“Potrebbe piovere”
Igor, Frankenstein Junior
Avevo circa la vostra età quando ha cominciato a diffondersi il virus.
Otto anni, o nove.
Ricordo le prime avvisaglie.
Piero Liguori, sporco secchione, smette di venire a scuola da un giorno all’altro.
La maestra ci dice che suo padre s’è beccato una brutta malattia e l’ha attaccata alla mamma e per quello Piero è andato a vivere coi nonni a Torino.
Sticazzi.
Piero sta antipatico a tutti e non è che la cosa ci tocchi molto. In più, dopo quel che è successo l’anno prima, abbiamo fatto tutti il callo alle malattie e pace. Al limite ci facciamo altri sei mesi di telelezioni e mascherine.
La cosa strana è che il babbo del Liguori viene comunque tutti i giorni all’uscita di scuola. Non c’ha da prendere nessuno ma se ne sta là, in impermeabile anche quando non piove. Ci fissa mentre usciamo, spalanca il sorriso e ci guarda mentre abbracciamo i genitori o i nonni.
Quando chiedo a mia mamma che ha quel signore lei mi risponde che è solo un uomo tanto triste, che evidentemente gli manca il figlio e viene là davanti per quello.
Ancora non si sa che c’è un virus in giro e che Babbo Liguori è il Paziente Zero.
In due o tre settimane i casi in Italia si moltiplicano e i telegiornali cominciano a parlarne. Io so solo che i miei fanno lo sguardo preoccupato e cambiano canale.
E mi va pure bene. Non ho mai potuto guardare i Teen Titans all’ora di cena e ora posso. Ben venga qualsiasi cosa stia succedendo, no?
Un giorno, all’uscita di scuola, mamma mi sta togliendo lo zaino quando Babbo Liguori si avvicina e la tocca su una spalla. Lei lancia un urlo, si divincola, mi prende per mano e scappiamo.
Ricordo che quasi mi stacca il braccio e poi arriviamo a una fontanella e lei comincia a lavarsi la spalla con l’acqua gelida come se proprio lì si fosse bruciata.
«Che c’è?» le chiedo.
«Nulla. Mi ha fatto male la cinghia della borsa» risponde lei.
Ma non ha una borsa.
La sera, a casa, sento che parla con mio padre nell’altra stanza e gli racconta tutto. Lui le chiede qualcosa e lei comincia a piangere e gli dice: «Sì, penso di sì». Allora anche lui piange per un po’, poi viene in camera mia e mi dice di fare le valigie, presto. Che devo subito andare dai nonni al mare.
Stavolta anche se sono vacanze gratis mi preoccupo pure io. Allora riempio le borse con babbo e mentre ce ne stiamo per andare mamma mi viene a salutare e mi stampa prima un bacio sulla fronte, come fa sempre, ma poi mi bacia la bocca fortissimo – un bacio umido – e babbo è costretto a strapparmela di dosso e nel farlo le tocca i capelli e a quel punto lo vedi che gli succede qualcosa.
In auto supera tutti i limiti di velocità, ogni tanto mi lancia uno sguardo imbarazzato, si liscia continuamente la patta dei pantaloni, così, e quando arriviamo a casa dei nonni mi fa scendere e mi lascia davanti al cancello.
«Suona e fatti aprire» dice. Poi, sgomma via.
E io non posso sapere che a due isolati di distanza c’è il cortile di una chiesa dove un mucchio di bambini giocano dopo catechismo. Non posso immaginare babbo che frena, si ferma, esce d’auto e gli si avvicina come una bestia affamata.
Quello che posso vedere è il suo viso al telegiornale quella sera, nel secondo prima che nonna metta su Rai-YoYo dove Lupo Lucio ne sta combinando una delle sue.
Passano due settimane e viene dichiarata l’emergenza nazionale.
Viene pure istituito un corpo armato composto per metà da militari di professione e per metà da membri del MOIGE.
I bambini – tutti i bambini – dovranno restare separati dagli adulti, per un po’.
Si decide che i centri d’accoglienza saranno, perlopiù, vecchie colonie fasciste. A quanto pare, in Italia, ce ne sono tantissime: casermoni in località vacanziere con camerate e tutto, letti e mobili degli anni Trenta, cucine attrezzate. Una volta ci passavano l’estate i figli dei tesserati al partito e ora andremo tutti là.
Nonno e nonna dicono che è per il mio bene. Che dovrò starmene nascosto finché non si trova il vaccino. Che i grandi sono diventati pericolosi.
«Pericolosi come?» chiedo io.
E quelli si rifiutano di spiegarmi. «Come le api» dice nonna. «Come i fiori» dice nonno. Ma in realtà è qualcos’altro e lo sappiamo tutti.
Al punto di raccolta per la partenza ci sono decine di bambini accompagnati. I genitori hanno quasi tutti guantoni da forno chiusi col nastro adesivo sui polsi, giacche imbottite, mutande fissate sopra i pantaloni con la spillatrice, maschere da hockey o da scherma. La malattia si trasmette col tocco e sotto i dodici anni si è immuni; almeno questa è l’informazione che m’è arrivata.
Qualche bimbetto piange e chiede l’ultimo abbraccio di mamma ma nessuno si abbraccia, altri hanno gli occhi spalancati e l’aria terrorizzata.
L’autista è un adulto che ci dice «dovete stare tranquilli, ho avuto un incidente in bici quando avevo la vostra età» e si indica la patta dei pantaloni e noi tanto tranquilli non stiamo.
Guida fino alle montagne dove c’è la colonia e dai finestrini dell’autobus vediamo che l’edificio è circondato da uomini e donne di ogni età.
Si affollano attorno al cancello, stringono le sbarre, sbatacchiano gli uni sugli altri.
Sembrano gli zombie di un film che ho visto una notte, di nascosto, e tutti cercano di arrampicarsi ma ricadono giù e quando vedono l’autobus ci circondano e si aprono le patte dei pantaloni o si sollevano le magliette e sbandierano le parti intime, strizzano le tette o fanno girare gli uccelli come pale di elicottero e poi si mettono a cantare: «C’mon baby come on!»
«Cosa vogliono?» chiedo a un ragazzetto più grande seduto accanto a me.
«Come, non lo sai?» dice lui.
«No. Sono stato coi nonni fino a ieri» rispondo io.
«E’ la malattia. P-21. Si dice sia nata in Giappone quando un appassionato di manga erotici ha morso un ricercatore. Da lì si è sparsa ovunque. Vogliono scoparci».
Io non lo so cosa vuol dire quella parola ma non posso nemmeno fare brutta figura e allora dico: «Eh, già».
Alla colonia non si sta male. Ci sono le suore che si prendono cura di noi e non ci fanno avvicinare ai cancelli. Non che ce ne sia bisogno, da quando un cinquenne di nome Maurizio c’è corso contro pensando di vederci in mezzo i suoi genitori, la folla se lo è preso e noi abbiamo tutti capito in anticipo un mucchio di cose da grandi.
Giochiamo, facciamo lezione, impariamo cose da suore come cucinare, pregare o usare l’arco e le frecce. All’inizio arrivano autobus quasi ogni giorno. Poi, d’improvviso, smettono.
Un giorno le suore moriranno e allora eleggiamo un Capo tra noi.
Il Capo giura che non diventerà mai adulto.
Da fuori i cancelli continuano ad arrivare ansimi, urla e brutte parole.
Ormai ci siamo abituati. È il suono del mondo.
Quando nasce il primo bambino dentro la Colonia giuriamo che ce ne prenderemo cura tutti assieme.
Ricordiamo i giorni prima del contagio, quando eravamo preziosi.
Giuriamo anche che gli racconteremo tutto, tutto quel che ci è successo.
Voi nuovi bambini avete il diritto di sapere.
Adesso la cosa più preziosa siete voi.
L’autore
Federico Guerri è stato morso da un libro quando era piccolo e da allora ha bisogno di storie per sopravvivere. Vive in teatro seminando drammaturgie, ogni tanto pubblica pure qualche libro. Tra gli altri: Questa sono io, 24:00:00 – Una commedia romantica sulla fine del mondo (candidato allo Strega 2015) e L’inverno di Bucinella, raccolta dei primi 100 racconti del folle progetto che trovate su Facebook.