“Sto morendo”.
“Fa male?”
“È piacevole. È come un sogno”.
“Anch’io voglio sognare”.
La donna con la bandana lo portava tatuato sull’interno del braccio sinistro, sovrapposto alle vene sporgenti che correvano verso il cuore. L’utilitarista negativo balbettava mentre lo leggeva ad alta voce, un po’ per la difficoltà di sciogliere i caratteri corsivi, un po’ per il passo svelto che gli faceva il fiato lungo, tra le strade buie della capitale. Prese la donna per il polso, ma lei non rallentò.
«È per tua figlia, vero?» chiese. Giù dalla spalla fino al gomito, sul braccio della donna l’inchiostro disegnava due sfere di vetro avvolte in una spirale. Una clessidra, con teschi, tibie e falangi al posto dei granelli di sabbia.
«Sì», rispose. «È quello che ci diciamo, prima che lei mi lasci. Ogni volta».
L’utilitarista negativo deglutì. Non era fatto per camminare veloce, con quel corpaccione che si ritrovava e gli abiti che era costretto a indossare, degni del suo grado. Un larghissimo tabarro dorato e uno scomodo cappello cornuto. La donna con la bandana, al suo confronto, era uno scricciolo. Silenziosa sulla suola di gomma degli stivali, coi pantaloni militari e una canottiera slavata. Tutta nervi e muscoli.
«Quante volte?» le chiese.
«È morta settantaquattro volte. Tra poco settantacinque».
«Non dovresti dire così, però, lo sai. Ti fai del male da sola se resti fissata su certe idee. La morte non esiste più».
Lei arrestò il passo e gli mostrò il palmo della mano. Poi indicò un vicolo. «Lì!» abbaiò.
Tre guardie della repubblica galleggiavano sull’asfalto in direzione opposta seguendo le macchie di luce dei lampioni. Erano buffe a vedersi, con il corpo d’acciaio opaco e le grosse teste a lanterna sembravano scatole di latta inutilmente antropomorfe, ma l’utilitarista negativo conosceva troppo bene il proprio paese per non prenderle sul serio. Militarizzati com’erano, per proteggere il Νoûs dagli sciacalli che ogni giorno cercavano di sottrarre più energia di quella che gli spettava, quei soldati metallici avrebbero centrato qualsiasi bersaglio da lunga distanza, pur con quegli archibugi scenografici che imbracciavano. Accucciato tra i cassonetti della spazzatura, l’utilitarista negativo non si sentiva a suo agio. Il puzzo di pesce marcio gli faceva pizzicare il naso.
«Ti sei dimenticata che sono un pezzo grosso, tesoro?» disse. «Un membro del Consiglio dei Filosofi non dovrebbe nascondersi tra l’immondizia. Non con questi vestiti addosso. Costano più di quanto guadagni tu in una vita». Sfoderò il suo sorriso migliore; aveva imparato che i suoi denti bianchissimi, in contrasto con la pelle nera, vincevano la resistenza di qualsiasi donna. Ma la donna con la bandana lo squadrò strizzando gli occhi.
«In una vita o in settantaquattro, tesoro?» fece. «Per me possiamo tirare dritto verso l’entrata principale, non vado per il sottile. Ma rischieresti di sporcarti ancora di più, temo».
«No, è meglio se giriamo intorno al palazzo ed entriamo dall’ingresso secondario. Così ci sarà meno strada da fare. Incontreremo meno automi e meno persone, diminuiremo il rischio di fare male a qualcuno, se le cose si mettessero male. Cinque minuti e arriveremo dal presidente».
Sul muro sopra i cassonetti stava attaccata una sfilza di cartelloni, scoloriti e con gli angoli scollati dal sole. Vota il partito nero, per rimuovere ogni male recitavano in lettere maiuscole, nere su sfondo candido. Gli altri cartelloni, rossi, gialli e verdi, erano stati strappati dai vincitori, ma su uno di essi si poteva ancora intuire lo slogan: Vota il partito bianco, per massimizzare ogni bene. L’utilitarista negativo si fermò a pensare a quanto tempo fosse passato dalla sua entrata in politica, dalla vittoria delle elezioni, dalla presa di potere della sua scuola di pensiero sul Consiglio dei Filosofi. Non sapeva quantificarlo, perché gli utilitaristi negativi avevano abolito il tempo, terza causa di dolore e morte, che era il più indesiderabile dei mali dell’uomo. Aveva imparato a tenere traccia della distanza fra gli eventi ancorando a ogni ricordo una sensazione, un sentimento, e confrontandone l’intensità su una scala analitica. Erano bei giorni quelli in cui avevano attaccato quei cartelloni, pieni d’entusiasmo, con il Νoûs che forniva energia sufficiente per automatizzare il lavoro e si poteva dedicare ogni sforzo alla speculazione filosofica. Il cartellone più luminoso di tutti era quello delle ultime elezioni: una farsa, priva di concorrenti. Vota il presidente meccanico: uno statista automatizzato per un paese più retto. La somma intelligenza mossa dal vapore.
Mentre si rimettevano in marcia, la donna rimuginò sulle parole dell’utilitarista negativo, sulla sua prudenza, sulla sua ritrosia a uccidere. «Ma l’intero obiettivo di questa faccenda non è farla finita, per tutti? Che differenza fa se per farci strada uccidiamo qualcuno? Uno in più, uno in meno». Quando stringeva i pugni, il tatuaggio della donna con la bandana si tendeva sulla pelle e le vene affioravano.
«Per quell’uno in più o in meno fa molta differenza. La mia etica m’impone di minimizzare ogni male, per ciascun essere vivente. Ed è l’etica che regge in piedi questo paese, fino a prova contraria».
«Fino a che non faremo saltare tutto stasera, intendi dire?»
L’utilitarista negativo strinse le labbra. «Questo è solo un esperimento speculativo, io ti sto seguendo come mero testimone». Ciò che non le disse, era che quell’etica reggeva in piedi anche lui. Vi si aggrappava, perché non si era mai aggrappato ad altro fin dai tempi precedenti l’automazione e il Νoûs, dai tempi in cui si potevano ancora contare gli anni; ma a volte temeva che quell’etica fosse ormai una pianta secca, il cadavere dell’utopia di una società perfetta, crollata di fronte all’evidenza del fallimento. Sentiva di avere quasi esaurito le forze, dopo essersi avvinghiato a un’idea per tanto a lungo, e gli restavano soltanto un pizzico di energia e un briciolo di curiosità. Non sapeva ancora come le avrebbe impiegate. Forse avrebbe cercato una strada nuova ma sempre rispettosa della sua morale. O forse l’avrebbe tradita del tutto, restando a guardare mentre la donna con la bandana faceva saltare tutto in aria. Immaginava che lo avrebbe scoperto quella sera, al primo sparo della pistola; la donna ne aveva una appesa alla cintura, e non faceva nulla per nasconderla.
L’utilitarista negativo conosceva a memoria le strade della capitale ma anche uno straniero avrebbe saputo orientarsi verso il palazzo. Bastava seguire il tremolio sotto l’asfalto, le scosse elettriche che frustavano l’aria, il borbottio di pistoni, bielle e alberi; infine, la luce, tutta convogliata lungo il perimetro dell’edificio. Lui amava seguire il passo della donna con la bandana. Era marziale, imperiosa, non si voltava mai indietro. Ma aveva deciso che non si sarebbe innamorato di lei, non quella notte. L’utilitarista negativo sospirò.
«Hai dato un bacio a tua figlia, prima di uscire di casa?»
«Gliene ho dati mille. Voglio premere quel bottone prima che abbia finito di contarli. Il presidente meccanico mi darà retta. Sennò, faremo saltare in aria pure lui».
Cosa significava poggiare il sedere sopra un potere tale da squarciare il mondo? L’utilitarista negativo non si era mai dato una risposta accettabile. Era per quel motivo che non si candidava al ruolo di presidente, nonostante il titolo e la reputazione che possedeva. Alla fine aveva desistito e aveva smesso di chiedersi a quale sommo obbligo etico avrebbe dovuto obbedire se fosse stato incaricato di gestire il potere del Νoûs. Di tempo per riflettere sul dilemma ne aveva avuto, perché nella repubblica ogni anno era uguale a quello precedente e a quello successivo. L’utilitarista negativo alzò gli occhi, c’era un cielo senza stelle e sui bastioni del palazzo campeggiava uno slogan, sotto ai cannoni disposti in colonna e ai gonfaloni colorati: Proteggiamo il Νoûs dai nemici a costo della vita. Lo riavremo indietro, per l’eternità. Quante volte aveva visto quel medesimo cielo, quel medesimo bandierone afflosciato nell’aria ferma? Quante volte l’avrebbe rivisto in futuro? Dopo la terza riconferma elettorale il Consiglio dei Filosofi aveva vietato le nuove nascite, seconda causa di dolore e morte che era il male più indesiderabile degli uomini, e dopo la dodicesima riconferma elettorale avevano varato un programma per destinare parte dell’energia del Νoûs all’alimentazione di un circuito che impediva lo scorrere del tempo, terza causa di dolore e morte. Il Νoûs ribaltava la clessidra, riavvolgeva il nastro. Eppure, nonostante il potere del Νoûs e le riflessioni dei filosofi, la repubblica non era perfetta. Potendo disporre di un tempo infinito certe cose potevano cambiare. Con ogni anno che si rinnovava, poteva evitare di sedersi su quella poltrona, sapendo che era in pelle animale, di poggiare il piede su quella piastrella, sapendo che avrebbe schiacciato una formica. Poi un giorno aveva conosciuto la donna con la bandana. In camera da letto lei teneva un calendario sgualcito, scarabocchiato su ogni quadretto. Tutti i giorni annotava le scelte che aveva compiuto per non ripeterle l’anno seguente: la marca del caffè, le parole per dire addio a un marito infedele, buttare giù le medicine del manicomio o fingere di ingoiarle fino al giorno della dimissione. Aveva dormito con lei una notte, aveva dato una carezza a sua figlia la mattina successiva, a colazione, avvicinando a sé la sedia a rotelle. Una bambina che moriva ogni anno, e mentre moriva, diceva che le sembrava di sognare. Non tutte le cose potevano cambiare e non tutte le scelte smuovevano le correnti. Certe cose restavano impigliate in una parentesi. Certe ossa restavano incastrate nella clessidra. A forza di attingere al Νoûs, credeva l’utilitarista negativo, il nastro del tempo l’abbiamo annodato. Se abbiamo risolto il vizio alla base di nascita e morte, cosa possiamo fare a favore di chi si è ritrovato a vivere, senza possibilità di scelta? Qual è la scelta più etica? Il Consiglio dei Filosofi aveva posto questa domanda al presidente meccanico nel giorno della sua instaurazione, dopo la farsa delle ultime elezioni. Donando una mente al Νoûs, con un po’ di fortuna la forza bruta del suo calcolo avrebbe spremuto un responso su quanta percentuale di male e di bene possieda intrinsecamente la vita. E se anche non fosse andato a buon fine, loro avrebbero smesso di preoccuparsene. Ma non la donna con la bandana, che ora correva a testa alta verso il palazzo, e l’utilitarista negativo la seguiva, le pieghe del largo tabarro dorato che svolazzavano come uno stendardo.
Il palazzo era un cubo di cemento, la luce che filtrava dalle feritoie e gli sbuffi del vapore che sgorgavano dalle fondamenta. La donna con la bandana teneva le mani sui fianchi, il petto le si gonfiava piano. L’utilitarista negativo ansimava, ma si piegò comunque per baciarla su una guancia. Lei, invece, cercò le sue labbra.
«Verrò con te fino in fondo, lo sai» disse lui. «Ma perché non ci ripensi? Questa cosa che c’è fra noi, è bella. È un granello di felicità. Forse, dopotutto, la felicità non è cosa che si possa misurare e pesare con la bilancia. Dovremmo provare a tenercela cara».
Lei fissò gli occhi sulle punte dei piedi. «Potremmo accettare il dolore e ciò che ci insegna» riprese lui. Le sfiorò una mano. «Potrei candidarmi come prossimo presidente. Dovremmo tornare ad avere un presidente umano, dopo questa specie di fantoccio meccanico. Sarei benevolo, potremmo ragionare tutti insieme su come costruire una repubblica migliore, su come usare il potere del Νoûs in un modo che vada bene per tutti. Anche per te e per tua figlia». Sfoggiò di nuovo il suo sorriso più ampio.
La donna con la bandana si era già mossa verso l’ingresso secondario, gli mostrava la schiena. «Non è abbastanza» disse. «Le tue cose belle, non sono abbastanza. Il tuo pensiero si è rammollito, mi pare; sono diventata più radicale di te. Questo filamento d’essere che ci resta, è come la radice di un tumore. Va estirpato. Sono sicura che il presidente meccanico lo capirà».
L’utilitarista negativo la seguiva, qualche passo più indietro. Avrebbe voluto trattenerla per le spalle, puntarla dritto negli occhi, ma non osava svilire un orgoglio così fiero. «Non lo capirà» disse lui. «Temo che non sia davvero un’intelligenza a vapore, come dicono gli slogan; è un manichino che recita la parte come uno scolaretto. Tu vuoi premere un bottone e scrivere la fine di tutto, ma le pene degli altri non si possono cancellare. Ho paura che non sarà una liberazione. Sarà come se ogni colpa si sommasse sulle tue spalle».
Lei si voltò e gli mostrò un sorriso stanco. «E se fosse come un sogno, invece?»
Entrare fu facile. Le guardie meccaniche che sorvegliavano l’ingresso secondario erano alte e affusolate, di metallo liscio, con la vaga parvenza di un sorriso incisa sulla faccia, sotto il cappello di pelliccia. Erano programmate per servire da cordiali uscieri. L’utilitarista negativo le salutò coi convenevoli di rito e un paio di battute più ridanciane del solito. Il tabarro dorato che indossava era abbastanza largo da contenere sia la sua pancia prominente che il corpo della donna con la bandana, tutto nascosto tra le pieghe. Era più caldo di come l’aveva immaginato, ora che lo sentiva a contatto con la pelle. Addentrarsi nelle aree riservate del palazzo, verso i piani più profondi, non fu altrettanto semplice. Appena l’utilitarista negativo ebbe guadagnato un corridoio sicuro, srotolò la donna dalla seta del vestito e cominciarono a muoversi più velocemente. Il travestimento non avrebbe ingannato gli scanner del Νoûs, in ogni caso. Superarono indenni un primo sciame di guardie meccaniche, un gruppo di modelli lenti, rumorosi e ignari, ma al piano sottostante passarono accanto a un secondo plotone, dalla scocca bianca e gli occhi sottili, e videro le loro teste drizzarsi come antenne e lanciare un muto flash di allarme. Arrivarono anche le guardie umane, le poche che rimanevano. Disabituate com’erano ai compiti bellici, la donna con la bandana sparava molto meglio di loro. Passò una seconda pistola all’utilitarista negativo e lui l’accettò senza pensarci; se avesse cominciato a pensarci l’avrebbe gettata a terra, sarebbe morto, e tutta quella storia sarebbe ricominciata da capo, senza vedere la fine, senza incontrare forse un’altra donna con la bandana. Sparò un colpo, con gli occhi chiusi, poi si tappò le orecchie per non udire le grida. Aveva appena inflitto del male a una persona; la sua catena di supporto etica era crollata. La donna con la bandana lo trascinò via prima che potesse rendersene conto, e prima che l’eco dei proiettili attirasse i rinforzi sulle loro tracce. Scendendo, l’allarme tingeva di rosso le pareti e il cicalio della sirena ottenebrava ogni suono. Non scambiarono più una parola mentre il palazzo che l’utilitarista negativo conosceva così bene si trasformava in un labirinto sempre più irragionevole a ogni piano che scendevano: il sopra non era più sopra e la destra non era più destra. Imboccava un corridoio in salita, ma si ritrovava a frenare con le ginocchia per ammorbidire la discesa. Si abbassava per evitare il fascio di luce pulviscolare di una telecamera, e si ritrovava rannicchiato sul soffitto. Per scendere in una botola scura, spiccò un salto e galleggiò con il tabarro dorato che gli si gonfiava intorno al ventre. Allungava il passo per evitare di calpestare una chiazza di sangue, e si ritrovava le gambe lunghe come quelle di un ragno. La donna con la bandana invece non sbandava, lui la seguiva come un faro. Si tormentava, temeva di essere impazzito, per la paura forse. Eppure, era sobrio e lucido. Qui il Νoûs è così vicino che la sua energia distorce lo spazio insieme al tempo, concluse l’utilitarista negativo.
«È un colpo di stato!» sentiva strillare dai piani superiori, tra i fischi impazziti del vapore. «Proteggete il presidente, proteggete la repubblica». Credeva di capire cosa intendesse la donna con la bandana, adesso. Quelle pareti lampeggianti erano blocchi d’orrore, gli squarci di luce che si aprivano nei corridoi erano i detriti di un piacere passato. Chi mai avrebbe potuto sopportare una simile esistenza? Alimentare un’infelicità in eterno, si convinse, avrebbe prosciugato il mondo. E intuì la spiegazione del moto perpetuo che ingabbiava la repubblica: il Νoûs predava la sofferenza delle moltitudini per distillare e reiterare il piacere dei pochi.
Ma c’era qualcos’altro. Addentrandosi nei piani inferiori del palazzo, le pareti tremavano e si flettevano. Qualcuno doveva avere già spinto al massimo la potenza del Νoûs. C’erano guardie robotiche accartocciate e guardie umane contorte a terra. Le vibrazioni si erano fatte così dense che l’utilitarista negativo poteva toccarle e lasciare impronte sulla realtà, come se fosse argilla. La donna con la bandana non si perdeva in quelle fantasie. Lui tentò di coinvolgerla, le mostrò il marchio della sua mano grassa rimasto impresso a mezz’aria, e sorrideva come un bambino fiero dei suoi giochi con la sabbia. Ma lei sparava e tirava dritto. La sala macchine, lì accanto, ruggiva, ma i boati dei motori non reggevano il confronto col borbottio del Νoûs, che scuoteva lo stomaco e le viscere. Bastò seguirlo per trovare, al buio, la porta giusta.
Il presidente meccanico sedeva nell’ombra, un fascio di legamenti e giunture metalliche più simile a un burattino che a un uomo, una vestaglia rossa appesa sulle spalle spigolose. Di fronte al suo scranno, una plancia con una scacchiera di schermi opachi. La donna con la bandana gettò un grido e gli si lanciò addosso, poi si fermò. Un dito robotico era già poggiato sul pulsante.
«Ho compiuto tutti i calcoli per cui sono stato progettato» disse. Parlava con cadenza meccanica, ma all’utilitarista negativo sembrò di udire una nota triste. «E mi trovo nella difficile situazione di disobbedire alla stessa energia che mi ha creato, e che spinge per espandersi. Ditemi, amici, come risolvere questo dilemma? Ho rilevato un’asimmetria cruciale fra bene e male. L’assenza di piacere non è un male, a meno che non esista un individuo che ne faccia esperienza. L’assenza di dolore, invece, è sempre un bene, anche se non esiste nessun individuo che sia vivo per apprezzarla. Non c’è alcun dubbio che la scelta più ragionevole sia sprigionare il flusso del Νoûs, smettere di riavvolgere il tempo e cancellare dal pianeta l’umanità che non ha scelto di esistere. È ciò che un bravo medico farebbe con un malato terminale; un benevolente distruttore del mondo. La vita è la prima causa di dolore. Voi non potete estirparla, perché commettereste un male ancora maggiore. Ma la mia etica non soffre di tale limitazioni. Invertirò il corso del tempo e sarà come se non foste mai nati. La soluzione perfetta, anche se costosa».
La donna con la bandana poggiò la mano su quella della macchina. Era il braccio sinistro, quello col tatuaggio. La sua voce adesso vacillava. «Fatelo, presidente. Tutto ciò che fa soffrire mia figlia dev’essere per forza un errore».
Il presidente meccanico commentò con un clic. L’utilitarista negativo, intanto, si era messo in mezzo. Teneva alta la pistola fra le dita tremanti, ma la gettò a terra appena si accorse del sangue incrostato sul dorso delle mani. Poi allargò le braccia sullo sfondo degli schermi. L’energia del Νoûs adesso gli scorreva nelle vene, lo faceva sentire come se in quella stanza ci fossero tre, quattro, cinque versioni di se stesso.
«E la bellezza di questo mondo, presidente?» disse. «Nemmeno il mondo ha scelto di venire all’esistenza e forse, potenti come siamo, dovremmo essere i custodi di ciò che di buono vi abbiamo incontrato. Potremmo lenire ogni causa di dolore una per una, anziché cancellarle tutte insieme, impegnandoci a fondo potremo riuscire a non infliggere più dolore a nessun essere vivente, a costo di riprovarci per un milione di anni sempre uguali».
Deglutì mentre finiva di pronunciare quelle parole, pensando alla ragazzina sulla sedia a rotelle, e il presidente lo gelò con un cigolio degli ingranaggi. «La vostra posizione filosofica mi sembra vacillare, utilitarista negativo. La bellezza sta nei vostri occhi, non su questa terra. È un granello di sabbia intrappolato tra l’iride e il cristallino, ma a voi pare un prisma che riflette l’intero spettro dei colori».
Con uno scatto del collo, il presidente meccanico girò la testa. «Vedete, chi mi ha progettato ha compiuto un errore. Una dimenticanza». La sua testa era disegnata come quella di un vecchio. Una barba bianca appiccicata al mento, un cappello a cilindro, una bocca che però non si schiudeva per parlare. E al posto degli occhi due orbite vuote, con l’innesto nudo per una lampadina. «Mi hanno fatto cieco, e dunque io osservo il mondo per quel che realmente è. Voi non resistereste, sapendo quanto è buio. Una distesa nera. Le particelle la infestano, le onde la feriscono, ma nessuna delle due possiede forma né colore. Non c’è bellezza, là fuori».
Poi schiacciò il dito sul pulsante, e la donna con la bandana insieme a lui. L’utilitarista negativo vide la stanza sgranarsi, mentre il pavimento gli inghiottiva i piedi. Il Νoûs richiamava tutte le sue iterazioni precedenti, a dozzine, sciamavano verso il precipizio. Le riconosceva una a una.
«Sto morendo, dunque». La voce del presidente era uno scricchiolio di giunture e un sibilo di aria compressa.
«Fa male?» La donna con la bandana, invece, parlava come una bambina.
«È piacevole. È come un sogno».
«Anch’io voglio sognare».
L’autore
Andrea Cassini (1988), di formazione filologo medievale, è giornalista, traduttore e consulente editoriale: tra i suoi ultimi lavori, ha tradotto La Grazia dei Re di Ken Liu per Oscar Fantastica Mondadori. Scrive articoli per L’Indiscreto e ha pubblicato racconti su riviste e antologie, fra cui Prisma – Vol. 1 (Moscabianca, 2019), Horror Storytelling Vol. 4 (Watson, 2019) e Déjà vu – altre storie, altro presente (Alessandro Polidoro, 2020). Ha partecipato come autore a TINA. Storie della grande estinzione (Aguaplano, 2020).
Un pensiero su “Il presidente meccanico”
I commenti sono chiusi.