Tea mi guarda dall’altra parte della tavola, impassibile e muta. È rimasta così per tutta la cena, in silenzio, come fa ogni sera ormai. Fuori c’è un’insolita luce gialla che pare innaturale. Mi avvicino alla finestra e vorrei toccare la nebbia: ha sommerso i tetti, i camini, i balconi e le strade.
Mia madre si avvicina: «È una serata speciale». Non si riferisce alla nebbia.
Manca poco al discorso del Patriarca.
Mia figlia guarda il telefono mentre gioca coi capelli. Ricordo il suo primo anno di scuola: all’uscita andavamo io e Sabina – Michele non era ancora nato – perché era una cosa che ci piaceva fare insieme. Un giorno ci corse incontro e ci raccontò che le avevano fatto vedere questo filmato in cui un omino stava seduto con le gambe incrociate e gli occhi chiusi: «È rimasto così per alcuni secondi, poi dalla testa gli è partito un fumetto con dentro un omino come lui, più piccolo, ma si capiva che era lui. E dopo una voce che ha detto…»
«Ricorda chi eri» le dissi, e lei ci sorrise.
Quando il Patriarca comparve sulla rete nazionale, anni dopo, sapevamo già: la sua meditazione, diceva, faceva prendere coscienza della vita precedente. Una coscienza piena e totale. In molti volevano meditare con lui, ma bisognava andare nelle sue tenute dall’altra parte del mondo e starci un mese intero, per sbloccare la coscienza. «Soltanto un mese» diceva lui «per un tale risultato». Ma chi poteva permetterselo un mese intero fuori casa? E poi il viaggio per me e Sabina, e qualcuno che portasse avanti il lavoro nel bar di papà fino al mio ritorno…
Tea e mia madre si voltano verso la televisione appena si sente la voce del Patriarca: Una vita alla volta, che è stato il suo primo spot. Le parole che cambiarono il mondo: quelli che gli credettero persero la paura della morte. Altre religioni promettevano ciò che sarebbe stato, il Patriarca faceva vedere quel che era già stato. Non la definiva neanche una religione, la sua, perché non voleva farti credere a nulla. E intanto la sua cerchia ne formò altre, che ne formarono altre e altre ancora.
È per lui che Tea tiene il muso, questa sera: vorrebbe unirsi ai seguaci del Patriarca, ma io le ho detto di no. Lei insiste che tutte le sue amiche hanno aderito, io le dico che è stupido fare una scelta del genere solo perché lo fanno gli altri. E poi fra qualche mese compirà sedici anni, allora non avrà più bisogno del mio permesso.
Le dico: «Resterai in silenzio fino al tuo compleanno?»
Mia madre mi si fa vicino: «Se la facessi aderire subito, non farebbe così. Dovresti rispettare il suo desiderio»
«Che senso ha tutta questa fretta?»
«Ma quale fretta? Alla sua età eri già cresimato.»
«È diverso.» Aiuto mio padre a stappare la bottiglia di vino. «Possibile che non lo capisci, quanto è diverso?»
Cerco l’appoggio di mio padre, ma è intento a versarsi da bere. Ho sbagliato a parlarne in loro presenza.
Mia figlia neanche mi risponde, si avvia in camera sua, poi si volta. Per un attimo si accorge del banco di nebbia fuori dalla finestra e spero che parli di quello, invece dice: «Chiamatemi prima che inizi.»
Mia madre sparecchia la tavola. Sono avanzati alcuni ravioli – quelli di pesce, che mia madre prepara per le occasioni – e le fette d’arrosto che Tea non ha nemmeno toccato. Mio padre le lascia prendere piatti e posate, ma afferra la bottiglia di vino prima che lei gliela tolga di mano.
«Se penso a quante anime sono morte prima che il Patriarca ci parlasse…» dice mia madre.
«Non ci ha garantito niente» dice mio padre.
«Non le voglio sentire, certe cose! Non in questa casa! È un uomo onesto, lui: ci insegna quello che sa».
La prima effige che il Patriarca ci diede di sé lo raffigurava come un uomo bendato che camminava a tentoni, con le mani protese in avanti. Dietro di lui, l’umanità intera. La stessa immagine fece da sfondo al suo primo discorso alla nazione. Allora pensai che fosse un genio: confessare il limite della propria conoscenza era il tassello che mancava per sancire la sua onestà.
«Ricorda chi eri» dice mia madre.
«Nessuno garantisce un bel niente» ripete mio padre.
Mia madre raccoglie i piatti e le posate e li porta in cucina, poi torna con uno straccio e lo passa tra un bicchiere e l’altro. Quando finisce, tira fuori dalla borsa un rosario e un’immagine del Patriarca: «Voglio pregare, prima che inizi».
Aiuto mio padre a versarsi da bere. Lui mi tira la maglia per farmi abbassare: «Lo sai che lotta, quando volevo sposarla in Comune? Che poi alla fine ho ceduto e siamo finiti in Chiesa: li avevo tutti contro, sua madre, sua nonna, il prete… ma lei più di tutti. E ora guardala».
Passo lo straccio sulla tavola per pulire il vino che ha rovesciato. Vorrei parlargli ancora, chiedergli di quando lui e la mamma hanno smesso di litigare per quella faccenda, ma lei torna, ormai manca poco al discorso. Siedo sul divano e mia madre mi si mette vicino.
«Hai sentito Michele?»
«Più tardi» le dico. Michele è con Sabina, in quella che era anche casa mia.
Ricordo quanto mia madre insisteva, ogni giorno: «Ti sei deciso o no? Se farete il viaggio, magari le cose con Sabina andranno meglio. Quanto meno, fallo fare a lei.»
Io ero curioso come lo erano tutti, ma non mi fidavo. Per mia moglie, invece, la vita precedente era diventata un’ossessione. Si era fissata che avremmo dovuto trovare il modo di partire entrambi e fare la meditazione, per acquisire consapevolezza e fare in modo di vivere insieme anche le nostre vite successive. Io non sapevo se quello che diceva fosse possibile, e non me la sentivo di rischiare così tanto.
Erano anni di crisi e non avevamo soldi da parte. Le cose al bar di mio padre andavano male. Mia madre aveva sempre pregato molto, ma ormai affiancava il nome del Patriarca a quello di Gesù.
Ovunque si organizzavano i viaggi di meditazione e non si parlava che di quello. A tavola mio padre girava i canali in cerca di qualcos’altro: «Non me ne frega niente di sapere se in un’altra vita stavo meglio o se facevo la fame anche allora.»
Alla fine spegneva e scolava i bicchieri uno dopo l’altro.
Mia madre invece seguiva tutti gli sviluppi e ne parlava con le amiche della Chiesa. In casa no: solo a me, quando mio padre non c’era o dormiva sul divano, dopo pranzo, raccontava che si era sognata in altre vesti e in altri tempi. Più di una volta mi disse: «Altro che due vite soltanto!» Era meglio del Patriarca, lei: così devota che la meditazione non le serviva.
Per Sabina avremmo dovuto venderci la casa. In molti lo fecero. Altri fecero di peggio.
«Il marito di Anna le ha regalato il viaggio per il loro anniversario e hanno fatto la meditazione insieme.» Lui poteva permetterselo, perché aveva una catena di supermercati. Io lavoravo al bar con mio padre e c’erano mesi in cui non uscivano gli stipendi per tutti e due. Pensavo che di tempo per decidere ne avevamo e speravo di poter tergiversare ancora. Una volta fatto il corso non tornavi indietro. Una volta che sapevi, sapevi. E non era detto che sapere fosse meglio. Al bar poi ne sentivo di tutte: il tempo di fare un caffè o di scaldare una fetta di pizza, le persone ti raccontavano come la pensavano. C’era sempre chi conosceva qualcuno che era partito o che stava per tornare. Tutti parlavano della loro vita precedente e non sapevi più chi aveva fatto davvero la meditazione e chi invece se lo inventava solo per vantarsi. E poi c’erano gli autoditatti e gli imitatori.
Ma non era quello il punto e non dissi niente a mia moglie.
«Sai come dev’essere, farla insieme?» mi chiese.
Io escludevo l’idea del viaggio perché non credevo al Patriarca, e le ripetevo che non potevamo permettercelo. Poi una mattina, prima di andare al lavoro, lei mi riferì che la sua amica Anna era disposta a regalarci il pacchetto di meditazione completo a tutti e due. Quando rifiutai – e ci misi un attimo a farlo – capì che quella dei soldi in fondo era una scusa. La sera stessa, dopo avermi detto che aspettavamo un altro figlio, mi pose di fronte a una scelta. E così decidemmo di non vivere insieme neanche questa, di vita.
Cinque anni dopo, nell’anniversario della sua prima comparsa sulla rete nazionale, il Patriarca parlò di nuovo, questa volta in eurovisione.
Eravamo a casa con i miei, ma c’era anche Sabina: per l’occasione mia madre ci aveva voluti tutti insieme, davanti alla televisione. I media fecero le loro ipotesi su quello che sarebbe accaduto, ma nessuno avrebbe potuto prevederlo. Ci trovammo di fronte a uno schermo nero, senza musica, senza festa, senza effetti straordinari: mancava tutto quello che ci aspettavamo.
Poi la luce e la voce: Le porte sono aperte a tutti, dovete solo varcarle. Il Patriarca comparve e tirò fuori dalla tasca una cosa piccola, la tenne sul palmo della mano. Io pensai a un’ostia, in molti lo pensammo, invece era più piccola e gialla: soltanto un confetto.
«Sia lodato!» disse mia madre.
E io: «Alla faccia della meditazione.»
Ma quella non serviva più, e neanche il viaggio: il tempo di ingoiare il confetto e attendere.
Mia moglie abbracciò mia madre e le gridò: «Ma si rende conto? Si rende conto?»Mia madre, dentro a quell’abbraccio, si commosse, al suo solito.
«A me neanche se mi pagano» disse mio padre, ma ero rimasto solo io ad ascoltarlo: mia madre si era ritirata a pregare – faceva così lei, lodava il Patriarca e pregava per lui, mentre snocciolava il rosario – mia moglie a chiamare le amiche. Aveva in testa solo il Patriarca e il suo confetto. Ma non era la sola. Nella zona industriale in periferia capannoni dismessi divennero centri di produzione di confetti, fabbriche già esistenti si riconvertirono per soddisfare una richiesta in continuo aumento. In centro, negozi chiusi da tempo riaprirono come punti di distribuzione, e così in ogni città. Allora immaginai che presto la voce del Patriarca sarebbe tornata per invitare a prenderlo più spesso, il confetto, una volta all’anno, poi dopo sei mesi, dopo due, ogni giorno. Per non perdere il dono acquisito.
Ricorderai chi eri, come fosse stato ieri – Prendi coscienza di questa tua vita, accedi alla memoria infinita – dicevano i suoi nuovi spot. Mia madre li ripeteva di continuo, propagandista innata, ma li faceva anche un po’ suoi, infilandoci angeli e santi.
«I problemi che abbiamo noi, le prossime generazioni non li avranno» mi disse una volta al telefono. Io mi ero lasciato da Sabina che era poco e dormivo fuori casa. «I tuoi figli cresceranno con la conoscenza.»
A me veniva la voglia di fuggire in un posto che il Patriarca non potesse raggiungere. Ma lei mi pregava di rientrare a casa, di ripensarci, mi ripeteva quanto ci stavano male i bambini e che avrei dovuto tornare da mia moglie, in qualche modo. Una sera lo feci.
Avevo ancora le chiavi di casa per andare e venire quando volevo per stare coi ragazzi. Tea e Sabina erano sul divano, Michele giocava in terra, al centro della stanza. Avevano finito di cenare, la tovaglia con le briciole era ancora sul tavolo. Sabina mi accolse con un sorriso. Io mi sedetti sul tappeto con Michele, lei riprese quello che stava facendo: teneva in mano un libro di scuola di nostra figlia, aperto su una cartina geografica.
«La Francia è un paese meraviglioso.» Prese una matita e Tea le si fece vicina per vedere le località che indicava. «Vedi qui, al nord, questa è la Normandia, la zona delle maree. Saint Malo, Mont Saint Michel, ti piacerebbero, sai?» Avevamo fatto un viaggio in camper da quelle parti, da giovani, assieme a una coppia di amici.
«Tu la conosci bene?» le chiese.
«Eccome, mi ci sono trasferita, quando ero Maria Bianca. Avevo trentadue anni, pensa, e dopo essere rimasta tanto tempo nella mia città…»
Michele voleva giocare e muoveva da solo gli aerei che mi aveva messo in mano, ma Sabina diceva cose che non avevo mai sentito e non riuscivo a distogliere l’attenzione.
«Questa?»
«No, non questa!» mia moglie rise. «Ero nata qui, in Umbria. Pensa che non ci sono mai stata in questa vita… insomma, sono andata su per un progetto di studio e non sono più tornata, in un certo senso» Parlava come se le fosse accaduto il giorno prima.
«E col francese? Come hai fatto?»
«L’ho imparato. Perché credi che io sia così brava, oggi, con le lingue?»
Mi alzai e presi una birra dal frigorifero, poi mi sedetti al tavolo. Mio figlio mi chiese di tornare sul tappeto, ma gli feci segno di aspettare. Facevo il possibile per fare finta di niente, per ascoltare e basta.
«Ti sei innamorata nella tua vita precedente?» le chiese nostra figlia. «Ti sei sposata?»
Mia moglie mi guardò e Tea si mise una mano davanti alla bocca, per tapparsela. Prima che Sabina le rispondesse, mi alzai in piedi – non sapevo cos’avrei fatto – e mi avvicinai al divano: «Basta! Così li stai plagiando, non te ne rendi conto?»
«Plagiarli? Guarda che qui sei tu l’unico a volerli lasciare nella loro ignoranza. Tu e quell’ubriacone di tuo padre.»
Le andai vicino e guardai mia figlia dritta in faccia, poi anche Michele: «Andate in camera vostra!» Si presero per mano e si chiusero nella loro stanza.
Non m’interessava che mia moglie avesse preso il confetto: probabilmente lo aveva fatto il giorno dopo che ci eravamo lasciati, o anche prima. Era per i miei figli, che ce l’avevo.
«Tu non ti rendi conto.»
«Sei tu che non capisci. Ma di cos’hai paura? Dovresti stare ad ascoltarmi, come fa tua figlia, per capire cos’ho fatto e cos’ero nella mia vita precedente. Allora forse capiresti cos’è il dono del Patriarca, e capiresti davvero perché con te, così come sei, non ci potevo più stare.»
Feci un altro passo verso di lei e ci trovammo muso a muso. Sollevò le mani e mi conficcò le unghie in faccia. Strinsi i pugni e pensai che avrei potuto colpirla. Scossi la testa con le sue dita ancora dentro la mia carne, poi feci un passo in avanti con tutto il corpo, mi uscì un suono gutturale dalla bocca e la spinsi via. Cadde sullo schienale del divano e si ribaltò all’indietro. Rannicchiata lì dietro, la sentivo ansimare. Aveva le dita sporche del mio sangue. Andai in bagno, presi alcol e cotone per tamponare i buchi che mi aveva lasciato in faccia.
Poi la sentii chiamare la Polizia. Avrei potuto andare di là, strapparle il telefono e lasciare che le cose peggiorassero ancora. Invece uscii dal bagno – i ragazzi si erano messi vicino a lei, mi fissavano – e andai via.
Mia figlia torna per dirci di guardare giù dalla finestra. Io e mia madre ci affacciamo e sentiamo le voci. Sotto la coltre di nebbia, un fiume di persone cammina verso il centro. Anche in televisione passano immagini di folle accalcate nelle piazze delle grandi capitali. Per la prima volta sembrano tutti quanti d’accordo su qualcosa.
Mia figlia va nella sua stanza e torna in giacca: «Posso andare, papà?»
«No».
«Ma perché? Hanno messo i proiettori, sarà fantastico, ci saranno tutti.»
«Perché è pericoloso.» Guardo mia madre prima che intervenga.
«Tu sei contrario per via della mamma» dice mia figlia.
Mi rattrista che lo pensi, e ancora di più che abbia ragione. Ma c’è dell’altro.
«Non sono contrario a niente» le dico. «Per quel che mi riguarda, non fa differenza tra avere tante vite o una sola. E tutto sommato, se lo vuoi sapere, preferivo stare dietro a chi mi prometteva una vita sola, ma eterna.»
«Non essere blasfemo» dice mia madre.
Penso da dove cominciare, fra tutte le cose che avrei da dirle, per ogni volta che in passato si è intromessa tra me e mia moglie, e adesso tra me e mia figlia. Ma dalla strada salgono grida di esultanza. Tea scappa in camera e accende la televisione. Il collegamento è iniziato. Mia madre sprofonda sul divano e chiama papà.
«Arrivo» le dice. Ha il bicchiere di nuovo pieno. Io resto in piedi.
Mia figlia esce dalla sua stanza, corre verso la porta d’ingresso e sparisce fuori. Io lancio il telecomando sul divano e le corro dietro, così come sono, in canottiera e ciabatte.
Le strade sono piene, ma non la perdo d’occhio. Lei si gira, mi vede e continua a correre con le sue scarpe da ginnastica fluorescenti che si notano fra mille. Come aumento il passo una ciabatta mi scappa via e rallento di nuovo. La nebbia che guardavo dall’alto ora è sulle nostre teste.
Quando arriviamo in piazza fatico a farmi spazio nella calca. Mia figlia trova qualcuno che conosce – alcune ragazze che ho già visto, mia moglie saprebbe i loro nomi – si mette a parlare e mi guarda, poi si volta per seguire lo spettacolo proiettato nel cielo.
Le telecamere fanno la panoramica sul teatro naturale scelto dal Patriarca: uno scenario immerso nella natura incontaminata di qualche parte del mondo. Centinaia di musicisti, ballerini e artisti rappresentano le civiltà presenti e passate. Altro che lo stupido filmato che mostravano nelle scuola. Musiche tribali dal ritmo incalzante provengono da ogni lato della piazza, mentre le immagini proiettate nel cielo vengono circondate da fasci di luce variopinti. Pennelli invisibili fendono l’aria e dipingono sopra la città i numeri di un conto alla rovescia. Aveva ragione mia figlia, lo spettacolo è meraviglioso. Guardo lei e guardo i numeri, mentre la musica si fa più veloce. Al dieci, la piazza inizia a contare entusiasta, come se sapessero tutti cosa aspettano e cosa accadrà quando il conteggio arriverà alla fine.
Allo zero si alza un boato e penso a cosa potrebbe scatenare una tale massa in tumulto, invece tutto quanto si ferma e cala un improvviso silenzio. È a questo punto, nel pieno di una immobilità irreale, che compare il Patriarca, e io penso: la verità è che non credo a te come non credevo a quegli altri. C’è solo lui adesso nel cielo sopra di noi, e tutt’intorno la nebbia. Mi chiedo se il sole domattina la spazzerà via.
Le bandiere si innalzano e formano un cerchio di cui lui è il centro. Io guardo un po’ in alto e un po’ verso mia figlia, per accertarmi che sia sempre lì.
Il suo gruppo di amici, o qualcun altro dalle sue parti, intona un canto a cui molti si uniscono, mentre le telecamere indugiano ancora sul volto del Patriarca. Levano le braccia al cielo – indossano maglie gialle con la dicitura Una vita alla volta e l’immagine del confetto – e le fanno ondeggiare. Sono l’unico in tutta la piazza a non guardare per aria, a non esultare, a non ballare: osservo le facce che ho intorno e cerco di capire cosa c’è di diverso, tra me e loro.
Mia figlia aveva ragione anche su questo: non c’è niente di pericoloso.
Poi la musica sfuma. Si ode la voce del Patriarca così come la conosciamo tutti, ma pronuncia parole incomprensibili.
«Che sta dicendo?» chiedo a un uomo accanto a me. Si è levato la giacca per esibire il ritratto del Patriarca tatuato sul braccio.
Mi si accosta all’orecchio: «È la sua lingua!» Allora ricordo che mia madre mi aveva accennato qualcosa del genere: una lingua nuova ma antica, che ciascuno ha parlato in qualche vita precedente. «Leggi i sottotitoli!» l’uomo mi indica un punto nel cielo.
Poi sento qualcuno gridare: «Conoscenza per tutti!» Subito dopo anche l’uomo col tatuaggio lo grida, altri lo ripetono qua e là, mentre le persone applaudono, saltano e si abbracciano. Allora anch’io alzo lo sguardo e nel cielo c’è il mondo srotolato in una mappa che si colora di giallo come il confetto. Non tutto il mondo, ma quasi, e noi siamo nella parte che si è fatta gialla.
Guardo ancora mia figlia: festeggia e non bada a me, neanche alle nuove immagini che proiettano in alto.
A fatica torno ai margini della piazza, poi percorro la strada deserta fino a casa. Mentre faccio le scale, altre urla arrivano dalla strada e dalle porte delle case.
Entro e con la coda dell’occhio vedo mio padre con gli occhi a mezz’asta e il bicchiere che gli traballa in mano.
Se avessi fatto quello che desiderava mia moglie, se avessimo venduto casa, ora staremmo ancora insieme, mi dico. Mia madre è davanti alla televisione, piange e applaude.
Mi avvicino allo schermo e vedo un cielo illuminato di fuochi d’artificio, come fuori dalla finestra.
Mia madre si accorge di me: «Lo renderanno obbligatorio.»
«Lo so.»
Il mondo non cambierà più, penso.
E mi chiedo come faranno a costringermi. Ce ne sarà ancora di gente come me, o forse finirò come mio padre?
Lui mi allunga il bicchiere vuoto. Lo afferro prima che gli cada. I cieli, fuori, si illuminano di tutti i colori e lo spettacolo rende variopinto il tappeto di nebbia che si ostina a resistere.
Sento il bisogno di bere anch’io. Entro in cucina e frugo nella dispensa, quando telefona Sabina.
«Tuo figlio piange, dice che lui non vuole tornare piccolo. Chi glieli ha messi in testa questi discorsi, alla sua età?»
È seria, penso, e allora mi convinco che dovrei acquistare un biglietto aereo e fuggire con Michele, se fosse rimasto un posto, da qualche parte, dove andare. Una parte di mondo celata da una caligine perenne, che il Patriarca non riesca a colorare di giallo. Esisteva ancora, quando avevo la sua età e anche quando fecero vedere a mia figlia quello stupido filmato dell’omino e del fumetto con dentro un altro omino come lui.
L’autore
Marco Angelini (1976) è nato e vive a La Spezia. Si è laureato in giurisprudenza presso l’Università di Pisa e svolge la professione di avvocato. Suoi racconti sono stati pubblicati su Micorrize e Mayday Magazine.