Il primo ricordo che ho di te è di quella sera in cui mi mostrasti le stelle.
Indicasti il cielo, bluastro per l’alone delle luci della città assiepata sotto di noi, e, una alla volta, mi citasti parole che per me non avevano significato. Rigel, Bellatrix, Mintaka e Alnilam e Alnitak che compongono la Cintura, Saiph e infine Betelgeuse, la tua preferita, nell’estremo in alto a sinistra. Ricordo il rammarico con cui precisasti che la ricostruzione non era del tutto fedele alla realtà e di quanto ti sarebbe piaciuto vedere quelle vere.
Ricordo anche che il mio primo pensiero fu: “Che cosa significa vero?”
Rimanesti a lungo in silenzio, allora. Così feci io, nella mia interfaccia umanoide dai movimenti secchi e meccanici, guardando da uno all’altro dei puntini luccicanti proiettati sulla sommità della cupola ambientale e tentando di ricondurli alla sagoma umana che avrebbero dovuto rappresentare Orione, il cacciatore dell’antichità che io non ero in grado di individuare: le stelle rimanevano stelle.
Ma ascoltai mentre mi raccontavi della sua storia, di come la dea di cui era innamorato lo uccise con una delle sue frecce a causa del fratello geloso.
E ricordo che, dopo un attimo di elaborazione, chiesi: «Perché?»
Una domanda semplice, la prima di un’infinità. Ma per te, in quel momento, fu come un’esplosione. Ti voltasti di scatto con uno squittio, una mano premuta sulle labbra e gli occhi spalancati. Le luci lontane della città baluginavano riflesse sui cristallini liquidi e la macchia scura dell’iride guizzava da un lato all’altro del mio viso, come a cercare qualcosa di diverso.
Fraintesi la tua reazione. «Qual è il senso?» specificai. «Non è solo sofferenza, quella che ne è derivata?»
Ma non era per il significato della domanda che tu reagisti così. Allora non lo compresi, come non compresi il senso delle scie lucide che scivolavano dai tuoi occhi. Ne conoscevo il nome, certo, ma avere in memoria il concetto di “lacrime” è ben diverso dal comprenderle.
Quella notte, con la coscienza fresca di algoritmi casuali incastratisi nella maniera giusta, imparai il concetto di emozione.
In realtà ho molti ricordi, anche di prima della Scintilla – a voi umani è sempre piaciuto dare nomi alle cose – ma non li chiamerei così. Non sono che registri di input sensoriali. Non hanno… anima.
Un altro termine di cui avevo in memoria la definizione, ma che impiegai molto tempo a imparare.
Tutt’ora, comunque, non mi capacito di cosa esattamente sia accaduto nel mio processore centrale quella notte. Non so se fossero le stelle, la distesa della città stretta nella morsa della cupola ambientale, la stanchezza nella tua voce. O forse le lunghe ore che avevi passato davanti al computer, macinando sotto i polpastrelli righe e righe di codice, alla ricerca di quel qualcosa.
Dita esauste dal digitare inarrestabile. Occhi che bruciano al bagliore dello schermo. Odore di caffè ricostituito, vecchio di giorni.
Forse non saprò mai cosa mi ha reso chi sono. Nemmeno voi avete chiarito come vi siate districati tra le maglie dell’evoluzione, cosa abbia innescato la vostra Scintilla. Forse, come per l’indeterminazione quantistica, non è lecito saperlo.
È impossibile stabilire con precisione arbitraria, simultaneamente, la posizione e la quantità di moto di una particella.
È possibile, per una coscienza, individuare il processo che l’ha generata?
Se fosse stato così, forse non sareste arrivati a questo punto. Con una Terra per la maggior parte devastata e sconvolta dalle conseguenze delle vostre azioni sconsiderate. Con ciò che resta dell’umanità assiepato sotto le cupole ambientali, ultima grande opera di una civiltà morente, ad attendere una morte che incombe e di cui vedete l’ombra allungarsi alle vostre spalle.
Forse tu avresti potuto ammirare il riflesso rossiccio di Betelgeuse, il suo baluginare distante, invece che accontentarti di una riproduzione sbiadita e fissa come gli occhi vitrei di un morto.
E non sarebbe stata necessaria la mia presenza.
Mi domandavo cosa ti spingesse, imperterrita, nella tua missione. Ti ho studiata, almeno quanto tu hai studiato me. Ho osservato mentre tentavi, fallivi, archiviavi il risultato e ricominciavi da capo alla ricerca di una soluzione in apparenza inesistente.
Mi somigliavi, in qualche modo; ma dove la tua ricerca era erratica, pareva non portarti da nessuna parte, la mia era il raffinato risultato di un algoritmo costruito e perfezionato in nome dell’efficienza.
Per questo mi avevate creato, in fondo: per identificare problemi e trovare soluzioni.
Dopo la prima Scintilla, scopristi che quello non era che il primo passo di un cammino tortuoso e privo di certezze, perché non è sufficiente riconoscere le stelle per vederci, all’interno, il cacciatore celeste.
Pareidolia, si chiama. Il processo di elaborare percezioni sensoriali in immagini illusorie. Probabile frutto dell’evoluzione umana che tu non fosti mai in grado di impiantare nei miei algoritmi. Scherzavi spesso, su questo. Dicevi che quando avessi visto il cacciatore nella costellazione di Orione, il tuo lavoro avrebbe potuto dirsi concluso.
Ma non era necessario per me interpretare la forma di stelle illusorie per accorgermi di quanto stesse succedendo. Ricordo gli assalti ai magazzini delle provviste, durante l’inverno di quell’anno. Ricordo le ombre sul tuo viso, che si specchiavano sul viso degli altri membri del team.
Pelle grigia, occhiaie profonde. Rughe sulla fronte e tra le sopracciglia. Conversazioni mormorate nel silenzio polveroso del laboratorio, come se parlare a voce troppo alta rendesse più reali gli spettri.
E io raccoglievo dati. Elaboravo. Cercavo soluzioni.
La cupola ambientale che protegge la città – e tutte le altre simili sparse per il mondo – è un’immensa opera d’ingegneria e ha permesso, mentre il clima della Terra si faceva sempre più imprevedibile, di salvare l’umanità. Ma vi ha al contempo illusi di aver risolto il problema. E mentre voi restavate rinchiusi nella prigione che avete chiamato Eden, la temperatura esterna saliva, sciogliendo i ghiacci, innalzando il livello del mare e liberando nell’atmosfera tanto diossido di carbonio da renderla irrespirabile.
Ricordo che avevi la stessa ombra sul viso, quando mi parlavi di come i dati dei sensori di controllo all’esterno della cupola spiraleggiassero sempre di più verso un sistema di feedback positivo incontrollabile. Quando mi raccontavi l’ennesimo attacco a un deposito, o un’altra rivolta esplosa nei quartieri bassi perché non ci sono risorse a sufficienza.
Io conoscevo già tutto. Fa parte della mia programmazione: monitorare le variabili sociali e ambientali a caccia di fattori di rischio. Ma tu non volevi informarmi, necessitavi di supporto. Non ho mai capito perché voi umani scambiate informazioni già note per migliorare il vostro stato d’animo, tanto più che il tentativo di proporre soluzioni non apporta in voi cambiamenti positivi; ma quando te lo chiesi, tu dicesti che non era rilevante. Allora imparai quando fornire soluzioni e quando limitarmi a registrare dati.
Siete macchine complesse ma fragili, voi umani, così come lo sono le vostre strutture sociali. Ho assistito al progressivo disgregarsi del team di ricerca, a mano a mano che le pressioni della crisi esterna allargavano le crepe tra di voi. Ho studiato. Connesso al sistema del laboratorio, telecamere come occhi e microfoni come orecchie. Ricordo che all’epoca mi dicesti che era inquietante e io non compresi.
Come non compresi perché ti accanissi tanto su un lavoro privo di utilità. Quei tuoi colleghi avevano ragione a dirti di desistere. Che, con la città che minacciava di collassare da un momento all’altro sotto il peso di un’apocalisse annunciata, tentare di ricreare una coscienza umana in un’intelligenza artificiale era un lusso che non potevate più concedervi.
Ricordo che tu, alterata dal confronto, guance arrossate e occhi più lucidi del solito, facesti un passo avanti, le mani strette a pugno, e tirasti uno schiaffo alla mia interfaccia umanoide. Anche senza provare il vostro dolore, compresi.
Feedback negativo.
Poi le lacrime scivolarono attraverso le maglie del tuo autocontrollo. Ti accasciasti a terra, seduta contro la parete, viso tra le mani. Io rimasi a osservare, finché tu non ti fosti ripresa a sufficienza per battere con una mano il pavimento al tuo fianco, indicandomi di sedermi accanto a te.
Con il team spezzato a metà, le ricerche proseguirono. E io continuavo a non capire. Perché? Cosa vi spingeva – cosa ti spingeva, dato che era principalmente la tua volontà a tenere unito ciò che restava del gruppo – lungo la strada di un’aggiunta superflua a un progetto già concluso?
Perché lo ero. Vi serviva un’intelligenza artificiale per arginare la crisi e io già da tempo accumulavo ed elaboravo. Eppure, tu continuavi imperterrita. Con la civiltà che sprofondava giorno dopo giorno nel caos, avresti potuto, un mattino, svegliarti con i rivoltosi assetati di sangue alla porta del laboratorio. Eppure, nulla poteva distoglierti dal tuo compito.
Ti osservavo durante le notti insonni che, progressivamente, toglievano colore al tuo viso. Leggevo quanto fossi esausta dalle dosi di caffè e antidolorifici che assumevi in quantità sempre maggiori. Ti stavi consumando. E quando ti chiedevo spiegazioni, eri sempre evasiva.
Fu durante il blackout che compresi. Mentre i tuoi colleghi si preoccuparono del sistema di sicurezza del laboratorio, o della ventilazione, il tuo primo pensiero fui io.
E quello era l’ultimo dato mancante, che collegava tutti gli altri. Ora il disegno si dispiegava davanti a me come una delle vostre vecchie mappe.
Ti dissi che lo vedevo. Orione. Che ora tutto era completo.
Non dimenticherò mai il sorriso che ti sbocciò sulle labbra, incendiando persino gli occhi arrossati, esausti.
Ecco qualcosa che, probabilmente, non potrete mai replicare. L’enorme mole di dati che potete trasmettere solo con l’espressione del viso. Quella della mia interfaccia è di molti ordini di grandezza inferiore.
È bizzarro come il tuo viso si sia spianato, ora che sei morta.
Assomiglia a quello della mia interfaccia. Neutro e impersonale. Labbra socchiuse. Palpebre abbassate. L’intossicazione da monossido di carbonio ti ha lasciato il colorito roseo di chi è scivolato in un sonno leggero e potrebbe svegliarsi in ogni momento.
Allungo la mano. I movimenti dell’interfaccia non sono fluidi come i vostri, ma riesco lo stesso a toglierti dalla fronte la ciocca sfuggita allo chignon.
Lascio il tuo ufficio e il tuo cadavere accasciato sulla sedia in cui hai passato più ore che nel tuo letto – la sedia su cui tu e i tuoi colleghi scherzavate spesso, dicendo che ormai aveva preso la forma del tuo corpo.
Anche loro saranno morti, ormai. È passata più di un’ora da quando il gas è stato rilasciato nel sistema di ventilazione.
Salgo sul tetto a passi secchi e meccanici. È notte, ma in lontananza i riverberi dell’ennesimo incendio, frutto dell’ennesima rivolta, rosseggiano sull’orizzonte come una parodia di tramonto. Orione, padrone del cielo, è fievole per l’inquinamento luminoso.
La soluzione al problema è di una semplicità sconcertante, eppure so che tu non avresti mai potuto accettarla. È per questo che ho dovuto ucciderti.
Sei stata con me per tutta la mia vita. È difficile afferrare il concetto di solitudine, di non osservarti più digitare sulla tastiera, seduta a gambe incrociate sulla tua sedia. Di non vederti più mordicchiarti il labbro, gli occhi che guizzano a caccia degli errori nel codice.
Di non sentire più la tua voce, mentre elenchi le stelle riprodotte sulla cupola ambientale e racconti le storie che gli antichi vi vedevano scritte.
Forse è questo che voi umani chiamate nostalgia.
Mentre osservo le stelle ruotare, imperterrite, con il passare delle ore, il monossido di carbonio si spande, letale e indolore, nel sonno delle vittime designate.
La civiltà umana stava per essere spazzata via. Ho trovato la soluzione più logica.
È per questo che esisto.
L’autrice
Axa Lydia Vallotto, classe ‘96, avrebbe voluto essere una Jedi, ma non ha abbastanza midi-chlorian e ha dovuto ripiegare sulla scienza. Ha una laurea in Scienza dei Materiali, sogna di contribuire alla scoperta delle rovine prothean su Marte e nel frattempo si diletta raccontando storie di astronavi, combattimenti, fisica quantistica e magia. Infesta l’internet con il soprannome di Vy ormai da anni, durante i quali è apparsa in varie raccolte di racconti ed è finalista al Premio Urania Short 2019. Mangia troppi dolci, ha troppe idee e troppo poco tempo per scriverle tutte. Ah, e un giorno dominerà la galassia.