convegno post letteratura

Convegno sulla Post-Letteratura

[Sappia il lettore che la trascrizione qui riportata è quanto di più fedele alle parole pronunciate dal professor Giambattista Bodoni, ordinario di Post-Filologia Italiana presso il Dipartimento di Scienze Teoretiche e Inutili di Roma, nella sua ultima conferenza. Mi auguro che si tenga a mente che io, povero cristo sfruttato dal barone universitario oltre ogni umana decenza, non ho responsabilità alcuna riguardo ai contenuti: il mio ruolo è stato solo quello di sbobinare la registrazione per l’immodica cifra di zero euro l’ora. Poco interesserà al lettore degli ultimi giorni di vita del mio diretto superiore, che era febbrilmente affaccendato nel proporre ipotesi di studio nuove e brillanti. Ancor meno, credo, debbano interessare certe malelingue che serpeggiano in alcuni ambienti universitari e vorrebbero attribuire a me la morte del Maestro, poiché si tratta di mero vociare invidioso. Il lettore totalmente disinteressato al dibattito intorno alla letteratura, invece, dopo un attento auto-esame, si chieda semplicemente come diavolo sia finito a leggere queste mie righe. Dopodiché, se lo ritiene opportuno, torni a fare altro.]

Fra chi oggi eroicamente si occupa di studi letterari può talora insinuarsi la tentazione, se si è presi dallo sconforto, di rinunciare alla ricerca di nuove testimonianze. Ci sentiamo impotenti, eppure ci rassicura uno stato percepito come inalterabile. Dell’attività letteraria dei secoli scorsi, ahinoi, sappiamo solo che quest’attività ci fu, e fu fiorente e intensissima. Niente di più. Le responsabilità non sono nostre, che abbiamo solo la colpa di essere venuti al mondo in un periodo storico in cui la carta non si produce più, la scrittura è un’attività scomparsa e le biblioteche sono state dismesse, inghiottite dall’incuria e dall’inutilizzo, soffocate dalla nebbia del sottofinanziamento e dal marcire delle pagine ammuffite. Ma si rammenti che non fu una sparizione improvvisa, non fu un asteroide a piombare sulle cattedrali della cultura e a raderle al suolo, fu uno stillicidio lento e inesorabile. I primi a disinteressarsene furono, inutile dirlo, i lettori. Presi d’assalto da decine di nuovi romanzi e romanzetti, attratti da narrazioni audiovisive sofisticate, sempre più portati a preferire prodotti seriali di mero intrattenimento, cominciarono a smettere di leggere. Poi i librai si adeguarono, privilegiando ciò che vendeva a scapito della qualità, infine i critici smisero di scriverne sui giornali e sui blog, poiché nessuno prestava loro attenzione. Gli ultimi ad accorgersene furono i bibliotecari, che resistettero pugnaci come guardiani del tempio, finché non videro mancare la terra sotto i loro piedi. I politici, semplicemente, non si disinteressarono alla letteratura perché prima non avevano mai avuto nemmeno il vezzo di interessarsene. E cosa ci si doveva aspettare, se non di veder sprofondare nel baratro più totale le patrie lettere?
Ma come si dice, se Atene piange, Sparta non ride. Lo stesso triste scenario si presentò ai miei colleghi operanti in Francia, Germania e in nazioni anglofone. Nei Paesi latino-americani e sino-indiani, sempre ammesso che laggiù abbiano mai prodotto letteratura alla maniera vivace di noi europei, la comparsa di regimi totalitari accelerò il processo storico. Per prima cosa, infatti, fu fatta tabula rasa di libri, letteratura e testi d’ogni fatta. Partirono semplicemente con qualche anno di vantaggio, ma non saprei dire chi ha compiuto l’operazione più tremenda: i dittatori che per cinico calcolo politico vollero uccidere la cultura o chi, sotto parvenze democratiche, la lasciò avvizzire lentamente fino a che poté solo mummificarsi e sparire? Risultati opposti li abbiamo registrati in Africa, dove l’uso di mettere per iscritto le proprie storie ha sempre faticato ad attecchire, e dove quindi la sparizione dell’oggetto libro è stata accettata di buon grado. Pronti a mandare avanti una cultura millenaria basata sull’oralità, i fratelli africani sono un caso di studio molto interessante.
Oggi la filologia non si occupa di letteratura, che è solo un concetto astratto, ma di post-letteratura, di passato ed epoche defunte che non conosciamo o ricordiamo in alcun modo. Come dicono i detrattori, la nostra disciplina si è allontanata da quella sua missione “autoptica”, nel significato etimologico di vedere coi propri occhi, esaminando di persona. Ed è vero, perché ci siamo ridotti a ficcanasare fra relitti e morti, sperando di vivificare opere e autori che ormai nulla sembrano poterci dire se non “siamo passati”. Siamo, concedetemi il termine, dei tombaroli. Noi che ci diciamo filologi difficilmente, sempre per aderenza all’etimo, potremmo dire di amare un testo, dato che mai abbiamo potuto approcciarci a una costruzione narrativa vera e propria, fatta di carta e inchiostro. La filologia, e lo dico amaramente, si è trasformata in filosofia, e anziché discutere dell’esistente fantastica sull’ignoto, congettura, ipotizza, costruisce e decostruisce castelli argomentativi. Ciarliamo inutilmente fra noi, parliamo a una nicchia di una nicchia, a una élite. Ciechi che si muovono a tentoni, questo dobbiamo sembrare a chi ci guarda da fuori.
Tuttavia, nell’introdurre i lavori di questo Convegno (che immagino saranno piuttosto brevi, visto che non abbondano gli autori e i libri di cui parlare), voglio lanciare un messaggio di speranza, in controtendenza rispetto a chi ci vorrebbe dipingere come parrucconi dediti alla nullafacenza, necrofili appassionati di vecchie cose decomposte. A mio avviso non siamo così lontani dalla luce in fondo al tunnel, da una scoperta che possa riportare la nostra disciplina al centro del dibattito culturale.
Vi offro qui, per la prima volta da quando ho deciso di occuparmene, l’anticipazione di alcune scoperte fondamentali per i nostri studi. Lo scorso anno, su richiesta di un entusiasta collega, mi sono recato a Firenze per visionare un reperto straordinario. Con tutte le precauzioni del caso, ho esaminato con la mia équipe di paleografi un frammento assai deteriorato di quella che i nostri progenitori avrebbero chiamato “copertina”. Il titolo – mi trema la voce nel rammentare il momento in cui lo lessi – era Tre metri sopra il cielo. Poco sopra, nella zona che probabilmente era deputata a ospitare il nome dell’autore, non c’era nessun carattere leggibile che ne indicasse la paternità. Impossibilitato a battere quel sentiero, provai a interrogarmi sul senso di quel titolo, figurandomi una narrazione a metà strada fra l’epica e la fantascienza. Andando oltre le mie prerogative di studioso, immaginai una sorta di guerra dei mondi svolta nell’iperspazio, “sopra il cielo” appunto. Doveva trattarsi di un esempio abbastanza riuscito di letteratura d’evasione, nel quale però l’autore si interrogava anche sulla possibilità per l’uomo di colonizzare l’atmosfera, a bordo di avveniristiche navicelle militari. Nel momento in cui feci questa ipotesi non c’era traccia al mondo di un libro di quel genere, e si credeva che fosse un’esclusiva delle produzioni filmiche. Pochi mesi appresso, però, alcuni ingranaggi si misero in moto nel verso giusto. Il francese Pierre Menard dell’Université de Montpellier annunciò il ritrovamento de L’Homme qui parlait aux martiens di François Bordes, libro del 1958 che sembrava testimoniare un interesse verso narrazioni di ambientazione spaziale, proprio come avevo intuito. Tempo dopo mi contattò Herbert Quain della University of Bath, che aveva riscontrato a propria volta l’esistenza del genere fantascientifico, avendo rinvenuto un’edizione quasi intatta del Prelude to Space di Arthur C. Clarke, uscito nel 1951. Due libri che alludevano allo spazio, alla sua conquista, ad altre forme di vite, ed entrambi risalenti agli anni Cinquanta. Mi feci persuaso che le affinità erano consistenti, e non era da escludere che pure Tre metri sopra il cielo fosse da collocare in quel decennio.
Il mese successivo, dopo un’ispezione di carattere archeologico in una provincia dell’Italia centrale, fui prontamente allertato da un amico che mi fece esaminare dei residui di libri usciti dal macero, semi-fossilizzati, così che di decifrabile restava ben poco. Il primo era Un posto nel mondo, e poco sopra erano segnate le lettere VOL, unici altri segni visibili sulla copertina compromessa. Gli altri due (Il giorno in più e Le prime luci del mattino) avevano la stessa segnatura. C’era quindi una stretta parentela, ed ero quasi sicuro che vi fosse identità di mano fra i tre. L’unico nome che VOL mi rammentava a livello fonico era Voltaire, e a Parigi era appena stata pubblicata un’edizione del suo Éléments de la philosophie de Newton, recentemente riemerso da una tenebra secolare. Di Voltaire finora si conoscevano a grandi linee la biografia e la vicinanza al fermento illuministico, ora si aggiungeva anche la pubblicazione di una sua opera. Dunque VOL da una parte, Voltaire dall’altra. Data una scorsa a quei titoli, provai a immaginare i legami con l’opera nota del francese: Un posto nel mondo poteva essere un saggio filosofico in cui il tema della collocazione della terra e dell’uomo nel cosmo veniva ridiscusso e approfondito; Il giorno in più, lo trovai lampante, ritornava sul moto di rotazione terrestre e dunque sulla necessità artificiosa di dotarci del 29 febbraio ogni quattro anni; Le prime luci del mattino, pensai, toccava la questione del variare di giorno e notte, del loro alternarsi. Mi parve fin troppo evidente che quelle opere avevano un legame piuttosto stretto, dal momento che erano specificazioni ulteriori delle idee newtoniane già divulgate in altra sede. Mi appassionai molto alla faccenda, allertai alcuni conoscenti del Dipartimento di Fisica e lasciai a loro il prosieguo di quello studio, perché mi era chiaro che Voltaire non era un letterato, ma un uomo di scienza.
Mentre analizzavo minutamente la copertina del VOL, mi ero imbattuto in uno stralcio gravemente compromesso di quello che giudicai un lungo poema erotico composto ai primordi dell’umanità, per come accostava in maniera elementare e inelegante le parole, con versi che si interrompevano senza alcun senso della metrica.


Mi piace tornare a casa
stanco morto
ma vivo
e trovar traccia di te


In basso, si leggeva solo “Catalano”. Immediatamente mi resi conto che a mancare non era il nome, ma semplicemente la dicitura “Anonimo”: l’autore era un Anonimo Catalano, e la dozzinalità con cui quei versi si lasciavano leggere era da imputare a quello sciagurato del traduttore, che non aveva saputo cogliere la profondità del componimento, le sfumature dell’idioma di Barcellona. Maledissi quell’illetterato di cui ignoravo il nome, perché sarei stato molto curioso di leggere in originale il poema dell’Anonimo.
Più di recente ho scandagliato grazie al web alcune fonti antiche, e i soli dati che ho recuperato sono quelli sulle vendite di un libro che deve aver segnato un’epoca. Si tratta di Cento colpi di spazzola prima di andare a dormire, che dietro un titolo smaccatamente ironico, edonisticamente proiettato verso un’ideale di bellezza effimera, nasconde per me un arguto esperimento metaletterario. La frivolezza solo apparente è un efficace metodo per aggirare le maglie della censura, e nella mia ottica potrebbe trattarsi di una raccolta di liriche, coi cento colpi che sarebbero da intendere come altrettanti fulminei componimenti, caustiche metafore che raccontano di un tempo triste. Il carattere sovversivo e impegnato di tale opera risiede nel fatto che verosimilmente fu composta in un tempo in cui le donne non avevano accesso alla cultura e alla letteratura, tanto che l’autrice si firma solo come “Melissa P”. Le donne d’oggi, specie quelle che negli anni si sono dedicate alla scrittura e hanno intrapreso carriere che in tempi bui erano loro negate, lo devono anche a questa autrice follemente innamorata della sua passione, tanto da rischiare tutta sé stessa.
Incrociando le mie suggestioni coi dati del logoro catalogo della Biblioteca Nazionale, ridotto a una squallida lista di una decina di titoli monchi e nomi illeggibili o abrasi, non è stato possibile finora dare conforto a queste teorie, ma sono fiducioso che prima o poi si possa giungere a dire una parola definitiva sulle questioni che ho sollevato e che ricapitolo velocemente: il florido filone fantascientifico in Italia, la circolazione di opere del corpus voltairiano nella penisola, la traduzione sgangherata del poema dell’Anonimo Catalano, l’esistenza di una nota scrittrice femminista chiamata Melissa P.

[Applausi sonoramente compiaciuti, entusiasmo palpabile negli sguardi di chi tributa l’ovazione, Bodoni emotivamente partecipe di fronte alla platea in piedi, gli occhi inumiditi per l’attestato di stima da parte degli uditori, in numero di sette contando anche chi scrive questo resoconto.]


Giulio Papadia (1994) collabora con Mangialibri e La Balena Bianca. Ha pubblicato racconti su Micorrize, Spore, Malgrado le mosche, Formicaleone, Coye e Blam. Ha fondato la rivista Salmace.