La necessità di un fantastico universale – Intervista a Michele Vaccari

[Articolo già pubblicato su Specularia Dicarta numero uno]

Autore, editor e ideatore dell’agenzia di service editoriale Crudo Studio, Michele Vaccari ha saputo distinguersi come una delle voci più autorevoli e interessanti nell’ambito del fantastico contemporaneo. In questa itervista parliamo di questo: di narrativa fantastica, di qual è in generale, l’approccio della critica questo tipo di narrazione, delle sfide che chi scrive deve affrontare, delle opporutnità che questo genere offre per espolorare i temi dell’attualità. Con la sua vasta esperirenza e conoscenzza della materia, e grazie al suo essere notoriamente uno che non le manda a dire, Michele Vaccari ci offre un punto di vista stimolante e decisamente privo di retorica della situazione del fanstastico in Italia.

Parlando di narrativa fantastica, ha senso distinguere questo genere da altre forme di finzione letteraria?

Non so se è giusto o sbagliato distinguere tra fantastico e ciò che non lo è. Di sicuro è un codice universale, usarlo ci permette di accedere a un certo pubblico. Che però resta respingente, un po’ come avviene con il fumetto. Chi scrive fantastico dovrebbe cercare di non avere un certo tipo di presunzione, che spesso ha finito per confinare il genere in una nicchia. Non si dovrebbe pensare che chi non ha conoscenze o competenze del genere sia un cretino: questa è una deriva nerd del genere che sarebbe meglio evitare. Dobbiamo avere la capacità di essere moderni, cosa che per me significa essere il più possibile universali. Ovvero, aiutare gli altri a sentirsi parte del fantastico: se non siamo inclusivi, non possiamo pretendere che gli altri lo siano nei nostri confronti. Già parliamo ai lettori di un genere che non capiscono, con riferimenti a libri che non hanno letto, con personaggi di cui non interpretano il movimento narrativo. Chi scrive fantastico dovrebbe dare qualcosa, ai lettori, per accedere al suo mondo.

Per il resto, il fantastico ha lo stesso valore di qualunque altro libro “major”. Per me è importante essere un tramite per le persone che stanno iniziando a scriverlo, dirgli: sei uguale a quelli che fanno drama, a chi fa il romanzo borghese. Non bisogna sentirsi sbagliati a scrivere fantastico.

Nonostante non siano infrequenti i casi di romanzi fantastici che hanno successo, i lettori manifestano sempre una certa diffidenza nei confronti della narrativa fantastica, che tendono a considerare una narrativa non altrettanto valida della cosiddetta “narrazione realistica”. Secondo te a cosa è dovuta questa diffidenza?

Dal punto di vista politico, c’è una ragione storica. Nelle indicazioni di Rinascita di Togliatti, si chiede che si parli di realismo, di impegno. Togliatti voleva far diventare il Partito Comunista un partito nazional-popolare, dunque vietava tutte le istanze che non permettevano al lettore di sentirsi parte del realismo, o del neorealismo. Perché ciò che non era realistico impediva ai lettori di concentrarsi sulle cose vere e su cui bisognava discutere, come i problemi della gente e così via. Questo ha creato due criticità: da una parte, ha fatto sì che gli unici che si sentivano legittimati a parlare del genere fossero quelli di destra (perché a quelli di sinistra era vietato farlo); dall’altro, ha influenzato la produzione di alcuni autori. Per fare un esempio: Calvino scrive il Visconte Dimezzato proprio perché si sente dimezzato.

Nel contemporaneo, assistiamo a una prosecuzione di questo stato di cose. Continuano il conservatorismo e una logica che punta a mantenere salde certe posizioni. Non c’è una volontà ideologica, ma piuttosto una volontà di restare comodi.

Se volessimo una nuova generazione di critici con le competenze per analizzare il romanzo fantastico, dovremmo rivoluzionare completamente una certa compagine accademica. Senza una simile rivoluzione, è un po’ come se mi mettessi a spiegare i meme a mia nonna. Le posso dire che i meme esistono, e magari lei lo accetta anche. Allo stesso modo, ai critici e a certi editori posso dire che esiste il fantastico, ma c’è un problema di inaccettabilità, un problema di incomprensione del lavoro di certi autori, e una volontà di non comprendere il valore delle loro storie.

Quindi, come vedi la percezione della narrativa fantastica e speculativa da parte del mondo della critica e dell’editoria?

È un po’ come quando Geppy Cucciari ha intervistato Emis Killa: lui è stato costretto a far notare che non è un politico, ma un cantante, e se non si capisce quello che fa, è meglio evitare giudizi. Perché utilizzare un sistema di decodifica squalificante per chi fa un certo tipo di cosa? Allo stesso modo, a volte, da parte di certi critici (quelli che sono tali di mestiere), sarebbe più onesto ammettere che non si possiedono gli strumenti per analizzare un romanzo fantastico.

I critici hanno la pretesa di affermare che cos’è la letteratura italiana, lamentandosi spesso del fatto che nessuno scrive mai niente di nuovo. Eppure, se gli citi certi scrittori contemporanei, non hanno idea di che cosa si parli. E non si tratta di sconosciuti, ma di scrittori che hanno pubblicato per Einaudi, Minimum Fax, Mondadori. C’è, insomma, un problema di competenze, e un’accettazione di questa situazione. È come se un ingegnere dicesse: “Io so costruire grattacieli, ma non le baite. Quindi, una baita la costruisco come se fosse un grattacielo.” Purtroppo, questo è un tipo di ragionamento che viene normalmente accettato.

Anche per questa ragione, mi capita di incontrare persone che mi dicono “Io quando vado in libreria mi sento sbagliato”. Ma scherziamo? Ogni lettore dovrebbe avere diritto di cittadinanza nelle librerie.

Quali sono gli autori/libri italiani recenti (diciamo dagli anni Ottanta in poi) che hanno contribuito alla formazione dell’immaginario fantastico, magari anche se non sono considerati tali?

Senza dubbio, Tullio Avoledo. È stato il primo, dopo anni, a pubblicare un romanzo fantastico con Einaudi. Editorialmente parlando non è stato accolto bene, invece i lettori lo hanno premiato: le vendite di Avoledo sono andate benissimo.

Purtroppo la bolla editoriale crea dei giudizi intorno agli scrittori, li defrauda del loro valore, anche al di là di quello che gli riconoscono i lettori. Penso che sia gravissimo, perché un certo tipo di mondo (non parlo di quello indie) dovrebbe travalicare il proprio pregiudizio personale.

Spesso capita anche che si giudichino gli scrittori per il loro pensiero e le loro ideologie, e questo pregiudizio diventa il metro con cui si valutano le loro opere. Pure questo è un fatto grave: emerge il messaggio che non possono esserci intellettuali che si occupano di genere. È come se dicessero: è già tanto che ti facciamo scrivere narrativa di genere, stai zitto e non avere un’opinione.

Nella mia vita di autore sono stato giudicato più per quello che dico che per quello che scrivo. I miei libri vengono valutati in base all’idea che alcuni hanno su di me come persona. Per loro, in maniera borghese, bisognerebbe rispondere in maniera retorica alle interviste, dire ciò che ci si aspetta di sentire, ma io non la vedo così. Vengo dalla scuola degli autori che scrivono perché hanno una visione, sociale e artistica, e scrivendo, la esprimono.

Altri nomi che posso citare sono Luca Masali, Flavio Sarti, Laura Pugno. Ci sono anche autori che non appartengono al fantastico, ma hanno lavorato su temi affini al genere scrivendo, ad esempio, romanzi in cui compare l’ucronia. Un esempio è La gemella H di Giorgio Falco, che crea una deviazione rispetto alla storia ufficiale. Ci sono stati anche esperimenti che mostrano un’attitudine ad allontanarsi dal campo del reale, come quelli di Paolo Zardi e Luciano Funetta. È interessante anche il lavoro che fa Vanni Santoni, che ha un’intenzione politica oltre che letteraria, e quello di Giuseppe Genna, che ha scritto La grande madre rossa.

Una cosa che ho notato è che, nell’ambito del fantastico, sono numerose le autrici. Oltre alle scrittrici storiche del genere, come Alda Teodorani, ci sono molte giovani. Ad esempio Maria Gaia Belli, che ha scritto La dorsale. Oppure Guerrieri, Mirabelli, e tutte le altre che mi sto dimenticando che ormai sono moltissime. È come se il fantastico desse alle autrici una capacità d’espressione che il reale, invece, non dà.

Puoi approfondire quest’ultimo punto? Secondo te qual è la percezione del fantastico delle autrici contemporanee?

Una cosa che mi sembra di notare è che molte autrici sono riuscite ad avere un riconoscimento e un’autorevolezza proprio perché sono portatrici sane di fantastico. Se avessero scritto storie che rientrano nel realismo, sarebbero state condannate a una retorica di un certo tipo, o a una compassione, o a raccontare il femminile in un modo più inquadrato. Il fantastico, invece, ha dato loro una diversa dignità, sia di autonomia che di perimetro.
Il problema è sottrarsi al condizionamento in cui gli altri vogliono, per comodità, rinchiuderci. Ma il mondo accademico fa un’enorme fatica a riconoscere i meriti degli autori di fantastico, figuriamoci quelli delle scrittrici. Un editore che ha pubblicato un’opera fantastica scritta da un’autrice potrebbe pensare di aver commesso un errore, visto il silenzio intorno. E’ un silenzio d’omertà, programmato, di sistema.

In realtà, al di là della volontà degli editori, che a volte decidono di sposare dei progetti forti, si ottiene lo stesso un respingimento che fa cadere le braccia. Libri che sono dei veri e propri gioielli vengono rifiutati a priori. Sei donna, non puoi parlare di fantastico, devi allattare od occuparti del tuo dolore. Sei donna uguale sei dolore: facci piangere, muoviti, oppure salvami il mondo, su, non vedi quanti uomini hanno bisogno del tuo ruolo di mamma accudente?

Un’autrice, a quel punto, decide di evitare di scrivere fantastico.

Ci vorrebbe un cambio dirigenziale: come in tutte le aziende, quando un prodotto raggiunge un punto di saturazione, o il dirigente rinnova il prodotto, o viene rinnovato il dirigente. Da un punto di vista editoriale, quando c’è da decidere, ad esempio, chi gestisce una collana, si rimane ancorati alle cose che si conoscono, si guarda la rubrica del telefono: non c’è apertura mentale, in questo senso. Ma ci sono anche donne che dirigono realtà o collane editoriali, come Claudia Durastanti e Federica Manzon. Non a caso, entrambe hanno frequentato il territorio degli esclusi della narrativa fantastica. Manzon ha grande esperienza dal punto di vista editoriale e capacità di apertura dello sguardo, e anche Durastanti è molto competente. E una cosa importante: non sono io che parlo in quanto amico eventuale delle due. È la loro storia. Perché spesso si tende a fare questo, dire quello è bravo, solo perché è un amico. Ma poi, alla prova del nove, il curriculum, il nulla.

Per quella che è la tua esperienza, ci sono differenze tra l’approccio editoriale alla narrativa fantastica in Italia rispetto all’estero?

Non sono molto preparato su questo, ma c’è un ragionamento di base che non facciamo mai: noi siamo un paese di santi, quelli anglosassoni sono paesi di angeli e demoni. Lo strato fantastico è qualcosa che appartiene a una cultura spirituale, e non avendo quel tipo di cultura, per noi il fantastico è sempre un artificio. Anche perché abbiamo un po’ perso il legame con la nostra letteratura delle origini. Per noi, la nostra letteratura è sacra e intoccabile fino, all’incirca, alla Scapigliatura. Questa corrente letteraria riprende, in qualche modo, le redini del fantastico. Penso a Igino Ugo Tarchetti e Remigio Zena, le cui opere hanno a che fare con lo spiritismo. Noi però abbiamo una cesura mentale dovuta al fatto che la letteratura delle origini non era romanzo, ma poema. Il figurativo e il fantastico facevano parte del linguaggio lirico. Nel momento cui raccontiamo storie fantastiche nella forma del romanzo (per quanto esso sia, per definizione, una trasfigurazione del reale), non si riesce ad accettarlo. Questo perché, in realtà, la nostra letteratura nasce sul resoconto, non sul romanzo. Il primo romanzo della letteratura italiana (nella logica dell’accademia, almeno) è Le ultime lettere di Jacopo Ortis, che è la cosa più lontana in assoluto dal fantastico.

Nella storia della letteratura fantastica anglosassone, invece, c’è Tolkien.

Nei tuoi romanzi c’è una forte componente fantastica. In Urla sempre primavera, ad esempio, crei un mondo distopico. Qual è, secondo te, l’importanza della distopia nel presente? E che ruolo avrà in futuro?

Detto sinceramente… la distopia oggi è diventato un modo per squalificare gli autori. Ha finito per penalizzare gli autori che si occupavano di fantastico.

Abbiamo vissuto una piccola ubriacatura a livello editoriale, pensando che questo fenomeno potesse avere ampio respiro, invece si è rivelato un boomerang. Il termine “distopia”, un po’ com’è successo alle parole “socialismo” e “federalismo”, è diventata qualcosa che il sistema usa contro coloro che la fanno in maniera nobile.

Ci sono stati momenti in cui era importante rivendicare un certo genere, affermare che qualcosa era distopia, ma ora è diventato normale, una distinzione di questo tipo non è più necessaria.

Permane una piccola bolla, che comunque morirà perché invecchia, che continua a spingere perché invece tu ti “definisca”. Ma questo avviene perché loro hanno bisogno di definirti, per chiuderti in una gabbia e buttare via la chiave.

L’autore deve avere la responsabilità e la capacità di dire: “No, chiamami con il mio nome”. Quello che siamo lo diranno i lettori e le storie che raccontiamo. Chi vuole certe etichette ha bisogno di confini. Ma la modernità è lo slipstream, non la distinzione tra i generi. La nostra realtà stessa è slipstream: tutto quello che vediamo nelle serie televisive, ad esempio, non ha più un confine di genere.

Il presente va in una direzione tutt’altro che rassicurante. Razzismo, omofobia, nazionalismi, guerre. Cosa può fare, in questo senso, la narrativa fantastica?

Dal mio punto di vista, gli scrittori non dovrebbero intestarsi delle responsabilità. Ogni autore deve sentirsi libero di interpretare il proprio pensiero e la propria visione del mondo, e di raccontare la propria identità. Credo che sia più importante questo, piuttosto che diventare i cantori del presente o del futuro. Un’altra cosa importante è interrogarsi se, ogni volta che si ha a che fare con determinati generi, dobbiamo per forza assecondare certi tabù del mondo.

L’unica responsabilità di un autore contemporaneo, secondo me, potrebbe essere quella di far capire che la modernità può essere un materiale narrativo. Se non permetti al contemporaneo di essere materiale narrativo, e continui a scrivere storie ambientate negli anni ’80, o ’90, e così via, il rischio è quello di proporre ai lettori dei mondi riprodotti in maniera artificiale. Se devo comprare un libro ambientato negli anni ’80, tanto vale che mi compri qualcosa che è stato scritto in quegli anni, no?

Se gli scrittori non offrono all’oggi la possibilità di trasfigurarsi in una letteratura, è difficile che ci siano lettori critici. Né si porranno la questione se il futuro ci sarà, perché la letteratura non affronta problemi contemporanei e non offre questi scenari. Da parte degli autori dovrebbe esserci la voglia di rischiare, di mettersi in gioco, anche a costo di partire svantaggiati dal punto di vista editoriale.

Se non ci prendiamo questo rischio, non possiamo lamentarci di dover stare in un sistema e di dover agire come schiavi, per poi dare la colpa ai lettori, agli editori e via dicendo, così come in questo paese si attribuisce la colpa dei problemi all’Unione Europea, a Putin eccetera. Semplicemente, si è figli della stessa logica.

Secondo te è giusto cambiare la letteratura per adattarla alla sensibilità attuale (vedi il caso, accaduto qualche mese fa, di Roald Dahl)?

Credo che l’intera questione rientri nell’incapacità di affrontare un dibattito in una maniera complessiva, perché ci obbligherebbe a un’assunzione di responsabilità. Nel sistema editoriale, tutti i libri pubblicati subiscono, a monte, un editing. A volte questo editing è fatto da professionisti che vogliono valorizzare il prodotto e vogliono aiutare l’autore a scoprire la propria verità. In linea di massima, però, non è così. Potenzialmente siamo tutti Roald Dahl, ogni giorno, quando andiamo da un editore.

Comunque, per quelli che l’editing lo fanno con la coscienza sporca, è ignobile andare a toccare l’opera di un autore. Punto. Non me ne frega niente della sensibilità moderna, perché se la sensibilità moderna è una sensibilità nazista, allora all’improvviso diciamo che è sbagliato. Ma visto che la sensibilità è quella dei bambini, allora diciamo che è giusto. Non esiste una sensibilità di serie A o B, una sensibilità di sinistra o di destra. Se chi presenta quella storia (genitore o insegnante) non ha la capacità di definire il contesto in cui è sancita, il coglione è chi propone l’opera, non Roald Dahl. Se non impariamo dagli errori della storia, se li facciamo smettere di esistere, come possiamo non ripeterli?

Sulla stessa logica, se cancellassi l’omofobia intrinseca in certe opere del passato, oggi di fronte a una rivendicazione dei diritti omosessuali mi verrebbe detto che gli omosessuali non hanno mai subito violenze.

Se, da editor, dico a un lettore (che non sa niente del mondo editoriale): “Tutti gli autori tolgono gli avverbi dai loro libri”, il lettore pensa che sia vero, perché glielo dice qualcuno che è autorevole, quindi pensa che sia giusto. L’editor ha fatto un inquinamento, perché fa credere che tutti si comportino in un certo modo.

E della narrativa fantastica per ragazzi, invece, cosa ci puoi dire? In Italia è un ambito più florido rispetto al resto?

Metà degli studenti che ho nelle mie classi si occupa di fantastico. Arrivati a 23 anni poi decidono di scrivere storie realistiche. Il motivo per cui succede è che non riescono a trovare una comunicazione efficace. Abbiamo ancora il problema di sancire, noi adulti, nei confronti dei giovanissimi, che cos’è un libro per ragazzi. Quando loro invece avrebbero bisogno solo di stare a contatto con i libri.

Il ragionamento che abbiamo fatto prima sul fantastico dovremmo farlo anche con la definizione di “letteratura per ragazzi”. Attenzione, perché è un po’ come dire “letteratura per femmine”: è pericoloso che siamo noi adulti, cresciuti in un mondo diverso e in altri contesti, con altri tabù e logiche, a stabilire cosa è giusto o sbagliato che i ragazzi leggano.

Un conto è l’indicazione che possiamo dare circa le fasce d’età consigliate per certe letture, ma per il resto, attenzione.

Può essere che un autore decida di sua volontà di scrivere un romanzo che abbia come target i ragazzi, ma in genere è pericoloso quando l’editore lo scopre. Perché forse si parla di un mercato che nemmeno esiste: con l’espressione “per ragazzi”, si rischia di far sentire esclusa la fascia di età compresa tra i 18 e i 22 anni, che in realtà legge molto.

Se accettiamo il sistema dell’infantilizzazione continua, come diceva Chomsky, rischiamo di creare degli adulti-bambini, ovvero degli adulti che hanno bisogno di essere imboccati e a cui si deve dire come giudicare certi fenomeni sociali e culturali.

La mancanza di responsabilità è un mezzo furbo dell’editoria per tenere a bada il proprio lettore, per farlo stare fermo e condannarlo a essere un eterno bambino che aspetta che escano le classifiche per comprare i libri.

Infine, che consigli daresti agli autori che vogliono cimentarsi con il fantastico?

Di leggere qualcosa che gli parli, che sentano vicino a livello emotivo, o di tempo.

Soprattutto, per me l’importante è la domanda: perché scrivere, oggi?

Spesso continuiamo a raccontare un tempo che è ancora novecentesco, anche se da ventitré anni siamo in un altro millennio.

Lo dico spesso ai miei studenti: questa cosa sa di vecchio, di già visto e sentito. Ma non nel senso che non è originale, perché l’originalità non esiste. Solo, vorrei che avesse un punto di vista, che sapesse raccontarmi lo zeitgeist, lo spirito del tempo. Il che non vuol narrare ciò che oggi è di tendenza, ma esprimere, attraverso un certo tema, un punto di vista sul mondo. E restare in terra nostrana ci permetterebbe di raccontare il paese in cui viviamo in un modo diverso, piuttosto che scimmiottare quello che si fa all’estero, cosa che risulta sempre e comunque un artificio.

Fortunatamente, rispetto al passato oggi i lettori hanno più possibilità di trovare autori che scrivono nella loro lingua e raccontano il loro paese. Allo stesso modo, gli aspiranti scrittori possono iniziare un percorso di conoscenza di come raccontare il contemporaneo e fare un lavoro di proiezione non di quello che sarebbe, ma di quello che sarà.

Utilizzare gli archetipi del fantastico per narrare l’irraccontabile del luogo in cui viviamo: questo è il lavoro che un aspirante scrittore dovrebbe fare oggi, secondo me.


L’autore

Michele Vaccari nato a Genova nel 1980 è un esperto di editoria, cinema e comunicazione. Ha pubblicato diversi libri, tra cui Il tuo nemico (Frassinelli 2017), Un marito (Rizzoli 2018), Urla sempre primavera (NNE 2021) e il recente Buio padre (Marsilio).

Illustrazione di Benedetta Baroni