
“Aveva delle informazioni. Ed era un italiano. Stanne fuori, altrimenti rischi di fare la stessa fine.”
“Dov’è? Dimmelo!”
“Tu mi piaci. Sei pulito, avevo anche controllato il tuo appartamento. Sei uno a posto. Non immischiarti, te lo consiglio.”
“Lo devo rivedere.”
“Se torna non sarà più nelle stesse condizioni di prima. Stanne fuori, per il tuo bene.” Il tipo barbuto sputò la gomma e si allontanò nella folla, lasciando Charles immobile, con le braccia lungo i fianchi. La mano gli si aprì e il ritratto di Ugo cadde a terra.

Qualche giorno dopo Charles si aggirava vicino al negozio di scarpe dove aveva incontrato Ugo, sperando di vederlo ancora.
Incontrò invece la ragazzina, con indosso lo stesso vestito a fiori che aveva quando l’aveva vista la prima volta. Lei lo fissò con i suoi occhi grandi e neri, poi si allontanò facendo segno di seguirla e lui le andò dietro. In un vicolo angusto e sporco si girò. “Ugo ti ha dato una valigetta.” Non era una domanda, dunque Charles non rispose.
“Me la devi portare”, continuò la ragazza. “Ci vediamo qui domani a quest’ora.”
Quella sera Charles sbirciò nella valigetta. Conteneva fotografie di un set cinematografico, di finte superfici lunari e di finti astronauti che piantavano bandiere rosse. C’erano nastri magnetici e documenti in cirillico dall’aria ufficiale.
Il giorno seguente Charles le consegnò la valigetta.

Una sera, alcune settimane più tardi, di fronte a un paio di birre, un compagno di corso buttò tra le mani di Charles un giornale scandalistico. C’era una foto della luna e un articolo.
“Leggi che cazzata: secondo questi, i russi non sarebbero andati sulla luna nel ‘67, sarebbe stata solo una messinscena. Tutto registrato in un set, come un film. E ci sarebbero anche le prove, documenti e registrazioni. Quante cazzate, tra un po’ ci verranno a dire anche che Lenin è ancora vivo.”
Charles lesse l’articolo e scosse la testa. “Ugo, ti sei fatto prendere per questa inutile stronzata”, sussurrò. “Per questa insignificante rivincita.”
“Come?” Chiese l’altro.
“Niente, pensavo a un vecchio amico che a queste cose ci credeva.”

Molti anni dopo, Charles sedeva nel salotto della sua lussuosa dacia nel quartiere degli artisti di Novosibirsk. Per un pittore come lui non aveva più senso stare a Parigi o in Europa, nella periferia del mondo.
Quella mattina si era svegliato stanco e senza forze, un palloncino sgonfio, una pila scarica da buttare via.
Guardava le sue opere sparse per la casa. Raffiguravano quasi tutte una luna distorta in varie forme e colori. La luna, la sua ossessione, il suo soggetto più ricorrente, quello che gli aveva dato il successo.
Luna, che si pronuncia nello stesso modo in italiano e in russo.
Frugò tra la posta in arrivo e trovò una busta con un francobollo argentino. Dentro c’erano foto di un quadro con tre capi di stato seduti in mezzo a un gruppo di militari, e foto dello stesso quadro che andava a fuoco.
C’era anche un biglietto: “Sono riuscito a finire La Distruzione di Yalta. Ora sto pensando di completare anche la mia opera più importante e tormentata: la mia esistenza. Ricorda, il gesto stesso deve essere arte. Mi manchi.”
Charles alzò gli occhi dal biglietto. “Sono contento che tu ce l’abbia fatta. Anche tu mi manchi”, sussurrò.
Si tolse gli occhiali e guardò sua moglie e il suo bambino che giocavano. “Il mio compromesso”, pensò. “Questa mia famiglia, che triste espediente per essere accettato. Che misero lasciapassare per non essere rinchiuso in un campo di rieducazione per omosessuali. E probabilmente pensano anche che io sia felice. Dov’è l’arte nel gesto di barattare la libertà con il successo?”
Andò in bagno e chiuse la porta a chiave. Distrusse in mille pezzi il contenuto della busta e lo buttò nel water.
Seduto sul bordo della vasca, si asciugò gli occhi con un fazzoletto.
Poi costruì il suo miglior sorriso e tornò nel suo lussuoso salotto, da sua moglie e suo figlio.


Riccardo Giordano, lettore appassionato e onnivoro fin da quando, con i calzoncini corti, andava in bici a comprare libri usati nelle bancarelle in giro per Milano. Poi nel mezzo del cammin di sua vita si chiese: ma perché non posso farlo anche io? E così, per gioco o sfida, inizia a scrivere storie di fantascienza, noir, fantasy e tutte le sfumature in mezzo e a lato. Fino ad ora ha vinto qualche premio e pubblicato qualche racconto, ma il suo sogno è veder stampato il libro fantastico che sta scrivendo a sei mani con i suoi figli di dieci e tredici anni. Per vivere cerca di migliorare il mondo occupandosi di sostenibilità in una grande azienda.