Speculative fiction è un termine dai confini vasti e porosi. Comprende fantasy, fantascienza e horror, anche se Robert A. Heinlein, a cui spesso viene attribuita la paternità della definizione, ha sostenuto in una lettera scritta nel 1949 che il fantasy non ne faccia parte:
Speculative fiction is not fantasy fiction, as it rules out the use of anything as material which violates established scientific fact, laws of nature, call it what you will, i.e., it must [be] possible to the universe as we know it. Thus, Wind in the Willows is fantasy, but the much more incredible extravaganzas of Dr. Olaf Stapledon are speculative fiction—science fiction. [1]
La speculative fiction non è fantasy, perché esclude l’uso come materiale di qualsiasi cosa che violi il dato scientifico assodato, le leggi della natura, in qualsiasi modo si voglia definirle, cioè dev’essere possibile nell’universo per come lo conosciamo. Quindi Il vento nei salici è fantasy, ma le stravaganze ben più incredibili dello scrittore Olaf Stapledon sono speculative fiction—fantascienza.
Oggi si può dire che il fantasy sia incluso nel dibattito perché la speculative fiction ha confini tanto aperti che è difficile esserne esclusi in modo inequivocabile. Il parallelo qui tracciato, quello di una maggiore comunanza tra fantascienza e speculative fiction, è stato messo in dubbio in un’altra sede. Margaret Atwood e Ursula K. Le Guin hanno dibattuto sui confini della fantascienza a paragone con la speculative fiction, e non sono arrivate a un’opinione concorde:
Margaret Atwood (2011) saw SF as descending from H.G. Well’s War of the Worlds with speculative fiction tracing its origins to Jules Verne. Speculative fiction is about things, technologies that could happen but just haven’t when the book was written, such as submarines and balloons. She did not see Martians arriving on Earth in metal cylinders, as portrayed in War of the Worlds, as possible. For Atwood, aliens are SF, not speculation. Atwood contrasted her meaning with Ursula Le Guin’s belief that SF represented what could really happen. To Atwood’s point, the idea of intelligent tentacle, blood-sucking Martians does seem more like fantasy based upon our current understanding of Mars, although Le Guin would counter that at the time War of the Worlds was written, it did represent commonly accepted thoughts about intelligent life on Mars and was thus speculative but grounded in the science of the time.[2]
Margaret Atwood (2011) ritiene che la fantascienza discenda da La guerra dei mondi di H.G. Wells, mentre fa risalire le origini della speculative fiction a Jules Verne. La speculative fiction riguarda circostanze, tecnologie che sarebbero potute accadere ma non erano ancora accadute quando il libro veniva scritto, come sottomarini e mongolfiere. Non considera possibile l’arrivo sulla Terra dei marziani dentro cilindri di metallo, come vengono rappresentati ne La guerra dei mondi. Per Atwood gli alieni sono fantascienza, non speculazione. Atwood mette a paragone la sua interpretazione con l’opinione della Le Guin, secondo cui la fantascienza rappresenta cosa sarebbe potuto davvero accadere. Dal punto di vista di Atwood, l’idea dei marziani intelligenti, succhiasangue e muniti di tentacoli sembra appartenere al genere fantasy confrontandola con quanto sappiamo ora di Marte, tuttavia Le Guin potrebbe ribattere che quando La guerra dei mondi fu scritto rispecchiava opinioni diffuse riguardo alla vita intelligente su Marte e quindi era speculativo e basato sulle teorie scientifiche dell’epoca.
È probabile che dibattiti come questi non conducano ad alcuna risposta definitiva, ma sono interessanti perché illuminano i punti di tensione, le istanze che motivano la nascita di un nuovo genere. In entrambi i casi vediamo il tentativo di fare un distinguo: fantasy e fantascienza sarebbero evasione, mentre la speculative fiction parla davvero del nostro mondo. Quest’ultima andrebbe a presa sul serio perché prende sul serio la realtà. Che questa posizione derivi, come poi insinua Le Guin, anche dalla preoccupazione di essere considerati scrittori seri, lontani dalla cattiva reputazione della narrativa di genere, forse non esaurisce né contraddice del tutto questo punto.
La speculative fiction include anche un grande pulviscolo di generi appena nati che difficilmente, almeno in Italia, avranno una sezione apposita sugli scaffali delle librerie: slipstream, weird, bizzarro fiction, ucronia (o storia alternativa) e molti altri. Non sono vere alternative ai grandi filoni dell’immaginario, ma li fiancheggiano come zone d’ombra, intermedie e anomale. In linea di massima, la fioritura di tanti piccoli sottogeneri mette in dubbio la legittimità delle definizioni e annuncia l’emersione di un nuovo modo di pensare e sentire la materia. Questo trova conferma nel fatto che l’etichetta speculative fiction sia usata anche in modo retroattivo, cioè per tutte quelle forme di narrativa, vecchie secoli o millenni, che non rispettano i canoni empirici, scientifici con cui oggi pensiamo il mondo: miti, leggende, fiabe, tragedie, romanzi gotici. Più che un corpus narrativo dotato di qualità mai viste prima, la speculative fiction è un nuovo modo di pensare la fiction stessa.
Credo che la sfumatura tradizionale più attigua a questa nuova maniera sia il realismo magico. È un genere letterario moderno, che quindi colonizza il passato il meno possibile e non riduce a intrattenimento forme culturali di altro tipo. Inoltre mette a fuoco il punto che in altri generi classici resta occasionale: la realtà non è quella che pensiamo.
Il concetto può essere inteso in due modi. Esistono più cose in cielo e in terra di quante ne sogni la nostra filosofia, citando l’Amleto, cioè la ragione non può arrivare ai confini del nostro mondo. Di conseguenza, le forme create dalla fantasia vanno prese sul serio, come ipotesi e interrogativi, perché il possibile è una dimensione del reale. Ma se questo è vero, allora emerge un secondo punto, meno teorico, che ci permette di andare oltre il problema delle definizioni: la speculative fiction ha confini labili perché proprio questa è la sfida che pone al lettore. What if?, e se accadesse una cosa inaspettata a noi o a persone che condividono il nostro senso del reale? Se le nostre nozioni sul mondo venissero contraddette da quello che percepiamo?
La narrativa di genere più tradizionale è rassicurante, perché offre un ventaglio di possibilità limitato dalle convenzioni. Anche gli scenari più spaventosi sono previsti da una certa versione delle cose di cui siamo stati informati sin dall’inizio e che ha guidato la nostra scelta. La speculative fiction invece si rivolge a lettori con una grande apertura all’esperienza, che amano trovarsi davanti all’ignoto, muniti solo delle proprie emozioni, percezioni e congetture. Non quello che ci aspettiamo ma quello che siamo pronti a sentire: questo sarebbe l’elemento distintivo della nuova cornice.
7 parole per l’estetica del fantastico
L’estetica non è semplicemente lo studio del bello, ma si occupa di come percepiamo il mondo. C’è una terra di nessuno fra emozioni, sensazioni e intuizioni che ci incuriosisce, suggestiona o magari ci mette in guardia, quando la ragione viene a mancare.
A livello di percezione, il fantastico non occupa una categoria esclusiva ma colora quella che nel complesso potremmo chiamare esperienza dello straordinario. Ne costituisce l’estremo, il massimo punto di fuga, che la maggior parte di noi non arriva mai a provare, almeno nella quotidianità. Ho radunato qui di seguito un piccolo vocabolario estetico del fantastico: 7 parole, ciascuna per una diversa esperienza dell’ignoto, di quello che viola o trascende la normalità. Sono vocaboli inglesi, perché purtroppo la riflessione italiana su questi argomenti è molto limitata, ma farò del mio meglio per tradurre anche quelli più particolari e per indicare le differenze di sfumatura nel passaggio all’equivalente italiano.
Terror
Il terrore, una paura intensa e di lunga durata. Deriva dal latino terrēo, atterrire, o terseo, cioè far tremare. È quindi una paura che amplifica i sensi e riduce a uno stato di massima tensione, di sintonizzazione con l’ambiente circostante. Ha qualcosa in comune con l’ansia, che però sembra corrispondere a un minore pericolo, e con la suspense, che tuttavia può rimanere a uno stato puramente cognitivo, come durante la lettura di un giallo. Se non riguarda noi ma un nostro caro, può essere vicina all’apprensione.
Il terrore è uno stato estremo proprio perché quello che temiamo non è davanti a nostri occhi. La sua assenza lo riproduce all’infinito. Henry James in Giro di vite scrive:
Con l’orecchio teso fino allo spasimo, immaginavo che tutto fosse possibile.[3]
La paura è tale che sfocia nell’immaginazione, ogni cenno dall’ambiente viene interpretato alla luce di quello che temiamo. Uno dei rari casi in cui prestare ascolto al mondo in realtà ci isola e ci fa perdere contatto con la realtà, perché i cinque sensi diventano un palcoscenico per il nostro deragliamento interiore. Si tenta di prevedere il peggio e così, nell’attesa, lo si avvera, in un continuo gioco al rilancio che può durare all’infinito prima che sopraggiunga l’orrore, di cui parleremo a seguire.
L’attesa angosciata del terrore ha qualcosa in comune con i brividi della trepidazione sessuale. Camille Paglia in Sexual Personae sostiene che:
L’ebbrezza del terrore è passiva, masochistica […]. È il sottomettersi nell’immaginazione a una forza superiore soverchiante. [4]
Il terrore è anche una parola del vocabolario politico, per indicare strategie di dominio basate sulla minaccia, dove la violenza ha una funzione esemplare: il Terrore della Rivoluzione francese, il fenomeno del terrorismo. La paura come strumento di dominio è un tema molto attuale e nessuna paura tiene in ostaggio quanto la paura dell’innominabile, del vago, di quello che resta ai confini dell’immaginazione.
Horror
L’orrore, una paura immediata e schiacciante. Deriva dal latino horrēo, provare orrore, e horseo, essere ruvido, irto, in riferimento agli animali che quando si spaventano rizzano il pelo. Dalla stessa etimologia deriva l’orrido, il dirupo. L’orrore è quell’emozione che ci fa rizzare i peli sulle braccia, ovvero ci riduce a uno stato di animalità primordiale. Non riusciamo a pensare, non riusciamo più a immaginare come nel terrore, e in molti casi non riusciamo neanche più a muoverci, come accade per l’attacco di panico (da cui il termine, appunto, horror panico). Di lì a poco useremo la prima scintilla di coscienza che ritorna in noi per scappare, ma nel momento siamo paralizzati come un animale puntato dai fari di un veicolo. A volte riusciamo a gridare.
La distinzione fra orrore e terrore è stata formalizzata da Ann Radcliffe, scrittrice di best seller gotici nell’Inghilterra di primo Ottocento:
Terror and Horror are so far opposite that the first expands the soul, and awakens the faculties to a high degree of life; the other contracts, freezes and nearly annihilates them.[5]
Il terrore e l’orrore sono così agli antipodi che il primo espande la percezione e riattiva le facoltà umane a un alto livello di reattività; l’altro invece le contrae, le ghiaccia e quasi le annichilisce.
L’orrore scatta quando l’inconcepibile avviene davanti a noi. Non è detto che rischiamo la vita, ma quello che vediamo sbriciola la nostra coscienza, provoca repulsione e disgusto, è parente del macabro. Suscita orrore la visione ravvicinata di un incidente stradale, ma anche i famosi jump scare dei film horror, che spesso mancano di pathos perché si verificano senza un contesto emotivo adeguato. Scopriamo così che il compito del terrore nella narrazione è, in un certo senso, quello di annunciare l’orrore e dargli un posto dedicato (quando non un senso), per fare da contrappunto a una vita in cui l’orrore non segue un’armonia estetica e può accadere in ogni momento, improvvisamente.
Uncanny
È stato scritto molto sull’uncanny, un termine sfumato e contraddittorio. Partiamo dall’etimo: deriva dall’antico scozzese canny, familiare, unito alla particella privativa un-, quindi non-familiare, non proprio o non più familiare. È un equivalente della parola tedesca su cui sono state elaborate le prime riflessioni in merito, cioè unheimlich, un- privativa unita a heimlich, domestico, con in più un’accezione di segreto, clandestino, quindi non-domestico ma anche disvelato, scoperto. A complicare ulteriormente la situazione, uncanny si traduce in italiano come perturbante; un termine che rimanda a un altro gruppo di significati. Infatti perturbante deriva dal prefisso per- più turbare, e indica qualcosa che, nell’attraversarci, getta scompiglio e scuote profondamente. Il vocabolo italiano si limita a indicare un certo effetto emotivo, mentre la natura del fenomeno è più a fuoco negli originali tedesco e inglese. Alla luce di queste considerazioni, mi sembra che una traduzione più accurata sia sinistro, che rende bene lo sfasamento e la perdita di confidenza tipici di questo stato.
Nel 1919 Freud scrive Das Unheimliche:
[…] il perturbante è ciò che doveva rimanere nascosto ma è venuto alla luce. [6]
Il presentimento di avere un doppelgänger; vedere una forma umana che non si capisce se sia viva, morta o artificiale; trovare nella propria borsa oggetti che non ci appartengono. Il perturbante suggerisce che il nostro quotidiano (corpo, casa, famiglia, abitudini ecc.) sia un inganno, operato su una grande estraneità che ogni tanto si rivela. Al contrario dell’orrore che vive nell’attimo (uno squarcio nel tempo) e del terrore che è proiettato in un futuro imminente, l’uncanny è la rivelazione di un passato eterno che continua ad agire sotto la superficie ingannevole del presente. Il senso di estraneità genera inquietudine, ma a volte può sfociare nell’assurdo e nel demenziale (ricordate i Fuccons?)
L’esempio mostrato da Freud per spiegare questa percezione è un racconto di E. T. A. Hoffmann dal titolo L’uomo della sabbia, una fiaba gotica dove si parla di automi e accecamenti edipici. Al contrario di terrore e orrore, l’uncanny ha origini prettamente letterarie, che sono state formalizzate da una scrittrice.
D’altra parte, come lo stesso Freud suggerisce, l’uncanny non evoca solamente fantasmi privati, ma anche quelle che denomina credenze primitive. Si tratta di un orizzonte animistico di vitalità diffusa che il materialismo scientifico non avrebbe mai sconfitto del tutto e che fa capolino proprio tra le mura di casa. Forse anche per questo motivo è stato il Giappone contemporaneo a regalarci alcuni tra i più suggestivi feticci del perturbante, tra cui la famosa teoria Uncanny valley dello studioso Masahiro Mori.
Weird
Questa parola, come quella che segue, resta nell’ambito dell’uncanny perché gira attorno alla bizzarria, con una differenza importante: secondo M. Fisher viene a mancare l’elemento canny: la dimensione intima e familiare lascia spazio a una curiosità per il mondo esterno.
Weird significa strano, con un retrogusto magico o sovrannaturale. Viene dall’inglese antico wyrd, termine di origine tedesca che significa destino, a sua volta ricavato da weorþan, cioè compiersi, diventare. Questo etimo tratteggia la figura di una manifestazione fatale, qualcosa di straordinario che svela la fibra della realtà.
Il weird è la percezione ravvicinata di un’anomalia, di un ente che non dovrebbe esistere, che viola le leggi della natura: il patchwork, il viaggio nel tempo, la chimera, ma anche quello che è troppo anormale per essere descritto a parole, o anche solo concepito. H. P. Lovecraft è il narratore del weird per eccellenza.
In letteratura Weird e New Weird sono declinazioni della speculative fiction che parlano di creature e fenomeni bizzarri, spesso ricombinando fra loro immaginari preesistenti. Può esserci dell’orrore in queste esperienze, ma mescolato a una sorta di attrazione mentale, perfino meraviglia. In alcuni casi il weird diventa grottesco, quando sfiora la comicità o l’erotismo. La figura emblematica del weird è il mostro, non solo come sregolamento fisico e mentale dell’uomo, ma anche nella sua accezione originale di prodigio.
L’elemento distintivo del weird sembra, per paradosso, la sua concretezza. È pervaso da un gusto scientifico, un interesse per il dato. I fenomeni straordinari non sono presagiti, intuiti o temuti da lontano come nell’uncanny o nel terrore, ma risultano nella loro evidenza e proprio per questo a volte sono indicibili. La fantasia è attiva, avventurosa, ha a che fare con l’attraversamento di una soglia piuttosto che con la coesistenza di livelli paralleli. Inoltre il weird non è mai del tutto sganciato dalla speculazione logica: anche quando i personaggi vanno nel panico, il coinvolgimento del pubblico può essere più immaginifico che drammatico, simile al tentativo di risolvere un paradosso.
Eerie
Un’altra sfumatura dell’uncanny proiettata nel mondo esterno è l’eerie, opposto al weird per la sua evanescenza e per le categorie di fenomeni che produce.
Eerie significa inquietante, misterioso. Nel dizionario inglese dei sinonimi figura accanto a parole come ghastly e haunting, che evocano fantasmi o rimanenze di altro genere, un vuoto eloquente. Deriva dal medio inglese eri, cioè pauroso, sia nel senso di terribile, sia nel senso di codardo e incline alla fuga. Dipinge in questo modo una cauta lontananza, di cui non si capisce quale estremo sia l’origine e quale invece l’effetto.
Secondo Fisher l’eerie è generato da una crisi della presenza, cioè qualcosa (anche di ordinario) dovrebbe esserci ma non c’è, oppure da una crisi dell’assenza, cioè qualcosa è presente dove non dovrebbe esserci. Non genera mostri, ma piuttosto corrispondenze occulte, la sensazione di essere immersi in un disegno, una concatenazione di eventi guidati da una volontà esterna alla nostra. Al contrario del weird è un clima suggestivo, provoca suspense, a volte paranoia. Incoraggia a porsi la domanda: cosa è successo qui? È stato provocato da qualcuno o qualcosa? Se il weird è un paradosso, l’eerie è un enigma.
[…] not all mysteries generate the eerie. There must also be a sense of alterity, a feeling that the enigma might involve forms of knowledge, subjectivity and sensation that lie beyond common experience. [7]
[…] non tutti i misteri creano l’eerie. Dev’esserci anche un senso di alterità, il presentimento che l’enigma possa coinvolgere forme di sapere, soggettività e sensazione che restano al di là dell’esperienza comune.
Il film Gli uccelli di Hitchcock mette in scena questo tipo di mistero. Possono essere eerie le sparizioni, le amnesie, oppure i ruderi di una cultura antica, se portano con sé domande sulla vera identità dei costruttori, o su quali eventi abbiano portato alla loro scomparsa. Immaginativo come il terrore, l’eerie tuttavia non presagisce l’arrivo di un pericolo. Figura invece un particolare senso del luogo e del tempo, disposti a cerchi concentrici come in un radar, dall’occhio di bue del qui-e-ora a veli su veli sempre più significativi di lontananza.
Reverie
Una delle parole più difficili da tradurre nel corso di questo viaggio estetico, reverie è di origine francese e significa sogno a occhi aperti, fantasticheria. Deriva da resverie, che può essere reso come gioia, piacere, ma anche illusione o allucinazione. Sembra proprio questo il senso originario del termine, che troviamo nell’antico francese rever, delirare, da cui deriva anche rave, il tipo di festa in cui droghe e musica provocano un distaccamento della coscienza. Da qualche parte nel corso dei secoli potrebbero essersi incrociati questo etimo e quello più antico della parola riverenza, il latino revereri, poiché in reverie permane una sfumatura gerarchica.
La reverie è un distacco dalla realtà, ma senza parossismo. Le visioni che evoca non sono prodotte da uno stato dissociativo, ma da un vagare languido e piacevole, che colora di rosa (o di mito) il proprio oggetto di immaginazione. È un termine piuttosto frequente nella poesia e nella critica poetica. Molti quadri ottocenteschi, di solito inglesi o francesi, sono intitolati Reverie, e rappresentano in genere donne con il mento sul braccio, prese da sogni a occhi aperti che a volte compaiono sullo sfondo (fate, folletti, angeli…) ma più spesso rimangono private. La fantasticheria d’amore, in cui ci figuriamo accanto al nostro partner in scenari fiabeschi e impossibili, è una reverie. Ha lo stesso nome, nella psicologia di Bion, il legame proiettivo che lega la madre all’infante, che le permette di capire in modo intuitivo le necessità emotive e sensoriali del figlio.
Anche quando il fantastico è parte di questa esperienza, non ne costituisce l’elemento fondativo. Piuttosto è un indicatore che ci muoviamo in una dimensione ideale, intimamente superiore alla quotidianità e sfumata di archetipo. Siamo in genere lontani dal terrore e dall’orrore, o dall’ambiguità dell’uncanny nelle sue diverse forme: non c’è pericolo nella contemplazione. Inoltre, la reverie si distingue da tutte le sensibilità che abbiamo analizzato finora perché non è scatenata dall’incontro casuale con un fenomeno straordinario, ma è un volo dell’immaginazione prodotto spontaneamente, un desiderio che per esaudirsi ha bisogno di concepire un mondo più vasto e perfetto.
Awe
Per ultima incontriamo una parola credo molto bella, perché come tanti vocaboli inglesi ha la capacità di evocare un significato complesso tramite il suono, con semplicità. Deriva dall’inglese antico ege, che significa terrore, di origine scandinava. Eppure notiamo che nel corso del tempo il significato della parola è cambiato, si è fatto più elusivo: da awe deriva awful (tremendo, terribile), ma anche awesome (maestoso, fantastico): entrambi significano letteralmente pieno di awe.
L’awe è una soverchiante, austera meraviglia. È ciò che si prova al cospetto di un grande potere; che sia forza, bellezza o genio, senza che questo risulti benevolo o maligno. In italiano si può rendere come timore reverenziale. Di tutte quelle che abbiamo passato in rassegna finora, è senza dubbio la percezione più verticale, più affine all’esperienza del divino. Proprio nel testo biblico la parola è stata associata a Dio, e così ha mutato significato da terribile a numinoso.
Per certi versi l’awe è imparentato con un grande assente di questo elenco, uno dei termini estetici più a lungo studiati e vicini all’incontro con il fantastico, cioè il sublime. Raccontato dallo Pseudo-Longino, poi da Burke, da Kant e molti altri, il sublime nasce per esempio da grandi spettacoli naturali che minacciano l’integrità della vita individuale e suscitano un misto di paura e bellezza. Il sublime non fa parte di questo articolo per diverse ragioni: è stato studiato così a lungo da aver preso la forma di un concetto più che di una sensazione; il gusto contemporaneo mi sembra più ricettivo a esperienze estetiche orizzontali, in cui l’individualità, anche se combattuta, rimane l’unico punto fermo; inoltre, il sublime è un’esperienza composita. In essa risiedono il rapimento e la minaccia del terrore, ma anche la contemplazione ideale della reverie. Le interazioni fra questi due poli opposti, più ogni sfumatura ulteriore, non basterebbe un articolo a renderle comprensibili.
In comune con il sublime l’awe ha la forza, ma non il senso di movimento e di potenziale caos che fa smarrire per un attimo la coscienza di sé. Al contrario l’awe ha fermezza e nitore, fa venir voglia di chinare la testa. Può originare dalla vista di certi paesaggi naturali, per esempio una montagna innevata, ma anche da opere umane come le cattedrali gotiche e in genere è suscitato da tutto ciò che è basato sulle distanze e le gerarchie. Può essere un sentimento di grande valenza politica quando emana da un leader carismatico o da imponenti strutture sociali. Anche l’awe, come il sublime, è un senso relativamente poco frequentato nella narrativa dei giorni nostri: le gerarchie angeliche nella loro gloria biblica o miltoniana sono un classico esempio di awe, ma il modo in cui viene percepito oggi un tale scenario (cfr. il meme dei Biblically accurate angels) vira decisamente verso il weird.
Conclusioni
Nel corso di questo articolo abbiamo fatto un viaggio, per così dire, dall’inferno al paradiso dell’esperienza straordinaria: dalla percezione di quello che può distruggerci a quello che rende il mondo più ampio, fino a un potere e un ordine che quasi coincide per intensità con il proprio opposto.
Si noti come allo straordinario negativo corrisponda un vissuto spesso banale e concreto (incidenti, pericoli della vita ordinaria) mentre sensazioni più ambigue o addirittura positive siano accadimenti rari e inusuali che, quando si verificano, annunciano più di frequente un contatto con il fantastico o almeno con l’irreale. Siamo più abituati a immaginarci messi in pericolo dall’ignoto, mentre facciamo molta più fatica a pensare che ci possa divertire, lenire o salvare.
È interessante che terrore e orrore siano le uniche parole derivate dal latino, mentre i vocaboli più nettamente fantastici hanno avuto origine a nord dell’Italia, nel mondo pagano e medievale. Questo deriva senza dubbio dalla scelta dell’inglese come lingua di analisi per il progetto, ma mostra anche come l’estetica del fantastico nelle lingue europee abbia preso strade diverse. L’italiano ha le sue parole per articolare lo straordinario (perturbante, misterioso, strano, bizzarro) ma la preponderanza del gusto fantastico nelle culture nordeuropee fa sì che anche le loro parole influiscano di più sulla sensibilità contemporanea, producendo un maggior numero di esempi e di ricerche in merito.
Infine vale la pena di esplorare il vicinato, notare quali campi dell’agire e del sapere umano hanno una maggiore familiarità con l’estetica del fantastico. A volte si sconfina nella religione, a volte nella politica, più spesso nella psicologia, tuttavia in Occidente le arti e la narrativa rimangono incontrastate nel parlare dello straordinario, forse perché possono produrre significato senza dipendere dalla realtà dei fatti. Ricordiamo che la parola fiction deriva dal latino fingere, cioè plasmare, inventare, contraffare. Se la creazione inizia con una bugia, allora si può dire che tutta la fiction è speculativa.
[1] R.A. Heinlein & V. Heinlein, Grumbles from Grave, 1990.
[2] P. L. Thomas, Science Fiction and Speculative Fiction: Challenging Genres, 2013.
[3] H. James, Giro di vite, 1898.
[4] C. Paglia, Sexual personae, 1990.
[5] A. Radcliffe, On the Supernatural in Poetry, 1826.
[6] S. Freud, Das Unheimliche, 1919.
[7] M. Fisher, The Weird and the Eerie, 2016.
Per il significato delle parole si ringraziano:
Dizionari/Corriere della sera, Etimo.it, Etimo italiano, Etymonline, The free dictionary, Una parola al giorno, Wikipedia, Wikitionary, Wordreference.
L’autore
Celeste Sidoti scrive storie in gran parte inventate. Dopo il liceo classico ha trascorso gli anni universitari a Venezia, Tokyo, e infine Torino, dove risiede tuttora. Ha pubblicato con MdS editore ed è stato finalista al premio 150 strade. “7 storie sugli Altri”, la sua prima raccolta di racconti, è stato giudicato degno di pirateria, ed è salito più volte ai primi posti nelle sezioni Racconti e Narrativa gotica di Amazon. Newsletter.
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