Io mi fermo qui

Rete Uno trasmetteva il contraddittorio DC-PCI «sugli effetti del COVID sulla nostra economia»; un esponente MSI sottolineava quel possessivo. Il cameriere cambiò canale. Il segretario Vladimir Putin dell’U.R.S.S, in diretta da Mosca, assisteva alla parata – in onda su Rete Due – per il solenne settantacinquesimo della Giornata della Vittoria. Stelle rosse, carri armati, grida «urrà» di marinai; le cifre enormi 09.05.1945 e 09.05.2020. Il cameriere cambiò canale. Nikka Costa e la Ferragni, su Canale Discoring, presentavano in anteprima il nuovo singolo per l’estate; gli squilli di telefono / coi sogni del pascià. Le strofe si spezzarono sui tavoli del bar, tra i posacenere della Cinzano e le bottiglie di Sanbittèr.
Matteo piegò il giornale sulla seggiola di paglia. Il locale era deserto: lui pensò fosse normale; dopo tre mesi di pandemia si era a disagio a restare fuori. Alla buon’ora vide Valeria che si fermava sul marciapiede, e legava il Piaggio verde contro il palo di uno stop. Le fece un cenno, lei gli sorrise, si sedette e sospirò:
«Scusa il ritardo.»
«Neppure troppo.»
Ordinarono i caffè.
«Non starò a girarci attorno», disse lui, «c’è una tua amica…»
«Quale amica?»
«Quella mora. Carina. Con i capelli a caschetto. Occhi azzurri.»
«Sì, Stefania.»
«Vi ho viste ieri.»
«Stefania, sì.»
«Me la presenti.»
«Ma c’è un problema.»
«È già impegnata.»
«No, figurati!»
«E perché?»
«È un po’… fatta a modo suo.»
«Sembra un tipo interessante.»
«Non ha un imp.»
«Non ho capito.»
«Non ce l’ha», disse Valeria.
«Sì, va bene: ma in che senso?»
«Non ha un imp, che cazzo so? La famiglia, i genitori… succede spesso.»
«Ma come fa?»
«Fa che niente: è tranquilla, ha un suo continuo, ci si capisce.»
«Ci si capisce.»
«Il più spesso sì. Ma alle volte non raccapezzi come le stia succedendo, e anche lei credo non sappia…»
«Dev’essere anche strano.»
«Non è così mia amica…»
«Curioso. Forse bello.»
«Non ci ho mai fatto discorsi seri.»
«Chi ne fa?», rise Matteo.
«Ma è sempre un po’ picchiolta», rispose sua cugina. La parola si increspò di interferenze tra i due continui; e il logo Discoring sullo schermo televisivo sfocò per un istante nella M di MTV. Il sole estivo baluginò sullo scooter di Valeria; i suoi jeans a elefante e la camicia di margherite si accorciarono in crop-top e short neri di acetato.
Tornò tutto come prima.
Come adesso. Come ieri.
«Ma è sempre un po’ picchiata», Valeria ripeté.
«Sconvolta», lui le disse.
«Cosa ho detto?»
Un’altra cosa.
Tu però non puoi saperlo. Io non credo che dovrei.
Ogni frase era la stessa, alla reciproca comprensione, e suonava allo stesso modo e con lo stesso significato: ma a Matteo turbava un poco rendersi conto di che parole, che immagini, che oggetti – e insomma che realtà – esprimevano concetti per gli imp di altri decenni. Soprattutto da che il disturbo lo colpiva più di frequente.
Ma non era così grave.
Ché poi passano, ‘ste cose.
Come un crampo, un mal di testa.
Come un fischio nelle orecchie.
«Però è carina.»
«Carina molto.»
«Me la presenti.»
«Se a lei sta bene… Ma sei sicuro.»
«Te l’avrei chiesto?»
Mentiva, infatti: non escludeva che fosse un sintomo di quella… malattia. Anche i salmoni si riproducono, quando devono morire. Lo aveva letto su “Reader’s Digest”.
Lui non era moribondo.
Ma malato, questo sì.
Il primo medico gli aveva detto di rivolgersi al tal collega; il tal collega gli consigliava di consultarsi con il talaltro. E quel talaltro gli scrisse un numero su un cartoncino da visita: «Chiami, chiami: ché è il suo campo. Faccia presente: la mando io»; gli ammiccò, lo salutò, gli firmò una ricevuta. Cinque minuti, quell’indirizzo e ventimiladuecento lire.
Il dottor Gregorio Bucci riceveva nel suo studio, un anonimo portone in un complesso condominiale. Quella stanza era arredata di piante d’edera e poltroncine, due copie di Magritte, scaffali con i libri. Sugli scaffali si impolverava una buffa collezione: metronomi di legno, di plastica e d’acciaio.
«Descriva il suo disturbo.»
«Beh…», lui ci provò.
Gregorio Bucci si annotò tutto su un blocco note col logo Bayern; tra i portapenne, tra i tagliacarte, i fermafogli sponsorizzati che ricoprivano la scrivania con i campioni medicinali. Mormorava «eccome, certo!» e lo guardava con occhi stanchi: non sembrava assecondarlo, era annoiato dalla routine.
«Facciamo una prova», lo interruppe.
Scelse un metronomo tra le decine. Glielo mise di fronte. Lui lo urtò.
«Faccia attenzione: è un cimelio, ha cinquant’anni.»
«Sembra nuovo», Matteo disse.
Il dottore sghignazzò. Prese la copia di un quotidiano dalle tasche della giacca: un bel modello in velluto beige con trench e sciarpa all’appendiabiti. Sfogliò la cronaca, mostrò la data:
«Sei gennaio duemilaventi.»
Cinque mesi, lui pensò. Il caldo estivo lo tormentava.
«Ma di’, mi ascolti?», sbottò Valeria.
«Certo, dimmi. Vai avanti.»
Quei suoi soliti starnazzi nel cortile della vita.
Erano cinque mesi che stava male.
Matteo si preoccupò.
«Si abbandoni al ticchettio del metronomo. Cosa legge?», chiese Bucci.
«Iraq: via le truppe americane
«Chi è, attualmente, il presidente degli Stati Uniti?»
«Donald Trump, lo sanno tutti.»
«Lo vuole scrivere, per cortesia?», il dottore gli porse carta e penna, «si abbandoni al ticchettio del metronomo. Ma in stampatello, ché leggo meglio.»
Matteo tracciò la D.
Però scrisse una R.
E il cerchio della O e i tratti della N. Ma erano una I e la CH di RICHARD NIXON.
«… ho scritto DONALD TRUMP… io leggo DONALD TRUMP…»; ma lo vedeva che quelle lettere componevano un altro nome.
«Per me, ci vedo TRUMAN. Ma anch’io leggo che è TRUMP.»
Il dottor Bucci stirò sul tavolo una carta da cinque euro: «Si abbandoni al ticchettio del metronomo. Mi descriva il disegno. La registro, le dispiace?», azionò il mangianastri e gli porse il microfono.
«Grigio-azzurro, c’è un arco, la bandiera dell’Europa. Naturalmente la cifra cinque; “euro” in greco, in italiano e mi pare sia cirillico.»
Riavvolse il nastro. Premette PLAY: Bianco-azzurro, la testa alata, la cornice di ingranaggi. La cifra cinquecento e uno sfondo reticolato.
Il metronomo tacque. Matteo rabbrividì:
«Sono matto?!»
«Un po’ confuso. È più sensibile di molti altri. È un disturbo passeggero, tornerà al suo proprio imprinting.»
«Sì, ma è grave?»
«Questo no. Ma si soffre, e soffre molto.»
«Com’è successo?»
«Neurologia.»
«Non ne so nulla.»
«Non ne parliamo.»
«Che cosa prendo?»
Il dottore scrisse un rigo di illeggibile ricetta, la timbrò: «Queste compresse.»
«Solo queste?»
«Quattro al giorno. Ma attenzione: sono forti. Arrivederci.»
Matteo pagò angosciato il flacone al farmacista. Ingollò subito la prima pillola; anzi due: ch’è pomeriggio. Fece a piedi il quarto d’ora di strada tra il centro storico e casa, stordito, con un cupo rotolio nello stomaco e la testa.
Da un cartellone pubblicitario gli sorrideva Altobelli, che alla guida di una jeep gli suggeriva di radersi da cannoniere. Lui però sapeva che era il volto di Bobo Vieri che irrompeva su una dune buggy «to shave like a bomber!»
Ma almeno la compressa ha un buon gusto di limone.
Benché negli ultimi cinque mesi non abbia avuto ‘sto gran effetto.
Mentre Valeria non lo guardava tolse di tasca la bottiglietta.
Ne prese un altro paio.
Per oggi erano sei.
«L’ho chiamata un messaggio», disse sua cugina. Riabbassò la cornetta, e infilò il grosso telefono grigio in quella borsa ch’era impossibile lo contenesse – ma anche il suo, dopotutto, non poteva entrargli in tasca…; «mi ha risposto: le sta bene. La vedrai domani sera.»

Era bella.
Questo sì.
Ma quei discorsi lo spaventavano.
Mentre lei – almeno questo! – gli sembrava a proprio agio.
Passeggiarono due ore sul lungomare semideserto: era giugno, giovedì, era appena nuvoloso; ma sembrava che la gente stesse ancora bene a casa, sprofondata nei divani di quei tre mesi di quarantena. Ai passanti e i ciclisti che incrociavano sul viale penzolavano di tasca le mascherine gualcite; i motori delle Alfetta e delle Citroen 2CV echeggiavano lontani nelle strade quasi vuote.
«Non c’è nessuno.»
«Per te, magari: per me c’è già una folla.»
Lui non volle contraddirla.
Una ragazza dai ricci rossi portava il cane a sgambare a riva, mentre lei scorreva diapo su un visore View Master. Dalle finestre lasciate aperte bagliori azzurri e un’orchestra: Bielorussia e Macedonia in finale ai Jeux sans frontières.
Stefania gli accennò a quello squillo di trombe, e alla voce di Fiorello – di Marchetti!; di Fiorello – che annunciava i concorrenti e presentava le gare:
«Tu lo guardi?»
«Qualche volta.»
«Chiunque vinca, tra quei due, credo siano già contenti: l’Impero Ottomano è già stato eliminato. Io ci ho sperato, per la squadra romana…»
Non ha detto la Turchia: gli ottomani; i romani. Non ha detto gli italiani: ha detto proprio così.
E perché io l’ho capita?
Per due ore gli parlò dei suoi studi in scenografia, dei suoi dagherrotipi: che sperava diventassero il suo lavoro. Di una gilda istituita con suo cugino e un’app con i fantasmi per mostre e wunderkammer. Di un master in grand tour, pellegrinaggio e di marketing. Le piaceva il pesce azzurro cucinato da Amaterasu. Non abitava in città da sempre, era nata a Helvia Recina. Pronunciò le ultime frasi in una specie di latino.
«… è un po’ difficile seguirti, sai?»
«Non mi sembravi così baggiano», lei si strinse nelle spalle.
Questo sì: suonò coglione; e Matteo calò le braghe:
«Mia cugina mi ha detto… non hai l’imp.»
«No, non ce l’ho.»
Gli occhi azzurri le si accesero di una luce più aggressiva.
«Mica facile. E perché?»
«Mio padre ha abbandonato mia madre quando seppe che era incinta: non l’ho mai conosciuto. Mia madre poi ha avuto un po’… parecchi fidanzati. Più giovani: di molto; più vecchi: non di poco. E ognuno con il suo imprinting: te li puoi immaginare. Tutti tizi interessanti: molta musica, letture, arte, viaggi: ho preso tutto. Mi hanno lasciato un disastro, dentro; ho troppe cose, non ne ho nessuna. Tu perché gli anni settanta? Dovresti essere dei novanta.»
«…ottantacinque», lui balbettò, «come fai a?…»
«Ma non ti vedi?», Stefania rise.
Lui sudò nei pantaloni attillati, che scampanavano dal polpaccio sui mocassini coi tacchi alti. La camicia canarino gli scottava sulla pelle; si lisciò i capelli lunghi e i baffi… che forse non aveva.
Assomigliava a chiunque altro, la maggior parte dei suoi coetanei.
Forse no.
Gli venne il dubbio.
Sentì il bisogno di una compressa.
Per non passare da fatto e tossico prima di uscire le aveva lasciate lì, cazzo, a casa nell’armadietto.
«I miei matusa…»
«Cos’è, ci fai?»
«I miei genitori hanno vissuto quei due decenni: i settanta e gli ottanta. Tanta musica, gran film.»
«Ma tu non li hai vissuti.»
«Praticamente era tutto un cult.»
«È un tuo culto oppure loro?»
«Era tutta un’altra storia.»
Perché parlo al passato?; sentì il battito accelerare – sì, vabbè: è il duemilaventi. Però è il duemilaventi di quel Settanta e di quell’Ottanta. Non è il duemilaventi dei… Novanta di Valeria, credo; e non è il duemilaventi del… sempre e mai di questa matta. Saranno sempre Settanta e Ottanta.
«Il terrorismo, la guerra fredda. Ustica e Bologna. Tu non c’eri, e quindi?»
«Insomma…»
«Tu lo sai cos’è l’imprinting?»
«Ho letto un ciclostile…», ho consultato dei siti web; «ti impiantano un transistor praticamente alla nascita… l’amianto nelle vene, e i cavi del telefono…»
«Ma allora sei scempiato.»
Coglione, anche stavolta.
Provò a difendersi indispettito: «Se lo sai dimmelo tu.»
Lei gli bussò in fronte con quelle piccole mani bianche, screpolate e già grinzose di chissà quali fatiche: «Ce l’hai tutto nella testa. E’ un passato solo tuo. È l’etichetta della realtà che ti fa comodo vivere. Ma non può essere la realtà.»
«C’è il governo, c’è il sistema.»
«Ma sistemati le idee», disse Stefania con sufficienza.
«Io chi sono allora, come sono?»
«Te l’ho detto, è un tuo problema»; si fermarono a un lampione, «ho il palafreno legato qui, e domani ho un treno ad ἕως. Mi dispiace: un’altra volta.»
Indossò il casco, mise in moto la Vespa.
«Ti telefono.»
«Non sento»; il motore nitrì forte.
«Ti telefono.»
«Non sento. Mi dispiace: un’altra volta.»
Accelerò per il lungomare sotto i cerchi delle luci.
Lui, a casa, steso a letto, tardò tre ore prima di addormentarsi. Ritornarono i ricordi, pensieri stupidi si susseguirono; la memoria di episodi che non avevano nessun perché. Non andava ancora a scuola. Una zia con un pacchetto. Una scatola di Lego, mattoncini colorati. Una scatola fallata: forse apposta, chi lo sa. Un operaio danese stronzo si divertiva a fare piangere bambini ignoti. Tutti i cento mattoncini dello stesso brutto verde. Tanti pezzi, tanti incastri, le istruzioni per aerei, automobili, un castello e un mondo intero da costruire. Era un mondo solo verde, perché aveva Lego verdi.
Non ci aveva più pensato.
Solo quelli: triste, cazzo.
Regalati da una zia.
Non aveva avuto zie.
Gli fece rabbia. Si addormentò.
Non aveva avuto zie.

«Tu però sei un imbecille!», sbottò Valeria il mattino dopo: insistette a incontrarlo ficcanaso ed eccitata; «perché parlarle del suo problema?»
«Non l’ha messa in imbarazzo. Me parecchio, invece.»
«Che ne sai?»
«Non mi è sembrato.»
«Ci hai messo me.»
«Tu che c’entri? Mica c’eri. È un discorso tra me e lei.»
«Tra voi due.»
«Mi piacerebbe!…», Matteo si arrese.
«Da chi credi abbia pensato che tu sai dei suoi casini?»
«Ovvio: te.»
«Bella figura.»
«Dammi retta: non le importa.»
«La conosci?»
«Non si può.»
«L’hai risentita? Vi rivedrete?»
… se mi ha visto e mi ha sentito!; pensò lui: non lo credeva. Quell’idea lo indispettì: essere un’ora trascorsa a vuoto, un fastidio, un imprevisto nella vita di una donna che trovava interessante: gli piaceva, cazzo, sì! Ma non esistere, in realtà, nel suo ordine di cose, fu un pensiero che lo spaventò.
«Io non credo.»
«Mi dispiace», disse lei: ma Matteo capì di esserle indifferente, già annoiata da chissà quali sviluppi che lui e che Stefania le avevano promesso.
E non avevano mantenuto.
«Poi magari ci ripensa…»
«Come no», tagliò corto Valeria.
Si salutarono, lo interruppe: era questa la sensazione.

E gli amici lo aspettavano a quel solito muretto. Venne avanti a pugni in tasca, spalle strette e occhi bassi, col muso lungo «lasciamo stare» e ostinato a non parlarne. Non ci fu granché da fare.
«Dài, racconta! Com’è andata?»
Era pronto, incassò bene:
«Non è andata.»
«Se la tira?»
«Ma poi è vero che ha quel problema?»
Sandro, Brizio, Fabio, Jack – sono questi i loro nomi? Il mio davvero sarà Matteo? – lo accerchiarono insistenti in una nube di sigarette.
«Non è mica mongoloide.»
«Cazzo, no: è parecchio figa.»
«Ma ce l’ha.»
«Però ce l’ha.»
«Ma è tranquilla o proprio strana?»
«Com’è parlarci?»
«Cos’è, t’ha steso?», rise Sandro un po’ cattivo.
Alzò gli occhi dalle scarpe. Era il caso di affrontarli: «Senti Sa’…»
Ma Sa’ non c’era.
Ho le traveggole? Mi sta davanti.
«Si capisce: è molto bella», disse Fabio, «ma se è picchiata…»
Ma anche Fabio era scomparso. Anche Jack e anche Brizio. Sentiva solo le loro voci: lì, presenti, non un’eco; l’accento vivo e il loro alito come parlassero viso a viso. Forse no: ovattate, invece; come da dietro un’intercapedine.
«… perlamadonna», Matteo gelò.
«Cos’è, ti incazzi?»
«Maddài, si scherza.»
«È una stronza, vaffanculo.»
«Dài, non era quella giusta.»
Lo abbracciarono, arruffarono e continuarono a perculare. Sentiva addosso le loro mani, il dopobarba, la nicotina: ma non c’erano, perdio! Sentì la massa del loro vuoto e un boato di parole. Uno scoppio, poi silenzio.
«Ero solo di passaggio», balbettò, «devo andare, ci si vede…»
… se lo avevano sentito e se per loro lui c’era ancora.
Si sforzò di allontanarsi salutando e sorridendo. Stava male; questo è ovvio. Le compresse!; si tastò. Vuotò in mano la boccetta e contò che siamo a nove. Nove innocue caramelle con il gusto di limone.
Resta calmo.
Chiuse gli occhi. Respirò profondamente.
Riaprì gli occhi.
Ed era peggio.
Voltato l’angolo si mise a correre.
Ma dove corro?
Ombre umane inconsistenti galleggiavano su una griglia di grandi prismi, cubi, sfere e di solidi incolori; altri ancora, più veloci e più piccoli, ne attraversavano gli intervalli con esplosioni metalliche, asincroni tossiti e scoppi di motore. Il cielo iridescente lo stordiva e accecava, lo assordava e nauseava una cupa vibrazione. Da una grata di rette nere e affilate gli latrò un orrore piccolo e vivo: un centipede dal muso aguzzo canino la cui bocca era un’elica di lingue molli e di denti. Uno spettro si affacciò a un’interruzione tra i solidi a strillare alla creatura che stesse ferta e che stesse zitma. La faccia era una trottola di occhi, nasi e labbra; le ruote delle braccia vorticose sulle spalle. I peli e i capelli gli scrosciavano sul viso, attorcigliati in grovigli grigi che si indoravano e si annerivano:
«Mloi scusi», disse il mostro, «è cattuono, non è bivo…»
I suoni, le parole, gli trafissero il cervello; le orbite degli occhi gli tremarono convulse. Matteo, per un istante, vide il cane e la padrona: un bassotto delizioso e una signora di mezza età, alla finestra di quel villino dietro l’ottone di quel cancello. Non aveva cento zampe: solo quattro, un bel musetto. La signora un volto bello; gesticolava, mentre parlava. Definiti in un continuo, fermi, nitidi, datati.
Li aveva visti soltanto muoversi. Tutti i loro movimenti. Ogni possibile movimento in ogni istante possibile.
«Abbaia, abbaia, ma è solo un cuccioooOOO…»
Nel tondo baratro della vocale la villetta si disfece, tornò un solido vibrante nello spettro dei colori. Gli altri cubi, i rettangoli, i cuboidi, i trapezoedri si dilatarono e appiattirono con un boato di terrecotte, e risorsero mutati tra i rutti neri di betoniere. Le scie delle persone gremirono le strade. Sui blocchi si accendevano insegne luminose che scoppiettavano fulminate poi brillavano di smalto, assi di legno vetrificate, vetro sciolto in pvc, gocce brune di catrame che si incendiavano in pixel rossi, frinii elettrici di campanelli, lettere sparse BARISTOBANCALIMENTARICARTUMERIA; ragli di ferro dei basculanti coi vagiti di sirene.
Matteo continuò a correre. Aveva le vertigini. L’asfalto era viscoso. Fluido. Scivolò. Sbatté di schiena a un muro di mattoni intermittenti, gemmava di  oleandri e stillava di cemento.
La vibrazione della materia gli strappò la carne viva. Lui gridò, scattò in avanti. In un’eco di frenata.     
Doveva essere un’automobile, l’ombra cilindrica che lo investì.
Bella botta.
Rotolò.
Dio, che male!
Si alzò in piedi.
Camminava.
Qualche graffio.
Un ematoma.
Ma è tutto a posto. Sto bene, dài. Mi brucia dentro: qui nello stomaco. Ma sono in piedi, sto bene, dài.
La gambe molli.
La macchia scura sulla maglietta continuava ad allargarsi. Calda, appiccicosa.
Cazzo, è olio. No, benzina.
Sulla sua maglietta fina.
Cazzo, non questa maglietta!
Solo questo: sono sporco. Anzi: adesso è molto meglio.
Crollò a faccia sul catrame.
Gli si raccolse una folla attorno. C’era gente, e la vedeva: c’era gente, era normale, la vedeva e la sentiva. Quindi esistono: sto bene. Le ragazze in minigonna e camicette arancioni e verdi; scacchi, a righe, colorate, con i sandali e le zeppe. Quei colletti esagerati, quei maglioni a girocollo, quelle toppe nelle giacche e i cappelloni di paglia. Accorrevano dai bar, inchiodavano le Mini. Tutti addosso a fotografarlo e filmarlo con i telefoni a Super 8 e gettoni. Su di lui le fronde rosa di pesco. Io mi fermo qui. Come avrebbe dovuto essere. Come era e come è. Tutto il resto è un’illusione. Credo siano le compresse. Le compresse fanno male, dirò al dottore che voglio smettere.
Ma che facce spaventate, che hanno tutti! Quello urla!
Un’ambulanza FIAT 238 svoltò l’angolo e fermò. Tra quei cantieri di palazzine nei campi brulli in periferia. Dove prima c’era l’erba, come avrebbe dovuto essere. Come era e come è.
Lo guardarono atterriti disteso freddo sulla lettiga. I portantini non gli parlarono. Cupi, lividi, sudati.
Ehi, ma guarda! C’è Stefania!
Impallidita.
Con gli occhi rossi: «Ciao, coglione.»
E le sirene dell’ambulanza intonarono Let It Be.


L’autore

Alessandro Forlani (Pesaro, 1972) ha insegnato sceneggiatura, drammaturgia e scrittura creativa presso l’Accademia di Belle Arti di Macerata, l’Università di Bologna (Polo di Rimini e DAMS), Scuola Comics Pescara e istituti privati. Premio Urania 2011 e Premio Kipple 2012 con il romanzo I Senza Tempo; Premio Urania Stella Doppia 2013 con il racconto Materia Prima, pubblica regolarmente antologie e romanzi horror, fantasy e di fantascienza presso vari editori. Ha creato con Lorenzo Davia il progetto Crypt Marauders Chronicles – Thanatolia: una piattaforma di narrativa sword & sorcery a cui hanno aderito molti autori italiani. Tra i suoi titoli principali: T; Arte e Acciaio; Laurasia e La Scure e i Sepolcri. blog