Uscì sulla balconata avvolta in una coperta di lana e appoggiò sulla balaustra tutta la propria stanchezza. L’aria notturna le pizzicò le guance, portandole il respiro lento della città addormentata. Si tolse gli occhiali tondi e sottili, trasformando le luci fioche di Ariadne in un acquerello di buio e vapori ambrati. Aveva trentasei anni, ma le dita con cui stringeva la stanghetta erano già segnate dal tempo, come quelle di una vecchia. Avrebbe potuto dire che il potere incanutisce e la guerra consuma; ma con un guizzo di ironia e un velo di tristezza ammise a sé stessa che aveva sempre avuto delle mani nodose e poco attraenti.
Alle sue spalle, qualcosa emise una serie di sibili e scatti sommessi.
«Se sei qui per uccidermi, ti faccio presente che essendo lunga e stretta sono un bersaglio scomodo da pugnalare. Nel caso, ti conviene buttarmi di sotto.»
«Desolato, ma ti toccherà vivere un altro po’.»
I muscoli della nuca le si irrigidirono. Arno? Come era arrivato alle stanze presidenziali con i corridoi pieni di guardie? Ebbe l’impulso di chiederglielo, ma con una stilla di amarezza si rese conto che la domanda avrebbe potuto farla apparire stupida e ingenua. Invece, si girò con calma, pulì gli occhiali sulla coperta – una mossa che qualche ora prima aveva quasi fatto venire le convulsioni al ministro Renier – e li inforcò.
Vicino alla porta-finestra aperta, seduto a braccia conserte su quello che sembrava uno sgabello d’acciaio pieghevole, c’era un uomo di mezza età con una cravatta viola e un cappotto scuro.
«Buonasera, Arno.»
«Ciao, Gloria.»
Il tono era affettuoso, ma in quelle parole lei avvertì qualcosa di stonato. Scosse la testa a dissimulare un sorriso amaro. «Sai, sono così abituata a sentirmi chiamare Signora Presidente che per un momento non ho riconosciuto il mio stesso nome.»
Lui ridacchiò. «Ah, con me scordati titoli e onori. Ti ho tenuta sulle ginocchia, per me sarai sempre e solo Gloria.» Tese una mano verso di lei. «Posso?»
«Cosa?»
«Gli occhiali. Quelle povere lenti chiedono aiuto.»
Lei sbuffò e sfilò le stanghette esili dalle orecchie. «Ti ho mai presentato quell’indefettibile testone di Renier? Era un ottico sopraffino prima di diventare ministro della Guerra. Rischio una congiura di palazzo ogni volta che vede come tratto le mie lenti. Sareste davvero ottimi amici.»
Lui lasciò un sorriso appeso al volto mentre puliva gli occhiali con un fazzoletto di seta. Li sollevò alla luce della lampada sopra la sua testa per controllare se fosse rimasto qualche alone, poi li restituì alla legittima proprietaria. «Non è molto meglio?»
«Ooh, quindi è questo che vedete voialtri» replicò lei con un sogghigno spaziando di nuovo sulla città. «Lo ammetto, la mia vista ringrazia. E anche io, devo dire, per questa piacevole sorpresa.» Tornò ad Arno, osservò le sue gambe distese e incrociate, la testa appoggiata al muro, la sua misurata, circospetta indolenza. «Sapevi che mi avresti trovata sveglia.»
Lui fece un lento cenno d’assenso. «So che attendi notizie.»
«Attendo notizie, già.» Lei si appoggiò alla balaustra e guardò in alto, verso il cielo ritagliato dal cornicione del palazzo. Si chiese se il generale Polan stesse guardando anche lui le stelle. L’involontario romanticismo di quell’immagine rischiò di farla scoppiare a ridere. «L’ho minacciato di corte marziale, sai.»
«Davvero?»
«Non aveva alcuna intenzione di attaccare. Per lui, ancora una settimana al massimo e Forte Moira si sarebbe arreso per fame. Il fatto che la generale Volqin si stesse ritirando lungo la valle dominata dal forte, tallonata da sessantatremila corpisti, non sembrava turbarlo più di tanto.»
«E se non avesse liberato il passaggio al più presto» continuò Arno con un cenno d’assenso, «Volqin e le ventimila anime della Seconda Armata sarebbero finite in trappola.»
Gloria si concesse una pausa. Da quanto non le capitava di sentirsi compresa e non osteggiata a ogni parola? «Così ho costretto Emenor Polan, un gentiluomo quarant’anni più vecchio di me, e che da sempre mi detesta con ammirevole tenacia, a raccogliere la sua intera divisione e a lanciarla contro le mura. L’assalto dovrebbe essere iniziato quattro ore fa. Seimila tra uomini e donne, che io, personalmente e consapevolmente, ho spedito in un tritacarne di baionette, cannoni e moschetti.»
L’uomo la guardò con salda compassione. «Se il forte non cade e il tappo non salta, la Seconda Armata è perduta… e la guerra insieme a lei. Hai fatto quello che dovevi.»
«In accordo agli obblighi e i doveri del mio ufficio, mai crudele né codarda, ma seconda solo alla Repubblica e fedele sempre al Popolo Sovrano.» Gloria si girò di nuovo, nascondendo il volto nel profilo sonnolento di Ariadne. «Domani saranno quattro anni esatti da quando ho pronunciato quelle parole. Quattro anni dal giuramento fatto sopra una Costituzione macchiata di sangue dentro una carrozza che dalla fretta per poco non finiva fuori strada.» Emise una risatina amara. «In un certo senso, devo ringraziare il Partito Corporato e i loro illuminato leader. Se Erman Linqe non avesse tentato il colpo di Stato, non sarei mai diventata Presidente.»
Lui sospirò e scosse la testa, divertito. «Cara Gloria, sempre a sminuirti. Devo ricordarti che sono i tempi più cupi quelli che accendono le luci più intense?»
Ancora una volta, lei avvertì una strana vibrazione nell’affetto di quelle parole. «Mi lusinghi, ma la maggior parte del tempo non faccio altro che firmare carte e osservare gente che litiga.»
«Immagino, immagino.» I suoi occhi si fissarono in quelli di lei. «Sei stremata, e non serve conoscerti da quando sei nata per vederlo. Se posso esserti d’aiuto, sai che sono a tua disposizione.»
Con uno strano senso di malinconia e frustrazione, Gloria si rese conto di essersi esposta troppo. Non c’era comprensione e attenzione nella voce dell’uomo, ma condiscendenza. Melliflua condiscendenza. «È il vecchio amico di mio padre a parlare o l’Ineffabile Dottore della Società Universale?»
«In questo caso, temo non sia possibile scinderli.»
Lei serrò le labbra. «Se sei qui in veste di Dottore della Società, devo deluderti. Ne abbiamo già parlato.»
«Lo so. E i tuoi timori sono—»
«Non sono timori. Sono fatti. Nessuno si allea con la Società e ne resta illeso. I vostri scopi sono imperscrutabili, la vostra tecnologia inquietante. Avete un esercito la cui esatta dimensione è sconosciuta, un governo situato su un’isola che nessuno sa esattamente dove sia e una galassia di basi e avamposti sparsi in ogni angolo del mondo. Eppure continuate a spacciarvi per un circolo di imprenditori operosi e buontemponi. Potrebbe essere tra cinque, dieci o cento anni, ma prima o poi finireste per governare l’Arcadia al posto nostro, per condurla verso chissà quale oscuro destino.» Sospirò, deglutì e strinse i lembi della coperta. «E per quanto una parte di me non vedrebbe l’ora di togliersi un simile peso, in nome dell’immane, sfiancante potere del quale sono investita—»
«Semplicemente non puoi. Capisco.» Poggiando le mani sui pantaloni, Arno si alzò in piedi e si avvicinò.
Gloria sentì una sorda rabbia premerle sul petto. Ancora una volta le aveva rubato la parola. Ancora una volta pensava di poterle spiegare ciò che lei stessa pensava.
«Ma credo che tu stia sopravvalutando la faccenda» continuò lui. «E la Società. Intromettersi nel governo di un regno o una nazione è, a conti fatti, una questione assai dispendiosa e complicata. Non abbiamo un simile potere, e a dirla tutta non ci interessa neanche averlo. I nostri accordi, di qualunque entità, restano sempre meramente commerciali.»
La mente di lei corse al plico di fogli, impilato insieme a decine di altre carte nella segreteria del suo ufficio. «L’ho letto, il testo dell’accordo. Per i suoi nove decimi sì, è meramente commerciale. Ma c’è anche scritto che il Consiglio del Presidente è tenuto ad accogliere le proposte e i suggerimenti di un apposito Gruppo di Consulenza interamente dedicato, correggimi se sbaglio, a programmare e gestire la macroarea degli eventi futuri.»
Lui si inumidì le labbra e distolse lo sguardo. «Ah, quello. Non è niente di… è solo classico parolame da Dottori.»
«Illuminami, allora.»
Lui appoggiò il gomito alla balaustra, guardò giù, fece un respiro profondo e riportò lo sguardo su di lei. «In base a quanto visto finora, agli studi statistici compiuti e alle proiezioni fatte sul vostro futuro, la Società ritiene che l’Arcadia sia una nazione troppo instabile, confusa e arrabbiata per poter esprimere al meglio le proprie potenzialità commerciali. Per questo motivo, e per nessun altro, abbiamo… tracciato una rotta sicura che possa condurvi ad acque serene e produttive. Se vorrete accettarla, il Gruppo di Consulenza sarà lieto di aiutarvi; altrimenti, sarete liberi di proseguire per la vostra strada.» Si piegò verso di lei con movenze gentili, paterne, protettive. «Un futuro migliore… il futuro migliore. Non è questo il meglio che si possa sperare? La sicurezza di possedere per davvero un domani pacifico?»
Lei rimase in silenzio a fissarlo. Ci credeva sul serio, o era solo una pantomima da ruffiano? Scosse la testa e sbuffò divertita dal naso. «Ura, Ela, Iro» declamò, accompagnando ogni parola con un colpo alla balaustra.
Lui si ritrasse e la guardò allibito. «Come?»
«Un Dio, un Popolo, un Destino. Sai chi lo diceva?»
Arno esitò. Nei suoi occhi, Gloria lesse confusione e gioì.
«Era il motto dei Vecchi Re d’Arcadia, ma non vedo cosa—»
«Era il motto dei Vecchi Re» ripeté lei, «e racchiudeva tutto il nostro mondo. Rassicurante? Forse. Giusto? Qualche volta. Necessario? Mai.»
«Gloria—»
«Così abbiamo studiato, abbiamo combattuto e abbiamo ucciso perché ritenevamo che quel mondo non fosse più il nostro mondo, che quel Dio non fosse più il nostro Dio, che quel destino non fosse più il nostro destino. E ancora adesso, dopo che il Partito Corporato ha cercato di distruggere tutto quello che avevamo creato, dopo che ha fatto sprofondare l’Arcadia in questa spietata guerra civile, continuiamo a cercare di capire chi siamo. Mi stai chiedendo di scambiare un futuro imposto con un altro. Come Gloria Spilberian, figlia di un ferramenta, forse accetterei. Ma non sono più lei da quattro anni, ormai. Ora sono Gloria Spilberian, Presidente della Repubblica d’Arcadia. Sono cento e sessanta milioni di persone. E per quanto tu li possa spingere, cento e sessanta milioni di futuri non potranno mai entrare nello spazio di uno solo.»
Lui rimase con lo sguardo sospeso su di lei per qualche momento ancora; poi, con uno strano suono roco a metà tra un sospiro e un ringhio di frustrazione, ammorbidì le spalle e abbassò la testa. «Hai deciso, dunque.»
Lei rilassò le dita, rendendosi conto che le aveva contratte a pugno. Incerta, mosse una mano e gliela posò sulla spalla. «Ti è andata male. Ci sono solo due argomenti in cui so tenere testa ai miei interlocutori: il prezzo di un barile di chiodi e il governo del mio paese.»
Lui si grattò la nuca, la fronte ancora rivolta alle mattonelle chiare della balconata, poi rialzò la testa, raggiunse lo sgabello, lo sollevò e premette un pulsante sotto il sedile. Con un nuovo concerto di schiocchi, scatti e sibili l’oggetto si ripiegò su sé stesso fino a diventare un dischetto liscio di metallo.
«Niente male quell’affare» disse lei, osservandolo mettersi in tasca lo sgabello ripiegato.
«Vero? Pensa che se avessi accettato l’accordo ne avresti avuti a milioni.»
«Oh, accidenti. Sono ancora in tempo per cambiare idea?»
Lui sospirò e scosse la testa con aria bonaria, poi tirò fuori la mano dal cappotto e appoggiò il dischetto alla balaustra. «Ho come l’impressione che ti sarà utile. Per firmare carte, osservare litigi e, se ti resta tempo, salvare l’Arcadia.» Fece per rientrare, poi si fermò. «Stammi bene, signora Presidente.»
Uno strano e potente senso di sollievo le attraversò lo sterno. Non era mai stata così incerta come in quella notte: del risultato di quell’assalto disperato, di aver fatto la scelta giusta, di essere la persona giusta, di chi fosse davvero l’uomo che si ritrovava davanti… e soprattutto, di chi fosse lei davvero. Forse non l’avrebbe mai capito del tutto fino alla fine dei suoi giorni; ma per la prima volta da molto tempo, quel pensiero non le fece paura. «Altrettanto, Arno. E comunque vada…» Doveva ringraziare il vecchio amico di famiglia, o era meglio limitarsi a liquidare l’Ineffabile Dottore? Era questo uno di quei casi in cui era possibile scinderli?
«…buona fortuna?» Lui sollevò un angolo della bocca. «Ti direi che la fortuna non esiste, ma sarebbe tanto sbagliato quanto dire che sia un’entità imprevedibile e impossibile da sfruttare.»
«Un po’ come il futuro, insomma.»
Lui rise, parve sul punto di dire qualcosa, ma alla fine si limitò ad annuire, varcò la porta-finestra e la lasciò di nuovo da sola.
Quel poco che restava della notte, lei lo passò in silenzio. Il profilo della città si stava ormai contornando di rosa quando un giovanotto in uniforme del reparto pittoscriventi si affacciò nella balconata e le disse, quasi stordito dalla tensione, che il generale Polan stava trasmettendo.
Francesco Morgante, classe ’92, è la vostra amichevole (circa) aragosta agorafobica di quartiere. Diplomato in tecniche di narrazione seriale (così gli hanno detto che deve dire) alla Scuola Holden, scrive di personaggi che parlano troppo nella speranza che parlino anche al posto suo. M’ama non m’ama, il suo svitato racconto d’esordio, compare nella raccolta Hortus Mirabilis – Storie di piante immaginarie edita da Moscabianca Edizioni. Quando è convinto che nessuno lo veda, mette i cuoricini ai post boomer dei Carabinieri.