Sullo schermo i piccoli rettangoli parlano, si agitano impacciati, come pesci d’acqua dolce in un mare immenso, sconosciuto, ostile. Non vorrebbero essere lì, eppure ne sono costretti da un’improrogabile contingenza. Il Consiglio straordinario è disordinato, i microfoni aperti parlano di elettrodomestici accesi, cani che abbaiano, figli che strepitano. Forse qualcuno mentre finge di ascoltare è già ai fornelli.
Prof.ssa C: Ma questo, che dobbiamo fa’? Chiamare i genitori? Ma manco te rispondono!
Me: Però non possiamo lasciar perdere. È un recidivo, ne ha già combinate tante e appena è partita la DAD stiamo parlando di lui in un consiglio straordinario.
Prof.ssa E: Ma io non ho capito… mi sentite? Non ho capito come ha fatto a far entrare i suoi amichetti a lezione.
Prof.ssa L: Avrà passato il link, non serve essere hacker. Con chi sono entrati? Con te, N?
Prof. N: Sì, be’, io stavo spiegando, quindi non guardavo chi c’era o non c’era. Avevo lo schermo in condivisione, quindi non è che esco tutte le volte per controllare. Poi li ho sentiti ridere e ho detto, ‘spetta… e niente, c’erano questi due, aspetta che ho lo screenshot… JezuzXX e UraganoTempesta che messaggiavano.
Dirigente: Qualcuno sa chi siano questi?
Prof.ssa L: Saranno due del professionale.
Dirigente: Che scrivevano, professo’?
Prof. N: Ma, stupidate, tipo WLF, poi uno ha ruttato e l’altro ha scritto «maiale», cose così, tanto per far ridere gli altri.
Prof.ssa C: Ragazzate, ma non si può chiudere un occhio in ‘sta situazione? Voio di’, l’alunno è stato richiamato, c’è la nota sul reggistro, vediamo come si comporta e poi, eventualmente…
Prof.ssa L: No, scusa, ti interrompo subito, il comportamento va stigmatizzato in qualche modo. La lezione a distanza in modalità sincrona è come una lezione normale, dove non può entrare nessun esterno.
Prof. V: Sì però che sia un provvedimento educativo, sappiamo che le punizioni non portano da nessuna parte.
Dirigente: Che ne so, sospensione dalle attività didattiche.Me: Così è solo vacanza. Io direi sospensione con obbligo di fare un lavoro di approfondimento, non saprei… proprio sulla pandemia e la didattica a distanza? Che dite?
Prof.ssa L: Deve capire che la classe virtuale è un ambiente riservato, come se fossimo in classe. Con il suo comportamento ha fatto una cosa illegale. Dobbiamo fare in modo che gli esterni non possano entrare nel meet!……
E così il peccatore poteva redimersi. Jeet, in apparenza un ragazzo tranquillo, con interessi molto diversi da quelli che la scuola può offrire, sopportava l’attività didattica per mesi, fino a quando non esplodeva in iniziative che lasciavano il segno: una fuga di massa alle otto di mattina organizzata da lui, banchi rovesciati e insulti in reazione all’ennesimo richiamo degli insegnanti, materiali trafugati dall’aula di informatica senza un preciso scopo.
Una settimana di sospensione, sette giorni per riflettere sulle sue malefatte e preparare una presentazione sulla DAD, regolamenti, obiettivi, proposte con annessi e connessi. Sapevo quale risultato potevamo aspettarci: una manciata di slides gonfie di errori, con un copia-incolla di banalità trafugate da siti più o meno istituzionali. Tant’è, fargli capire che aveva sbagliato facendo entrare a lezione i suoi amichetti stronzi era un’impresa impossibile, ma non l’avrebbe rifatto. Il ricatto di una possibile non ammissione all’esame funzionava anche su uno come lui, e io l’avevo usato davanti al dirigente e ai genitori… anche se era lui a tradurre in punjabi, chissà cosa ha detto in verità.
***
I giorni di sospensione non andò tutto liscio. Darei la colpa di tutto alla tecnologia, ma non ne esco soddisfatto. Il fatto è che non si trattava di una comunicazione interrotta o disturbata, ma di eventi che non riesco del tutto a spiegare. Colpa di Jeet? Lui era a casa, faceva la sua presentazione o dormiva, comunque non aveva le competenze informatiche per agire sulle lezioni. Non nel modo che ho percepito io, e solo io a quanto pare. I ragazzi seguivano come sempre, i miei colleghi non hanno avuto problemi. Solo io durante una lezione di storia, mentre facevo domande sparse, tanto per vedere se i ragazzi erano attenti, ho notato una strana deformazione nell’audio.
Avevo anche preparato una bella lezione. Una riflessione a partire da un argomento di studio: l’assolutismo di Luigi XIV, la creazione della sua reggia, la prigione dorata per la nobiltà. Un luogo protetto, lontano dalle folle tumultuose, dalle rivolte. Ma questa protezione dal mondo, dalla società, cos’era, se non un isolamento? Un dubbio mi percorse la mente proprio mentre la discussione era già cominciata, forse stavo prendendo una china insidiosa: la nostra preziosa e protetta lezione a distanza, la sospensione di Jeet, la prigione lussuosa di Re Sole… iniziamo a discutere, pensai, il resto verrà da sé.
Me: Allora, R, parlami tu dell’Assolutismo.
R: Eh, Assolutisme significu «scioltu de», cioà il ro eri superioro alli legga, non aveve legamo…
Nessuna risata, nessun commento, solo io sentivo le vocali finali totalmente distorte? La voce di R, una brava ragazzina studiosa che speravo non mi avrebbe deluso, era la stessa, ma al termine di ogni singolo vocabolo impennava, assumeva una sfumatura più acuta e storpiava la vocale. Solo le ultime vocali, come un disturbo mirato, tutt’altro che casuale.
Sono rimasto lì bloccato, non sapevo se chiedere qualcosa ai ragazzi, arrabbiarmi per lo scherzo o fare finta di niente. Il tempo morto è letale a scuola, figuriamoci in DAD, allora ho improvvisato: sarei stato al gioco delle vocali modificate, giusto per capire dove saremmo andati a parare.Me: Alloru, rispondi C adessa. Perchà Luigio quattoridiciesime ere chiamata Ro Sola?
Partono delle risatine, qualcuno toglie l’audio e chiude la webcam, ma non tutti si stanno divertendo, qualcuno è visibilmente in imbarazzo: volti rossi, sguardi spaesati, brevi colpi di tosse nervosi. Non ci sono interventi significativi, solo risolini, sussurri, fino a quando dal microfono di un alunno proviene la voce imperiosa di un genitore.
D.L.: «Ma lei come si permette? È così che educa i nostri figli? E poi pretendete la correttezza…
Messaggio chiaro, preciso, senza vocali storpiate. Che avrò mai detto? La videolezione, un ambiente protetto, impenetrabile per utenti esterni, cominciava a vorticare, non riconoscevo più le voci, i volti sfumavano in una cacofonia di pixel disordinati. La vertigine iniziava a darmi la nausea. Meglio fingere una disconnessione.
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Quando il preside mi ha convocato per riportarmi le lamentele dei genitori, davvero non avevo parole. Al centro del dibattito c’era la mia volgarità, il mio scarso rispetto per gli alunni e le famiglie: entrare nelle loro case con il mio turpiloquio in un periodo così delicato era veramente un atto deplorevole. Devo aver balbettato qualcosa su un microfono aperto a mia insaputa, forse ho dato la colpa ai vicini che litigavano, ma non ho mai capito di che cosa fossi accusato di preciso. Non ricordo le mie parole, solo la bocca impastata e il senso di malessere che mi ha preso davanti a quelle accuse.
«I genitori lasciano per tutto il giorno i loro figli davanti al computer, se la Classroom non è un ambiente completamente sicuro, se non siamo noi i primi a dare l’esempio…» il Dirigente mi faceva la predica, ma non riuscivo a seguire il filo del suo discorso, ripensavo alle mie parole, alle vocali storpiate, alla voce acuta di R: di tutto quel parlare mi restavano solo le lettere distorte, la voce irriconoscibile martellava nel mio cervello e mi rendeva impossibile ascoltare. Quello che ho capito è che non si trattava di una semplice parolaccia o di un’espressione colorita sfuggita dalle labbra di un insegnante stressato. No, era qualcosa di tremendo, lesivo della dignità degli studenti e di tutti quelli che erano all’ascolto. Non potevo figurarmi parole tanto terribilmente efficaci. E non credevo di esserne capace.
Mancava poco al ritorno in classe, ma non sono più riuscito a fare lezioni in modalità sincrona. Registravo brevi video e chiedevo di consegnare gli esercizi svolti, credendo di compensare con questo lavoro la mancanza della mia voce e della mia immagine nell’orario stabilito. Ero sommerso da documenti da correggere e da esercizi e registrazioni da preparare, un lavoro soverchiante e privo di gratitudine, ma non potevo sentire ancora quelle vocali storpiate e soprattutto non riuscivo a figurarmi le mie parole, quelle frasi terribili che tutti, alunni e genitori, avevano sentito e che io ignoravo e non riuscivo neppure a immaginare.
Il giorno prima della ripresa, nella mia casella campeggiava solo una nuova mail, lapidaria, scritta tutta in maiuscolo dal Dirigente:
DOMANI PARLEREMO ANCHE DELLE IMMAGINI CHE LA RIGUARDANO. BUON LAVORO. Quali immagini mi riguardavano se non ero nemmeno apparso sugli schermi? Nelle lezioni registrate c’era la mia voce, ma scorrevano solo scritte e immagini con didascalie, mai una volta era apparso il mio volto.
C’è una cosa curiosa che mi succede solo quando leggo le mail: mi immagino una voce che la pronuncia, come se la mia mente avesse bisogno di una bocca che mi sussurra all’orecchio le frasi che leggo. In quel caso la voce del Dirigente, un tono baritonale con lieve accento di un non meglio definito Sud, era una voce femminile, fredda ma sensualissima, con le sillabe ben scandite e un lungo sospiro in corrispondenza del primo punto. Non era firmata.
***
Mi sono alzato alle cinque. Il giorno della ripresa delle lezioni avevo un presentimento, ma era un allerta scialbo, accompagnato a una sorta di rassegnazione passiva. Appena uscito di casa, mi sono ricordato di aver lasciato la luce del bagno accesa, allora sono rientrato e ho visto tutte le luci accese, dalla camera allo sgabuzzino, una cosa irrazionale, che non è da me. In fretta ho rimediato e sono corso all’auto, ma non avevo le chiavi. Erano in casa, ma non sul tavolo o appese al solito gancio, su uno scaffale della cucina davanti al quale non ero neppure passato. Mentre guidavo, perso nei dubbi, pensavo: «Che cosa sto diventando?» Niente. Non stavo diventando niente. Ero solo distratto e sapevo che a volte la distrazione può essere fatale.
Il solito percorso, che faccio da più di dieci anni, era diventato un strada piccola, sempre più stretta, che si addentrava nei campi. Dovevo girarmi, ma non c’erano spiazzi, allora, preso dall’ansia per i minuti spietati che trottavano verso le otto, sono entrato brutalmente in un campo, atterrando diverse piante di granoturco. Nel ritorno verso le strade conosciute ho incrociato un trattore, lo sguardo del guidatore era pieno di risentimento, forse addirittura odio: mi sentivo piccolo come un granello di sabbia.
Il rumore dei miei passi lungo il corridoio era un ticchettio sincopato, sgradevole. Ricordo distintamente la sensazione che provai in quel momento: tutti mi stavano ascoltando, tutti mi biasimavano per il mio ritardo. Davanti alla porta della mia classe c’era una donna alta, slanciata, una di quelle che mi mettono in soggezione. Non l’avevo mai vista, ma la sua bellezza mi faceva sentire inadeguato, e forse lo ero: trafelato, con i capelli fuori posto e gli occhiali appannati. Era più alta di me, con le spalle larghe e muscolose: se avesse voluto, avrebbe potuto davvero farmi del male. Non sapevo chi fosse, ma ho sentito il bisogno di giustificarmi, come di fronte a un superiore: «Io… ho avuto problemi con l’auto». Cercavo di mostrarmi umile, ma sembravo solo colpevole.Mi ha fissato per un lungo minuto, per poi dire tre parole: «Esistono i telefoni». Una voce bassa, sensuale, fuori luogo. Quando si allontanò lasciò dietro di sé una scia di profumo forte, che mi disturbava.
La sua figura emanava l’idea del potere, di quella sovranità assoluta e indiscutibile che viene dall’alto e che noi, comuni mortali, non possiamo fare altro che accettare. Mi sarei dovuto arrabbiare: chi era quella donna per farmi notare le mie mancanze? Ma non sono riuscito ad accennare la minima reazione, anzi, riusciva a ridimensionare ogni mia aspettativa solo con la sua presenza. Doveva essere la nuova dirigente, o un qualche grado più alto nella gerarchia scolastica che io non conoscevo, sceso dalle sfere celesti al nostro infimo livello per controllare che la ripresa fosse regolare. O forse per controllare solo me.
Non ricordo niente della lezione, come potrei? È un delirio confuso: le facce degli alunni, le loro voci troppo normali. Potrei essere rimasto lì a fissare il muro, non lo escludo. So solo che Jeet, il colpevole, non c’era. Cercavo il suo volto e non lo trovavo. Faticavo a ricordarlo, ma anche tutti gli altri mi sembravano sconosciuti, soprattutto mi sembravano pochi, come se il numero di alunni si fosse ridotto dopo il periodo a distanza. Sui banchi separati stavano in bell’ordine quaderni chiusi tutti uguali, libri con scritte che non riuscivo a decifrare. Provavo a figurarmi la faccia scura di Jeet nella mente e mi appariva sempre un volto con un tratto sformato, che andava a sovrapporsi con violenza a tutto il resto: un orecchio troppo grande, la mancanza di un labbro, un occhio sanguinante. Quando me ne andai, mi parve di vederlo in un’altra classe. Era in una delle ultime file, in mezzo a un gruppo di alunni che gli assomigliavano. Ridevano, ed in quel momento ero sicuro di essere io l’oggetto della loro ilarità. Stavano facendo un lavoro di gruppo e in fondo all’aula, a dirigere i lavori, ho notato una collega che non avevo mai visto. Era bionda, con boccoli che le incorniciavano un viso pulito. Si sarebbe potuta scambiare per un’alunna, non fosse stato per una gonna troppo corta e la camicetta troppo scollata. Quell’abbigliamento mi sembrava il meno adatto a un’aula scolastica, non riuscivo nemmeno a guardarla in volto, ma ero sicuro che anche lei stesse ridendo di me in quel momento.
Pensai di essere diventato un vecchio bigotto. Non provavo nessuna attrazione per quel corpo perfetto: il mio sguardo pieno di sdegno correva dal seno alle cosce, e proprio in quell’istante ho visto la donna alta di poco prima davanti a me. Mi guardava, anzi, seguiva il mio sguardo incollato alle forme della mia nuova giovane collega.
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È proprio vero: la classe dev’essere un luogo protetto, è dove i genitori lasciano i loro figli per cinque ore, è dove si impara il rispetto delle regole e si sperimenta la convivenza sociale, si mette in atto la tolleranza. Un ambiente predisposto per l’acquisizione di conoscenze e lo sviluppo di competenze. Non devono entrare elementi di disturbo, non devono entrare pericoli. Non devo entrare io.
Il giorno dopo sono partito a testa bassa: niente intoppi, niente distrazioni. Sarei andato dal dirigente, o dalla dirigente, visto che ormai identificavo quella donna nella nuova funzione, e avrei chiarito tutto, poi via in classe e fare il mio lavoro, come sempre, con precisione e passione.
Avevo già visto quella biondina, mi richiamava qualcosa, immagini scorte in un video di quelli molto spinti, dove lei era in ginocchio (quelle ginocchia!) in mezzo a tanti uomini. E ne avrei parlato, signorsì, altro che parlare delle mie fotografie! Erano altre le immagini di cui discutere, ammettere di aver visto quel video non era che un piccolo prezzo da pagare per la mia completa riabilitazione.
Mi aspettavo un clima ostile, sguardi di disprezzo, mille ostacoli, invece niente. Dieci minuti prima della campanella ero davanti alla porta della scuola. Chiusa.
Non era festa, non erano previste chiusure straordinarie, eppure la scuola era chiusa ed ero solo. Nel parcheggio la mia auto era un puntino stonato. Potevo andarmene, ma avevo la sensazione che appena svoltato l’angolo, il parcheggio si sarebbe animato e la scuola avrebbe preso vita. Oppure erano tutti là dentro, accucciati dietro alle tapparelle abbassate nella speranza che me ne andassi presto. Mi sono seduto in macchina, nel parcheggio deserto, ad aspettare che quel crudele esperimento ai miei danni finisse, ma passavano le ore e verso le undici mi sono trovato in mezzo a un nubifragio temendo, che non mi lasciava vedere nulla oltre i finestrini.
***
Niente vendetta, niente redenzione. Ma è giusto così, adesso l’ho capito, nel recinto protetto della scuola non deve entrare il male, e il male sono io. Non è la biondina che istruisce i ragazzi con dolci parole che escono dalle sue labbra sorridenti (Dio, quelle labbra, che cosa hanno fatto?), non è la donna alta e nerboruta dalla voce sensuale, che potrebbe torcermi un braccio o limitarsi a schiacciarmi con la sua algida bellezza. Sono io, con le mie parole che non ricordo di aver pronunciato, con le foto che girano in rete e non ho mai scattato. Sono io che non riesco più a varcare quella soglia.
Vivo in un incubo che non mi spiego, ma è reale e sono fin troppo sveglio. Mi trovo davanti alla porta della scuola, questa volta aperta e pronta ad accogliermi, e capisco di essere in ciabatte. Devo entrare così, sottopormi al pubblico ludibrio? Quindi torno indietro per cambiarmi e trovo solo scarpe spaiate. Mi affanno, inizio a piangere mentre le lancette dell’orologio galoppano e si prendono gioco di me. La prossima volta scenderò dall’auto e scoprirò di essere in mutande, come nel più classico degli incubi. Succederà, è solo questione di tempo.
Ma mi aspetta anche altro, qualcosa di più sottile, strisciante e oscuro. Questi giochetti pseudo onirici finiranno e sarà la stessa rete della mia parte più oscura a trattenermi. Non potrò mai più raggiungere la scuola, e tuttavia cercherò sempre di farlo, anche se i vermi inizieranno a divorarmi le dita dei piedi, i piccioni mi assaliranno con il loro sordido carico di escrementi proprio davanti all’ingresso, demoni sconosciuti, che solo io potrò vedere, mi faranno urlare di terrore e disgusto davanti a tutti, mentre mi divincolo con la mia bella borsa di pelle, piena di bigliettini carichi di parole sconosciute che parlano di me, ma io non le capisco.
L’autore
Carlo Salvoni, insegnante di scuola media, scrive da circa vent’anni. Ha pubblicato diversi romanzi e raccolte. Ultimamente si è dedicato alla narrativa weird-horror. L’ultima pubblicazione è Necromitologia. Storie senza nomi (Elison publishing, 2022).
Illustrazione di copertina di Benedetta Baroni