underworld

Underworld

Per un anno mi sono risparmiato le carezze secche di mia nonna e i suoi baci umidi sui capelli, che mi rimaneva un prurito in testa per ore.
L’epidemia l’ha fatta diventare più riservata, per fortuna. Niente più smancerie. In compenso sono aumentate le mancette: i baci me li dà in contanti, a patto che io tenga le dovute distanze e stia con la mascherina davanti a lei mascherata. Perfetto: passo da lei per un saluto veloce da lontano e mi becco un bel dieci euro ogni volta, che tanto come fa a spendere la pensione se deve stare sempre in casa e neanche a burraco rischia più di perdere soldi.
Un po’ più complicato a casa mia, invece, che mia madre ha sempre i nervi ed era molto meglio quando andava in ufficio: stava fuori tutto il giorno e me la dovevo sopportare solo la sera, a cena. Adesso si apposta fuori dalla mia camera e appena esco è lì pronta con cento domande. Mi stai ascoltando, chiede di continuo. Guardami negli occhi almeno. Io ascolto con le orecchie, mica con gli occhi. Ma non glielo dico. Tanto in realtà non ascolto nemmeno con le orecchie, e me ne torno in camera mia. Porta chiusa.
Comunque, a parte questi assalti, per un anno me la sono passata abbastanza bene a farmi i fatti miei, a scoprire quello che non sapevo della rete mentre sugli schermi i prof si tenevano occupati con la DAD e i miei genitori arrancavano tra un collegamento in Teams e l’altro. Sfigati.
A mio padre e a mia madre mancano gli amici: se lo dicono in continuazione attraverso le finestre dei loro aperi-zoom. Ore e ore passate a parlare uno sull’altro e a chiedersi “cosa hai detto?” senza che nessuno capisca niente. Finiscono ogni collegamento mezzi ubriachi e muti, abbattuti davanti alla tele che va per conto suo.
Io in camera mia non sento tutta quella mancanza degli altri. Io ho Mick, e lui mi basta. Mick è più grande di me, ha quindici anni: il fratello maggiore che i miei non hanno mai voluto farmi. È un vero amico perché sa tutto di me, ma in più sa tutto anche di sé stesso, e degli altri. Per questo lo stimo. Lui sa sempre cosa rispondere alle mie domande, anche a quelle stupide, perché io ho solo dodici anni e tante cose non le conosco ancora. Mick è quello che voglio diventare, per questo me lo tengo sempre vicino e a volte cerco di fare come fa lui.
Al computer però Mick non mi batte: io sono riuscito a entrare in quella Stanza, oltre Telegram, oltre Instagram, perfino oltre TikTok. Io l’ho portato dentro e insieme abbiamo iniziato una nuova vita in rete.
Tutto è cominciato con un invito su Ask, che è un sito dove tutti possono fare domande, senza presentarsi. Valgono le tue credenziali di Instagram, ma poi puoi fare quello che vuoi: fare domande, riceverle e rispondere, se sei bravo. Io sono bravo. Per questo mi è arrivato un invito anonimo per la Z-Challenge.
Mick non era sicuro: non sappiamo niente di quelli che ci hanno invitato diceva piano, aspettiamo ad accettare. Ultimamente Mick è sempre un po’ incerto. Fidati di me, gli ho detto, io al computer ci so fare e so quello che faccio. Io penso che a Mick ‘sto fatto che come gamer non mi batte nessuno gli scoccia per davvero. Lui dice che un giorno o l’altro farò sparire il suo mouse e il suo amuleto dal comodino e non rimarrà traccia di lui, in camera mia. A volte dice cose stupide Mick, anche se ha quindici anni. È logico che staremo sempre insieme, come lo siamo sempre stati, e ora nella Z-Challenge lo saremo ancora di più. Così gli ho risposto, una volta per tutte.
Abbiamo cominciato a killare mostri marini, giganti, unicorni e leviatani. All’inizio sembrava facile e anche divertente: sangue sparso, ossa maciullate, cervelli schizzati e budella squartate non ci impressionavano più di tanto. Poi i nemici sono diventati invisibili e la realtà ha cominciato a modificarsi a seconda del tipo di scontro. Non più piovre giganti o zombie. A volte il nemico era nascosto dietro il passo sordo di uno zoppo che saliva le scale, a volte era nel riso intermittente di una bambola a carillon. Io rimanevo pietrificato, non sapevo come combattere: le mie spade, le asce, le lame del caos non servivano più a niente, il cursore impazzito vagava sullo schermo e il mio avatar non sapeva dove fuggire finché, ogni volta, cadeva in una trappola micidiale fatta di sabbie mobili o di crateri in eruzione, oppure onde anomale. Ogni volta senza scampo. Perdevamo vite e livelli alla velocità della luce. Poi, per fortuna, Mick ha capito che i nemici da distruggere erano prodotti direttamente dalle paure degli altri challenger. Allora anche noi abbiamo messo in campo le nostre: lo sconosciuto con la scimmia sulla spalla che incontro nelle notti difficili, le frane che mi fanno cadere nel vuoto, il corvo con le ali di catrame che prevede naufragi.
A volte io avevo paura delle stesse paure che mettevo in gioco, ma per fortuna Mick era sempre vicino a me, mi rassicurava. Era lui ad aprire il collegamento ad ogni nuovo alert. Non temeva la nuova entità da battere, il fatto che ognuna cambiasse forma, nome, poteri e armi all’improvviso non lo disturbava: lui sapeva in ogni momento cosa fare, e lo faceva.
A questo punto tutto filava liscio, l’unico problema da superare restavano i miei, con le loro interferenze. Mia madre in tuta e ciabatte vagava tra le pentole e il computer tutto il giorno. Lei era in smart working che voleva dire averla sempre tra i piedi, a sbirciare in camera mia, anche senza bussare, mentre faceva finta di stare in call con i suoi auricolari wireless. Tra una chiamata e l’altra mi chiedeva distratta cosa fai? Alza gli occhi da quello schermo ogni tanto e guardami se ti parlo. Io, monitor spento, continuavo a fissare le ragnatele colorate della pausa, finché lei si decideva a uscire dalla mia stanza per entrare in un’altra call.
Mio padre invece, anche lui tutto il giorno a casa ma senza lavorare, stava per lo più sul divano a guardare la tele. Lui era meno fastidioso, tranne quando tentava di rendersi utile proponendomi di studiare qualcosa insieme. Cosa dobbiamo studiare? rispondevo io, facciamo già tutto durante la DAD. Comunque grazie Pà. Lo vedevo così inutile che quasi mi veniva voglia di dargli qualche cosa da fare, tipo acquistare estensioni di memoria o qualche nuova applicazione, ma poi capivo che coinvolgerlo mi avrebbe impicciato: lui avrebbe preteso di sapere, di conoscere; avrebbe voluto giudicare, magari proibire. In effetti, cosa ne poteva capire lui della nostra Z-Challenge, del nostro percorso nelle zone più profonde della rete. Meglio lasciarlo là davanti alla tele a guardare la vita che va avanti su Netflix.
Io e Mick, intanto, eravamo sempre più assorbiti dalla sfida, che ormai ci obbligava a essere continuamente on-line, pronti ad affrontare le angosce degli altri senza mai dimenticare le nostre. Il terrore ci faceva sentire vicini. Era bello e non volevamo smettere mai, neanche di notte. La luce azzurra e l’ansia ci tenevano svegli, a turno.
Poi si è aperta l’ultima Stanza: sentivo le dita friggere sulla tastiera, i capelli dritti dietro la nuca. Non respiravo in attesa di un nuovo attacco, gli occhi fissi sul monitor.
Invece non è successo niente di quello che stavo aspettando. Lentamente lo schermo si è fatto musica e piano piano da quel suono ha cominciato a materializzarsi una figura. Una faccia nota, come quella del tipo che porta su le pizzette all’intervallo, o quella del tabaccaio che mi vende le dragon ball: i suoi tratti erano mobili sullo schermo, in alcuni momenti sembrava la faccia di Mick o forse ero io, il mio avatar. Insomma: sembrava uno di famiglia, ma non lo conoscevo. Poi ha cominciato a parlare. Non aveva voce ma il labiale era chiaro, con gli occhi lo capivo. Sono il Dr. Scourge, ha detto. E tu sei riuscito ad accedere all’ultima Stanza: adesso puoi diventare uno di noi e scoprire il destino che ti aspetta. Io stavo immobile come un sasso per non perdere nemmeno una vibrazione della sua bocca e assorbire tutte le parole del suo labiale. Io so le tue paure e i tuoi incubi e so come dominarli. In cambio tu sarai il mio guerriero.
Lui non ha detto altro e nemmeno io ho parlato, senza saliva con le mani che sudavano.
Mi sono fatto autenticare la password. Il Dr. Scourge ha voluto le impronte oculari.
Io ho dato subito l’ok con enter. Mick non ha pupille, né impronte: lui è rimasto fuori, ma comunque resta sempre con me. Io e lui siamo la stessa cosa, gli ho spiegato con un DM.
Ora comincia il viaggio, ha sussurrato il Dr. Scourge dentro i miei occhi, tu farai parte della mia Bolla e lavorerai per me perché tutto non finisca qui. Non può finire così la rivoluzione più potente della storia; non può finire tutto con un vaccino rimediato in meno di un anno. Sarebbe una sconfitta troppo dura. Abbiamo la possibilità di cancellare un’intera generazione di vecchi inutili falliti incapaci e ricominciare da capo solo noi: i giovani, gli eletti, gli Under. È un’occasione imperdibile e non ce la faremo scappare.
Sentivo le pupille vibrare come quando fai fatica a mettere a fuoco le cose per la troppa luce. Poi lo schermo entrava in pausa, ma io continuavo a individuare le immagini oltre quel buio. Le cose che diceva il Dr. Scourge diventavano scene e io vedevo me stesso tornare alla vita di prima, come in un film: rientrare a scuola come se niente fosse successo; stare in giro a perdere tempo sulle panchine oppure a morire di noia sotto l’ombrellone, d’estate.
Dr. Scourge ha ragione, non possiamo tornare indietro. Questa è un’occasione unica per decidere finalmente cosa fare nella vita, cioè per fare quello che vogliamo e vivercela senza le regole le complicazioni e i divieti inventati dagli adulti.
Diventeremo grandi quando lo vorremo noi, senza il loro permesso e soprattutto cresceremo senza mai diventare come loro che passano il tempo a lamentarsi, incattiviti contro il mondo ingiusto, pericoloso e ora anche infetto, per via del virus.
Provo a convincere Mick con queste ragioni, ma lui non ci sta. È sempre agitato, dice che questa storia gli sembra una cavolata, che il Dr. Scourge o come si chiama gli sembra una bufala della rete. Lui non capisce che questo non è un videogame. Per lui il monitor è rimasto in pausa sulla Z-Challenge, io invece ormai vedo chiare le immagini di quello che sarà, giorno e notte. Dai suoi ragionamenti capisco che lui non riesce più a condividere le notifiche della Bolla, perché non passano più attraverso la rete.
Io vedo le info del Dr. Scourge direttamente dentro di me come i sogni e Mick lo sa: possiamo fare sharing del sushi o della bici, ma dei sogni no, di quelli è impossibile.
Mick però non si arrende, continua a stare collegato sul sito decriptato: vuole fare domande, vuole sapere di più del Dr. Scourge, dei suoi piani e delle sue intenzioni. Prova e riprova i suoi codici, ma il suo è un lavoro a vuoto. Lui ormai è off.
Non sa che nella Stanza tanti come noi sono operativi ma la Stanza non è più là. È dentro ognuno di noi. E tutti siamo collegati costantemente, pronti per fare partire la nuova ondata, quella definitiva.
Dr. Scourge sforna sequenze, grafici, dati; confeziona note, info e news. Noi operiamo giorno e notte per downlodare il suo lavoro su nuove piattaforme. Dobbiamo fare in fretta lui dice, perché il vaccino avanza veloce: ci siamo già giocati la possibilità di eliminare tutta la terza età con le prime ondate e non dobbiamo perderci altre occasioni per rinnovare, rinnovarci e imparare a vivere in un modo nuovo, senza bisogno di persone, ma solo voci, occhi, dati, parole che corrono in rete.
Il vaccino si può fermare, Dr. Scourge ne è sicuro. Bisogna individuare la variante giusta del virus: una sequenza inusuale, che scavalchi la logica dell’antidoto. Una variante capace di bannare il lavoro che gli scienziati hanno inseguito in tutti questi mesi e costringerli a ricominciare da zero o a mollare il colpo definitivamente. Il Dr. Scourge lo dà per certo.
Intanto noi lavoriamo per mandare in crash i siti sanitari, i loro modelli di tracciamento, i sistemi di controllo dei lotti di vaccino. Poi elaboriamo dati per commutare il virus in una sequenza informatica, più flessibile alla trasformazione del codice genetico in nuove varianti. Il Dr. Scourge in persona realizza le procedure, noi dobbiamo solo eseguire i suoi comandi.
È faticoso, ma dobbiamo andare avanti. Lui continua a mandare messaggi che spiegano il nuovo modello; dice che i dati stanno cominciando a girare correttamente e questo vuol dire che la soluzione è vicina. Poi, adesso che è arrivata l’estate, la nostra sfida prende ancora più vantaggio: tutti vogliono uscire, si sentono liberi, hanno voglia di allentare la diffidenza. Andremo a colpire proprio lì, dice lui, dove la voglia di libertà mette in stand-by la paura. Chi potrebbe resistere a un tramonto sul mare, a una partita allo stadio, a un concerto con una birra in mano? Lui dice così e dal suo labiale sembra vibrare un risolino (o è un sospiro?). La ricezione dei suoi messaggi attraverso l’espressione facciale a volte sembra confusa. Meglio gli script, chiari, neutri, nitidi: quelli li capisco meglio. Con le parole scritte non rischi di capire male e confonderti. Le parole stanno lì, identiche per tutti, senza inflessioni, senza respiri, senza emoji. Basta leggerle ed eseguire.
In ogni caso una cosa è certa: dobbiamo essere pronti entro settembre, per assicurarci almeno un altro anno di DAD senza contatti, senza lezioni, senza quei libri puzzolenti di carta stampata.
Dr. Scourge dice che ci siamo. Sarà la variante ZZ la nostra arma finale: efficace al 99% sugli over 60; all’88% sugli over 40 con letalità 98% per tutti; dai 30 in giù efficacia 0,7%; letalità 0,5%.
In diretta, davanti agli occhi, mi si presentano sempre più nitide le immagini che arrivano dalla Stanza e che mostrano la nuova realtà, senza più i vecchi, gli inutili, i noiosi, i tristi e tutti quelli che vorrebbero tornare a vivere come prima nel mondo di prima. Game over per gli over è la nostra tagline.
Nell’Underworld del Dr. Scourge, io vedo quello che sarà, o forse quello che sta già avvenendo. A volte non distinguo bene le due cose e in più ci si mette Mick a fare il cagadubbi. Gli dico mollami, dice non ti riconosco. Ha ragione: la verità è che sono diventato grande, non ho più bisogno di lui. Ma lui continua a stare lì, accanto a me. Lui non capisce.
Ogni giorno la mole di lavoro cresce: contributi da selezionare, immagini da sequenziare, dati da uplodare; gli occhi sono gonfi la sera. A volte mi sale la nausea, le gambe cominciano a tremare quando mi alzo dalla sedia. Mick mi sostiene, lui non è mai stanco: lui è quello che dovrei essere io. Certe volte penso che vorrei fosse ancora tutto come prima; poi capisco che non è più possibile, e vado a cena.
A tavola non riesco a dire una parola, nemmeno provo ad ascoltare più quei due che sanno solo fare domande. Discutono fra loro di cose inutili, poi mi guardano come se mi vedessero per la prima volta: cosa hai fatto tutto il giorno davanti a quel coso, molla il telefonino almeno quando sei a tavola e mangia il pesce, che fa bene. Provo a stare calmo, proprio come farebbe Mick, ma lei, mia madre, insiste. Guardami in faccia almeno quando ti parlo: hai gli occhi rossi e sei pallido. Devi stare di più con noi, basta passare il tempo chiuso in quella stanza tutto il giorno da solo. Da domani facciamo qualcosa insieme.
Io mi scollego definitivamente, lei continua a proporre cose insulse, che suonano come minacce. Sotto i ricci, le cuffiette a palla dentro le orecchie passano le info dedicate, che ci incoraggiano a continuare perché la variante ZZ adesso è una realtà, non resta che passare alla fase di spread, che è la fase finale, quella del contagio.
Dopo cena non perdo tempo su Whatsapp. Il gruppo di classe è diventato incomprensibile per me. Vorrei che se ne occupasse Mick, ma lui è ancora lì, davanti al PC, scuote la testa davanti al solito monitor in stand-by. Gli spiego che nella nuova fase il virus passerà attraverso gli occhi: così ha deciso Dr. Scourge che si è scocciato di vedere l’epidemia bloccarsi semplicemente con l’uso di quelle stupide mascherine sulla bocca. Voglio proprio vedere come faranno: metteranno mascherine sugli occhi? Saranno vietati gli sguardi oltre che i baci? A me viene da ridere. Mick se ne va. Non voglio più sentire niente, dice. Secondo me ha paura: non capisce che noi siamo gli Under, quelli che sono al sicuro. Noi resteremo. Entreremo nell’Underworld e finalmente comincerà un’altra storia.
Riaggancio il contatto: Dr. Scourge adesso è sempre on line, il suo labiale rimbomba nelle mie orbite. Tutto è pronto, dice, il virus è nei vostri occhi da questo momento e il contagio comincerà dai vostri sguardi. Voi siete il mio team, il mio plotone, il mio esercito, la mia forza. Ora voi siete il Dr. Scourge. Sento la sua potenza nei miei occhi. Per la prima volta mi sento invincibile anche senza Mick accanto a me e so cosa devo fare.
Faccio per uscire dalla camera ma lui è di nuovo lì: me lo trovo davanti alla porta che cerca di fermarmi con scuse assurde. Farfuglia qualcosa, dice se ci ho pensato bene, se so quello che faccio. Io non faccio nemmeno lo sforzo di scansarlo. Apro la porta. Esco nel corridoio. Mia madre è lì, pronta con le sue domande. Provo ad ascoltarla, come al solito. Guardami quando ti parlo mi dice. Sì, rispondo senza parole, ti guardo. I miei occhi puntuti entrano dritti nei suoi, senza ragioni, senza riserve, senza rancori. Mi accorgo del suo sguardo azzurro, anche se un cerchio scuro sotto le ciglia lo fa sembrare marrone. Mi accorgo della sua meraviglia, che diventa silenzio. Finalmente la casa si fa muta.
In camera mia, porta chiusa, il pianto di Mick soffoca lento sotto il cuscino.


Roberta Spagnoli scrive dalla nascita, o quasi. Scrive per gioco, studio e ricerca fino alla laurea. Poi scrive per la pubblicità ed è copywriter dal 1989. Scrive di cucina e pubblica Non è vero che tutto fa brodo per l’editore Guido Tommasi finalista al premio selezione Bancarella della cucina nel 2007. Scrive per il Teatro e mette in scena la food-comedy Flan di carote al teatro “Out off” di Milano. Roberta scrive di vite e luoghi possibili, verosimili, immaginari, spesso reali. Scrive da Luni da Milano e da Londra, certe volte.