metallica madre ovipara

Metallica Madre Ovipara

Il primo uovo si era schiuso di martedì ma neanche di questo ormai si poteva essere più sicuri.
I giorni avevano cominciato a incrinarsi e rattrappirsi circa due o tre martedì dopo, cosicché se fino a qualche tempo prima si continuava a dire cose tipo “il novantanovesimo martedì” a un certo punto si era cominciato a provare rabbia anche verso i martedì e così la gente aveva iniziato a bandirli dal linguaggio e il Laboratorio Concetti non ci aveva pensato due volte ad abolire i giorni della settimana. Si poteva dire, quindi, che il primo uovo si fosse schiuso un martedì, ma nessuno ci credeva davvero perché i martedì avevano perso sostanza e come momento o parola venivano rigettati dalla mente e dalle labbra.
Anche quella roba faceva parte dei suoi appunti. Non era certo su quello che si basava la ricerca, ma la prima schiusa era comunque uno dei punti cardine da tenere a mente se voleva trovare la Madre.
Quando aveva detto che si sarebbe messa al lavoro su quel progetto i suoi colleghi al Laboratorio l’avevano guardata come si guarda un frutto che è marcito troppo velocemente, le sue colleghe avevano alzato le spalle.
«Giorno venti, mattino. Quadrante Nove, Zona Sud della Marea» si interruppe e si guardò intorno.
Che desolazione. Ne valeva davvero la pena? Non vedeva un uovo da giorni.
«Non vedo un uovo da giorni. Solo le solite orme di un Artefatto gigantesco. Mi metto in marcia per arrivare entro sera al Quadrante Otto».
Il Quadrante Nove era colmo di pozze profonde limpide, vecchie orme di Artefatto colme d’acqua. Troppo vecchie perché lei potesse raggiungerlo. In molte era possibile scorgere dei girini. La zona era frequentata da più di un uccello grande come un airone o, almeno, alcuni di loro potevano esserlo. Non si intendeva di volatili. Forse un tempo, chissà quanti martedì prima, in un periodo antecedente al Laboratorio Concetti, lei avrebbe saputo riconoscere gli aironi dalle garzette. Ora erano tutti uguali. Un ammasso coagulato fatto di piume e zampe più o meno lunghe.
Spense il registratore e lo rimise in tasca. Si incamminò verso il Quadrante Otto. Se quella era la direzione, chiaro. Da quando anche l’ultima bussola aveva smesso di funzionare erano stati banditi anche i punti cardinali. Il Laboratorio Concetti non ci aveva neanche provato a farli reintegrare nel Tessuto di Significato. Del resto, gli Artefatti con le loro lunghe passeggiate sul pianeta avevano distrutto ecosistemi e ribaltato zone magnetiche. Non c’era più bisogno, avevano proclamato gli uffici stampa di ogni Laboratorio Concetti sparso sul globo, di conoscere le direzioni. Il risultato era che più di una persona si era persa perché invece di pensare al concetto di Quadrante o Zona era stata improvvisamente colta da un ricordo cardinale e si era bloccata come un coniglio, appiattita sul terreno incapace di andare avanti o indietro.
Al pensiero anche la sua testa ebbe una piccola vertigine. Schiacciò una zanzara che le stava succhiando sangue dalla guancia e se ne dispiacque. Per fortuna su di lei i vecchi concetti non avevano tali pretese di terremoto o infarto. Quando lavoravi per il Laboratorio Concetti ti istruivano perché tu non temessi i concetti perduti più importanti, anche quelli divelti dal Tessuto di Significato. Punti cardinali, stagioni, alcuni mammiferi, soprattutto quelli che andavano ancora per la maggiore e che era possibile incontrare di frequente, soprattutto concetti informatici e di tecnoscienza, anche la più vecchia o arcana, vista la natura degli Artefatti. Le sarebbe piaciuto di più riconoscere un airone, però, che sapere cosa fosse un coprocessore.
A poco a poco le zone con le pozze limpide create dal passaggio di un Artefatto gigantesco si trasformarono in un territorio più arido e presero ad apparire piccole discariche.
Era quasi del tutto buio quando decise di fermarsi.
«Giorno venti, è passato il crepuscolo. Termine del Quadrante Nove, Zona Sud della Marea. Mi trovo di fronte a un territorio di discarica. Ci sono diversi mucchi di pezzi di ricambio, periferiche, arti arrugginiti. Sembrano tutti appartenere ad Artefatti di piccola o media taglia. Le impronte dell’Artefatto gigante sono ormai del tutto scomparse».
Chissà che fine aveva fatto quell’Artefatto. Forse aveva preso un’altra direzione rispetto alla sua. Le Zone Vagabondaggio Artefatti erano tutte collegate alla fine e se anche non lo erano un Artefatto poteva decidere di travolgere un insediamento umano e crearsi una nuova strada.
Decise che avrebbe passato la notte in quel posto. Il territorio di discarica non le dispiaceva. A differenza di molte altre persone lei era molto affascinata dal sistema di ricambio a cui andavano incontro gli Artefatti. Perdere un arto fatto di metallo o più parti del proprio corpo robotizzato e ammucchiarle in un punto per poi farsi crescere parti nuove. Le venne in mente un collega che aveva parlato di processi organici. Anche lui era stato guardato con la stessa compassione che poi era toccata a lei quando si era messa in testa di trovare la Madre. Non c’era da stupirsi di tanta freddezza. Per quanto a chi lavorava al Laboratorio fosse possibile ricordare concetti e speranze desueti o fare ipotesi, ormai il Tessuto di Significato si era inaridito, e così i loro corpi e le loro ricerche erano appassiti, stremati. A nessuno interessava davvero scoprire ormai cosa fossero gli Artefatti, come si riproducessero. L’importante era mantenere controllato il linguaggio, il pianeta. Fare sì che se il serpente corallo fosse scomparso anche l’idea e la presenza di serpente corallo sarebbe stata lentamente epurata dalla testa degli uomini. Evitare nuovi stravolgimenti, quella era la vera missione.
Passò il polpastrello sopra una placca argentea che sembrava un frammento craniale e infilò il dito dentro un ammasso di fili. Non erano ancora riusciti a capire di che cosa fossero composti, altra dimostrazione che il Laboratorio Concetti non era mai stato un laboratorio di ricerca ma solo una polizia del reale. Infilò la mano all’interno dell’ammasso, fino al polso. Non esisteva lega simile, e la loro tecnologia sembrava solo scenica. C’erano fibre, sensori, schede, processori negli scarti che gli Artefatti abbandonavano durante la muta, ma non sembravano poter corrispondere a nessun meccanismo reale o funzionante. Gli studiosi avevano detto che era tutto fasullo, artificioso. Così avevano cominciato a chiamarli Artefatti.
Sognò una madre serpente che teneva nelle sue spire un cilindro pieno di ratti e una madre coccodrillo che teneva il suo piccolo al sicuro dentro le fauci.

Se ne accorse, come una sciocca, mentre arrotolava il sacco a pelo. Il mucchio accanto a cui aveva passato la notte, tutta la zona della discarica, era invasa da nuove orme. Non aveva bisogno rifletterci troppo: quelle erano le impronte dell’Artefatto gigantesco che aveva cominciato a pedinare nel Quadrante Dodici, quello che era svanito nel nulla il giorno prima non appena era entrata nella zona della discarica.
Si guardò intorno. Ma c’era solo la piana arida e desertica piena di mucchi di scarti a risponderle, un luogo dove un solo schiocco di lingua creava un rumore capace di appiattirsi e diffondersi intorno a lei come un sasso gettato in acqua.
«Giorno ventuno, alba. Termine del Quadrante Nove, Zona Sud della Marea. Al mio risveglio la discarica presenta le impronte fresche dell’Artefatto gigantesco. Forse,» la mano che teneva il registratore tremava «forse non mi sono accorta ieri sera della presenza delle impronte. Era buio».
Più che una scusa era una consolazione che cercava di dare a sé stessa. Chi voleva convincere?
Quelle orme erano profonde almeno un metro, se fossero state presenti la sera prima se ne sarebbe accorta perché ci sarebbe caduta dentro. Oltretutto, coprivano con cura quasi tutto il territorio che riusciva a scorgere a occhio nudo. Era come se l’Artefatto si fosse messo a passeggiare intorno a lei mentre dormiva, pensieroso.
«Ma se fossero state create stanotte mentre dormivo,» riprese in un sussurro «sono fortunata a essere viva».
Rilasciò il pulsante e sospirò, accovacciata vicino a un’impronta. Perché non l’aveva calpestata? L’aveva evitata con cura mentre creava quel reticolato di enormi buche. Tane di giganteschi ratti, pensò.
Scosse la testa e mentre terminava di smontare il campo si mise a canticchiare il motivetto di una vecchia pubblicità di riparazioni auto.
Probabilmente era l’unica a ricordare il motivetto perché da quando anche le auto erano state sconsigliate e poi rese inutilizzabili dai territori devastati dalle lunghe passeggiate degli artefatti, nessuno le ricordava e con esse erano svanite anche le pubblicità annesse.
Appena riprese a camminare si rese conto che la faccenda adesso era più complicata di quanto pensasse. Quel territorio minato da buche profonde, la passeggiata schizoide dell’Artefatto, rendeva non percorribile la zona della discarica. Dovette muoversi con cautela e in qualche caso arrampicarsi sui mucchi di ricambio per evitare le fosse che erano create da evidenti passaggi ripetuti lì intorno.
Era passato mezzogiorno quando decise di riposarsi di nuovo, all’ombra di un nuovo mucchio.
Si passò la crema solare sul volto e sulle braccia e prese a borbottare a sé stessa «Amico mio Artefatto, spero per te che tu venga fuori perché mi stai facendo dannare non poco…»
Altra menzogna. Dove poteva essere finito un Artefatto gigantesco perché lei non riuscisse a scorgerlo in quell’enorme zona desertica? Gli Artefatti non corrono. Gli Artefatti non sentono il bisogno di nascondersi. Non si fermano mai, continuano nella loro passeggiata infinita dal momento in cui escono dall’uovo. Quindi dov’era quell’immenso ammasso di ferraglia misteriosa a cui si era messa alle calcagna?
C’era una sola risposta alla faccenda e sapeva benissimo quale era: il Tessuto di Significato che il Laboratorio Concetti le aveva preservato aveva cominciato a marcire. L’accurato lavaggio del cervello che aveva fatto in modo che lei ricordasse cose che ai più erano dimenticate e che preservasse memorie e ricordi in modo da fare accurate ricerche sugli Artefatti, ricerche che poi non aveva mai davvero eseguito, si era trasformato in una massa rancida di informazione all’interno del suo cervello e aveva cominciato a far germinare allucinazioni. Probabilmente non c’erano buche. Forse non c’erano mai state impronte. Non era la prima volta che succedeva, ovviamente. L’Azione Nigredo, come era stata poeticamente chiamata dal Laboratorio Concetti, colpiva sia civili sia dipendenti dei Laboratori. I secondi in numero maggiore perché più esposti a vecchie memorie. Quando una mente si intestardiva su concetti quali “Il mondo come era una volta”, “Prima dell’Avvento delle uova di Artefatto”, semplici concetti e parole desuete, il processo di decadimento iniziava.
Le tornò in mente quando aveva firmato il contratto per lavorare al Laboratorio, dopo che aveva passato tutti quei test interminabili. L’Azione Albedo, il famoso lavaggio del cervello che permetteva ai dipendenti di ricordare e maneggiare concetti passati, avrebbe potuto incepparsi un giorno. L’avevano avvertita a cosa andava incontro. La Nigredo non era un semplice attacco di panico, era raro tornare indietro. Era un processo causato da stress e fatica; malattie collaterali ovviamente.
«Causato dall’ossessione per concetti perduti» disse a sé stessa mentre fissava con occhi vacui la crema solare che ancora teneva in mano. In poche parole il suo cervello stava marcendo come un cadavere al ciglio di una strada perché lei si era ossessionata con la Madre degli Artefatti. Il sogno della notte prima ne era un chiaro segno. Aveva sognato ratti, coccodrilli, ormai scomparsi, associandoli a qualcosa che forse neanche esisteva.
E intanto stava diventando un involucro spalmato di crema solare al cui interno informazioni e ricordi abbondavano in infiorescenze di putrescina.
Si alzò barcollando e si diresse verso un’impronta vicina. C’era davvero? La mente le diceva di sì. Sfiorò il bordo della buca con la mano. «L’ossessione per concetti perduti causa reazioni avverse nella mente umana. L’Azione Nigredo in questi casi colpisce ferocemente la mente e il corpo, causando allucinazioni, fughe psicogene e in casi drastici tentativi di suicidio. È consigliabile recarsi immediatamente al Laboratorio Concetti più vicino».
Il Laboratorio Concetti più vicino era ad almeno millesettecento chilometri di distanza, tutti percorribili a piedi. L’unica soluzione che poteva tentare era il nastro registrato che veniva dato in dotazione ai dipendenti del Laboratori che si avvicinavano alle Zone Vagabondaggio Artefatti.
Con le mani tremanti, avevano mai smesso di tremare?, inserì il nastro nel registratore, si sdraiò sul ciglio della buca, esisteva?, e premette il pulsante di avvio. Mentre il sole le arrostiva la faccia la voce calma e placida di uno studioso cominciò a raccontare.
«Caro dipendente del Laboratorio Concetti, il Laboratorio offre supporto alla tua mente in questo difficile momento. Se stai sperimentando una semplice confusione mentale, questi sono i possibili sintomi: vista annebbiata, sudorazione, tremori, sensazione di asfissia. Se stai sperimentando un attacco di parestesia mnemonica, questi sono i possibili sintomi: ricordi confusi, immobilità improvvisa, forti episodi di labirintite intermittente. Se stai sperimentando –»
Ma erano pazzi per caso? Se una persona stava veramente sperimentando una qualsiasi crisi era inutile stare ad elencare i vari sintomi. Premette il testo avanti più volte e poi sospirò di nuovo, muovendosi a disagio e sollevando sbuffi di sabbia.
«… attenzione. Questo è quello che dovete ricordare e tenere a mente. Un giorno di primavera un uovo si schiuse in una città della Zona a Nord della Marea. Dall’uovo uscì un Artefatto. L’Artefatto cominciò a passeggiare lungo il pianeta e dopo di lui molti altri lo seguirono. Giganteschi, medi, piccoli. La Terra su cui poggi i piedi ha subito le angherie e i calpestii di queste creature metalliche. Non sappiamo cosa sono, da dove vengono. Non ci interessa adesso. Tu vieni da una Zona Esente Vagabondaggio. Tu puoi ricordare il tuo nome. Di’ adesso il tuo nome.»
Ascoltò il ronzio del nastro. Non riuscì a pronunciare il suo nome.
«Bene. Adesso ripeti: gli Artefatti hanno mutato la Terra. Gli Artefatti sono inconoscibili.»
Altra pausa. Provò a ripetere le parole questa volta ma aveva la gola troppo secca. Il sole stava cuocendo ogni centimetro del suo corpo.
«Ricordo soltanto la Terra mutata. Ricordo la presenza degli Artefatti. Non c’è altro tempo oltre questo. Ripeti e respira.»
Era tutto inutile. Mentre il sole smangiava ogni centimetro del suo corpo le sembrò di poter toccare con le mani la massa spugnosa che era diventata il suo cervello. Mentre scivolava in un sonno cullato dall’insolazione e dalle parole del nastro di sicurezza del Laboratorio, riuscì anche a intravedere la propria mente affannarsi e sbattere contro un vetro spesso, come un pesce in un acquario. Ricordò l’acquario di Boulogne e questa fu la riprova che stava tornando tutto a galla contro la sua volontà, ricordi stimolati da altri ricordi che dovevano rimanere sepolti.
Acquari, superstrade, meringhe, tacchini, conigli, ortiche, limousine, stabilimenti balneari. E sotto un ombrellone, in un ricordo ormai infestato dalle allucinazioni della Nigredo, comparve un Artefatto che la squadrava con occhi di specchio, che soffiava verso di lei odore di rose e viole.
Di cosa era fatto? Dov’era la sua Madre ovipara? Che dispiacere era esplodere come un cadavere putrescente in mezzo a ricordi confusi quando avrebbe potuto trovare la creatrice di quelle creature impossibili.

Quando riprese coscienza all’inizio pensò che stavano per seppellirla viva. Poi si ricordò della buca.
Ci era scivolata dentro. Sopra di lei una notte fresca, sul suo corpo pelle bruciata dal sole. Si sedette all’interno della buca e riuscì a scorgere il registratore. Stupido affare.
Forse aveva davvero avuto una crisi ma a meno che quella non fosse un’altra allucinazione il suo cervello non era esploso. Quindi non era Nigredo? Cosa era allora che l’aveva schiacciata come un insetto sotto un sasso?
«Sono i ricordi che ti hanno schiacciato. Ma i ricordi non uccidono. Perché continuate ad affannarvi a costruire o smantellare?»
Un brivido le percorse la schiena. Si alzò di scatto e per poco non cadde di nuovo. Prese un respiro e si alzò in punta di piedi, sbirciando oltre la buca.
C’era un Artefatto. Un Artefatto gigante. Se ne stava accucciato poco più in là, come un bambino curioso che osserva una creatura piccola e gracile che ha catturato.
«Non ti ho catturata. Non è carino da dire. Tu mi cercavi. Sono giorni che mi segui».
Non c’era da stupirsi che avesse creato quelle buche profonde. Aveva un corpo violaceo, alcuni cavi gli sbucavano vicino ai polsi. Aveva fattezze umanoidi ma a colpo d’occhio le ricordava per assurdo un grosso fiore carnoso.
«È la mia parte liquida che ti ricorda il fiore. Riesci a vederla? Si trova un po’ ovunque nel mio corpo, anche vicino a quello che tu chiameresti mento».
Fu in quel momento che si rese conto della cosa più straordinaria di tutte e fu quella sorpresa a permetterle di parlare di nuovo.
«Tu non cammini. Sei immobile».
L’Artefatto emise uno sbuffo che sollevò una buona quantità di sabbia.
«Certo che non cammino. Tu mi cercavi. Mi sono fermata. È così che funziona».
Altra sorpresa.
«Sei… Sei una femmina».
L’Artefatto sbuffò di nuovo. Era evidente che si stava divertendo.
«Dipende. Tu mi hai cercata come tale. Sei stata davvero molto specifica. Hai lasciato che tutto riaffiorasse e hai più volte pensato a ciò che volevi. Se tu non fossi stata così specifica forse non mi sarei fermata. Per questo mi ero nascosta da te, capisci? Non ero ancora sicura tu mi volessi davvero».
Il volto lucido dell’Artefatto galleggiava di fronte ai suoi occhi sul fondale di stelle e sabbia.
«Sei la Madre?»
«Tu mi hai cercata come tale. Vuoi che sia una Madre?»
Si fissarono in silenzio. Capì che l’Artefatto la stava di nuovo soppesando. Era meritevole di quella sua immobilità? Quante cose avrebbe potuto dire al Laboratorio al suo ritorno! Non solo gli Artefatti si potevano fermare ma potevano parlare. Proprio mentre pensava al Laboratorio ripensò al nastro che giaceva ai suoi piedi. Quello stupido nastro. L’Albedo, la Nigredo. La Terra mutata. Il fatto che non sapessero niente. Non poco, niente. E continuavano a tagliare via pezzi di informazione, di linguaggio, di ricordi. Cosa avrebbe potuto raccontare? Avrebbe avuto le parole per farlo? Ricordò l’acquario di Boulogne. L’odore di salvia in giardino. Rose e viole.
«Puoi essere mia Madre?»
Era davvero divertente, perché l’Artefatto si esibì in un verso sottile e vetrato che non poteva che essere una risata.

Il suo uovo si schiuse dopo dieci giorni. Madre lo aveva detto. Quando uscì un po’ si rammaricò di essere di taglia piccola. Con quelle dimensioni ci avrebbe messo più tempo a compiere qualsiasi distanza. Madre era veloce. Madre si era dileguata in fretta. Le aveva detto anche questo del resto: non aveva davvero niente da insegnarle.
Mosse i primi passi e si voltò a fissare il proprio uovo a pezzi.
Era una pasta solida, sembrava impasto vecchio ma anche metallo rovente.
Il suo corpo era simile a quell’uovo da cui era uscita. Molle e caldo come pane in certi punti, rigido e lucido in altre giunture. Non vedeva l’ora di fare la muta. Non vedeva l’ora di tornare a vedere tutti i luoghi. Meglio mettersi in marcia.
Nel giro di mezz’ora era di nuovo tornata alla zona delle pozze d’acqua. Un venticello che sapeva di fango ed erba tagliata le solleticò le narici. Un airone le passò vicino alla testa, salutandola.
Era un airone, ne era certa. Il suo cuore di cavi e carne fece una capriola.


Diletta Crudeli è nata nel 1991, ha studiato Beni e Culturali ed editing ma è esperta soprattutto di zone infestate e di storie che fanno paura. Gestisce il blog Paper Moon ed è fondatrice di Spore Rivista, rivista online dedicata al fantastico. Scrive per L’Eco del Nulla e i suoi racconti sono usciti su diverse riviste letterarie, tra cui Tre Racconti, Narrandom, In fuga dalla bocciofila. Ha pubblicato storie nelle raccolte Prisma Vol. 1 (Moscabianca Edizioni 2019), W.o.W. Women of Weird (Moscabianca Edizioni 2020), Prisma Vol. 2 (Moscabianca Edizioni 2020) e Hortus Mirabilis. Storie di piante immaginarie (Moscabianca Edizioni 2021).