La vera età del mio cuore

Il risveglio di primavera mi infondeva sempre una nostalgia che faticavo a decifrare, ogni organo transitava dal sonno letargico alla veglia con un impercettibile palpito.

Aprii gli occhi a fessura per lasciare che si abituassero alla luce: le stelle gemelle tracciavano in cielo un’orbita incandescente.

Durante la quiescenza, il mio zigomo e il filare delle ciglia erano diventati la base di ancoraggio della tela di un ragno: mi guardò spaventato ora che il battito ritmico della mia palpebra allentava i tiranti della sua architettura.

Con un pizzico sbrogliai la tessitura dal viso e fissai l’estremità tra il lobo e la spalla di mia madre che giaceva distesa e senza vita. Il ragno mi scrutò confuso e facendo oscillare le gocce di rugiada nei ricami della tela andò a rifugiarsi dentro l’orecchio di mamma.

Custodivo da anni quel volto muto e trasalii vedendo la sua bocca contrarsi.

Mamma, ci sei?, chiesi con un fremito.

Le sue labbra si schiusero sibilando e poi con uno scatto secco si affacciò la testa dell’aracnide disceso dall’orecchio.

Inorridii – non sapevo leggere i segni profetici di una rivelazione imminente.

Si sentiva un gran vociare provenire dal fiume Nadi. Frotte di pellegrini immergevano i piedi per rinvigorire le radici che d’inverno si ritiravano sottopelle. Qualcuno aveva già sollevato le braccia verso le stelle gemelle: tra le pieghe delle mani i germogli brillavano come file di smeraldi.

Il risveglio di primavera mi infondeva sempre una nostalgia indecifrabile e una sete prodigiosa, così anch’io mossi i primi passi in direzione del Nadi. Il sonno invernale intorpidiva tutti i sensi, la percezione dello spazio e la geometria delle cose divenivano un linguaggio dimenticato e quasi inciampai sui resti di mia madre. In due decadi la natura si era ripresa il suo corpo trasformandolo in un profilo grezzo e attorcigliato d’edera.

La corteccia del suo volto si era sfaldata e dai profondi fori sul torace usciva il cappello a forma di alveare di tre funghi spugnola. Le mani riposavano sopra il seno sinistro come se, poco prima di morire, il cuore avesse deciso di spiccare il volo e lei con ostinazione cercasse ancora di trattenerlo dentro il petto.

Con una foglia dirottai verso le sue cosce una colonia blu di formiche: quel brulichio di zaffiri le sarebbe piaciuto.

Ricalibrai i passi, scavalcai la salma e mi diressi solitaria verso il fiume.

Non appena inzuppai i piedi, lo strato di muschio che ricopriva il dorso si fece più scuro e germinarono i fili dell’apparato radicale. Bere è come rinascere, riempirsi della vita interrotta dagli inverni.

I pellegrini giungevano a coppie dalle radure ai piedi delle catene montuose. Lì le folate gelide dell’inverno si affievolivano sulle spalle delle montagne e si poteva svernare senza il rischio di assiderare. Io lì non ci potevo andare. A ogni tentativo di muoverlo, il corpo di mamma si sfarinava lasciandomi senza alternative.

Le coppie di madri e figlie si immergevano seguendo un rituale simultaneo. Le loro radici si spiegavano e si allacciavano le une con le altre, stringendole in un abbraccio intimo e carnale. Mi pareva un’effusione esagerata, mi infastidì.

Fu questa mia insofferenza, o forse la speranza di trovare sollievo nel confondere solitudini comuni, che mi spinse verso una vecchia isolata. Si strofinava sul petto dei petali di dalia analgesica cercando di sedare il dolore dei fori vicino al cuore, profondi e vescicosi come quelli che bucavano il petto di mia madre e che a lei, purtroppo, erano stati fatali.

Punteruolo rosso?, chiesi indicandole il petto.

Lei annuì e poi rispose con una malcelata insofferenza: Ragazza, tu non sai niente dei punteruoli rossi!

Io credo, sussurrai, credo di sapere…

Parlai senza convinzione, per non farmi sentire. Lei allora si avvicinò e mi ordinò di guardarla negli occhi.

Venti, dissi prima che lei iniziasse a contare.

Venti, confermò lei. Fece una pausa per pensare e poi trasalì incredula: Vent’anni?

Iniziò a fare di conto con le dita e poi aggiunse confusa: Non è possibile! L’età che avrebbe avuto mia figlia.

Inarcò i licheni sopraciliari e il suo viso si segnò di un dolore compunto.

È morta, confermò. Quella generazione se ne è andata per sempre. Sono tutti morti!

Mi fissò. Mi intimò di andarmene e poi, vedendomi immobile, gridò a tutta voce: Maledetta, vattene via!

La sua bocca era sguaiata, talmente aperta che riuscii a vedere il bocciolo di rosa purpureo come un rubino che le fioriva in fondo alla gola. La sua collera mi parve indecente e me ne andai lasciandola sola.

Questa era la nostalgia indecifrabile dei risvegli di primavera. Mi sembrava infatti di aver vissuto epoche passate in cui non ero ancora venuta al mondo. Ricordavo le due stagioni di terribile siccità di cui solo i centenari portavano i segni: gli anelli di accrescimento stratificati sulla pelle e intorno all’iride erano, in corrispondenza di quelle stagioni, dei contorni poco più che filiformi. Mi pareva di ricordare perfino della grande alluvione, avvenuta a metà del secolo passato e che aveva disegnato negli occhi dei presenti un anello spesso e opulento. Così anche per la funesta invasione dei punteruoli rossi, arrivati dall’oriente l’anno in cui nacqui. La loro corazza aragonite era marchiata a fuoco nella memoria e mi terrorizzava il loro scavare incessante e sonoro, lo spuntone infilzato dentro la corteccia, nella carne. Solo le donne più vecchie, col cuore e il petto ispessiti da secoli di sedimentazione, erano riuscite a sopravvivere ai famelici coleotteri. Mentre per altre, come era avvenuto per mia madre, quella piaga era stata letale.

Io ero sopravvissuta nonostante fossi in fasce, un fusto tenero, da squarciare con una carezza. Nulla ricordavo di come mi fossi salvata.

Passeggiai in direzione della sorgente, mi piaceva calpestare i rubini, i topazi, gli smeraldi e le lamine d’oro fluttuanti come alghe. Il Nadi nasceva dalle viscere del pianeta e sgorgava con urgenza implacabile, trascinando con sé le gemme che si adagiavano sul fondale, punteggiandolo di colori.

Alzai le mani al cielo verso le stelle gemelle. Sentii il calore dei raggi stemperarmi i germogli svigoriti dall’inverno e registrai quel piacere dimenticato. Era una scossa che originava dal centro del petto, dove il cuore palpitava glorioso dirigendo il processo di fotosintesi.

Restai in mezzo al Nadi fino a quando il baccagliare dei pellegrini di ritorno alle montagne si fece più tenue e l’unica cosa che potei udire fosse il gorgogliare canoro dell’acqua. Il sonno letargico mi indeboliva gli occhi, così il primo giorno di primavera li tenevo socchiusi e ammiravo le geometrie caleidoscopiche che la luce disegnava sul sipario delle palpebre chiuse. Lasciai che i rumori definissero i contorni delle cose circostanti e non appena percepii il suono dell’imbrunire riaprii gli occhi: le stelle gemelle erano scomparse lasciando all’orizzonte strascichi di luce color bronzo.

Vidi la sagoma lontana della vecchia solitaria. Alzai la mano rigonfia di germogli e accennai un saluto. Lei mi guardò senza ricambiare e poi, con un passo lento e desolato, sparì dentro la foresta di conifere.

Mi incamminai verso le sponde calpestando onici, pietre di giada e diamanti che riflettevano la luce del crepuscolo, brillavano come costellazioni acquatiche.

Affondai l’ultimo passo con energia, caricando lo slancio necessario per uscire dal fiume, ma il piede si ritirò con un riflesso scomposto. Persi l’equilibrio e crollai.

L’acqua si intorbidì di una linfa scura e un dolore penetrante mi morse il piede fino al petto, percorrendo la vena che congiunge le radici al cuore. Quella scossa improvvisa e insopportabile mi evocò una visione immotivata, indecifrabile: vidi mia madre affondare le mani nel petto e sorridere.

Mi trascinai a riva e indagai la pianta del piede. Una pietra di quarzo si era conficcata tra le radici e l’arco plantare. Con un gemito estrassi la lama trasparente e un fiotto di linfa scarlatta mi schizzò tra le dita e i boccioli delle mani.

Strappai i petali di una dalia analgesica e li avvolsi attorno alla ferita. Mi alzai con cautela e zoppicando mi incamminai verso mia madre.

Non accarezzavo il suo corpo da almeno dieci anni; i suoi tessuti erano fragilissimi. La corteccia che ricopriva le mani e il volto negli anni si era assottigliata, diventando una pellicola impalpabile, pulviscolo sulle ali delle farfalle. Però ora, quella sua visione oscura mi aveva profondamente turbata e sentivo un impulso incontrollabile: dovevo toccarla.

Mi sedetti vicino alle spoglie e lacerai con la lama di quarzo i viticci d’edera che le avviluppavano le nocche. Sganciai con cura la pianta rampicante, preservando i tre funghi spugnola che le uscivano dai fori, afferrai i polsi con delicatezza. Forzai leggermente per snodare le mani dal petto, ma le sue dita si polverizzarono come sabbia, e i palmi collassarono di colpo lasciando intravedere un solco profondo.

Sobbalzai inorridita: mamma era senza cuore.

La decomposizione è un processo che dura decadi: inizia dagli anelli di accrescimento più esterni, poi erode gli strati antichi e solo infine gli organi. I punteruoli rossi invece hanno un appetito sdegnoso e selettivo: forano solo in prossimità delle valvole cardiache e il resto lo lasciano intatto.

Dov’era finito il cuore di mamma?

Non compresi dove nacque il mio istinto, forse nella zona d’ombra della coscienza, la stessa che partoriva i sogni lasciati a metà e le inspiegabili nostalgie che mi affliggevano.

La vista del sangue mi dava sempre un senso di vertigine. Non ero impressionabile, ma vedevo in quella sostanza una matrice funerea che mi ripugnava. Risuonava con la malinconia, gli inverni, la solitudine e con le molteplici declinazioni della morte.

Decisi ugualmente di assecondare l’urgenza febbricitante che si impossessò delle mie mani.

Impugnai la lama di quarzo, strinsi i denti per soffocare il dolore e seguendo una cicatrice impercettibile iniziai a incidermi il torace.

Squarciai la corteccia e la sollevai. Il cuore era grosso come un pugno. Lo afferrai e provai un violento brivido a ogni sua palpitazione. Mi feci coraggio e iniziai a spellare i primi strati.

Uno, due, tre, quattro strati: l’organo mi guizzava tra le mani come un pesce e l’odore dolciastro del sangue mi ipnotizzò.

E poi cinque, sei, sette strati di pelle. Scorticando le stratificazioni periferiche, indagai con lucidità le striature di diverso colore che ornavano le pellicole del muscolo. Ipotizzai che quelle macchie fossero la mappa dei miei stati d’animo e un sussulto mi colse quando mi accorsi che sì, quelle erano proprio le impronte delle mie emozioni! Gli strati del cuore si erano macchiati in corrispondenza dei miei malumori e schiariti laddove ero stata felice, come la primavera in cui due colibrì nidificarono sulla mia spalla.

Questa nuova consapevolezza mi rese euforica e continuai a sbucciare.

Diciassette, diciotto, diciannove e poi il ventesimo anello: dove risiedeva il principio dei miei giorni. Lo studiai con particolare attenzione per decifrare la sensazione di venire al mondo. Poi mi accorsi di uno strato sottostante, venni risucchiata da un’emozione che non riuscii a tenere a bada: stavo per inoltrarmi nel tempo in cui non ero stata.

Ventuno, trenta, quaranta… contai fino a centoventi.

Lessi nelle tracce il tempo di mia madre. La rividi col cuore in mano, affacciarsi sopra il mio corpo esanime, e una lacrima di resina mi inumidì gli occhi.

Ripiegai gli strati che avevo sollevato, avvolsi il nostro cuore coi petali di dalia e lo riposi dentro la cassa toracica.

Mi travolse una nostalgia tenerissima, fatta di cose lontane. Ora però la capivo e l’accolsi senza resistenze.


L’autore

Filippo Rossi nasce nel millennio scorso nell’anno della tigre. Coraggio, impetuosità e temperamento esplosivo caratterizzano i nati nel segno del felide, quindi si deduce che la sua, di tigre, fosse di pezza. Durante la carriera accademica si ritrova a vivere in Spagna e in Germania e ora da più di dieci anni abita a Londra dove pratica la professione di ingegnere elettronico. Legge un po’ di tutto e a volte, per fare ordine, gli scappa di scrivere. Un suo racconto breve è stato letto su Rai Radio2, altri sono apparsi su Enne2, Cattedrale e ora anche Specularia.

Illustrazione di Benedetta Baroni