I cigni

[Racconto già pubblicato su Specularia Dicarta numero due]

La cosa più difficile era stato portarla a casa.

Non poteva spiegare perché l’avesse presa. Non poteva neanche dire di avere agito d’impulso. Era uscita riprendendo il suo documento in portineria, chiacchierando di come sarebbe andata subito via. Era salita in macchina e aveva preso la via per la stazione. Alla prima rotonda aveva svoltato ed era tornata indietro. Aveva fatto il giro, e aveva parcheggiato sotto al muro di cinta del Giardino delle Statue. Aveva aspettato la notte per scavalcare, e l’aveva presa. Per farsi seguire le aveva mimato gli stessi gesti che le aveva visto fare il giorno prima, con gli altri due.

Aveva aperto le braccia e le aveva richiuse, sfiorandosi i fianchi con le mani, come un’anfora. Lei si era avvicinata, e si era fatta sollevare fino al di là del muro. Le aveva aperto la portiera, e la bestia era salita fino al sedile posteriore, pur con qualche incertezza. Aveva allungato il collo e se ne era servita come una leva, per trascinarsi goffamente sopra con le zampe sul sedile posteriore. Del resto, erano le sue prime prove da bestia.

Si erano allontanate dalla città nella notte buia. Dallo specchietto retrovisore ogni tanto vedeva l’animale muovere il collo, come a misurarne la lunghezza. Le sembrava lo tenesse più disteso. Ogni tanto sollevava la testa verso di lei. Elena si sentiva premere dentro quelle biglie mute e senza sclera, mentre guidava verso casa, e intanto, chilometro dopo chilometro, cercava una soluzione razionale, un cassetto della sua vita nel quale inserire un animale di una decina di chili, del quale non conosceva nulla. Abitudini alimentari, pratiche igieniche. Neanche se fosse mammifero o meno.

Mentre la strada le scorreva sotto, i fari bassi a tracciare i chilometri, cercava di rimettere ordine. Aveva modellato la sua intera vita per evitare imprevisti e picchi, e adesso le domande le bucavano i pensieri, come spine di cactus.

Quanto dorme un cigno? Cosa mangia un cigno? Era illegale possedere un cigno?

Arrivò a casa che era da poco passata la mezzanotte. Trovò parcheggio subito, e ringraziò la città di provincia in cui le era toccato in sorte di vivere, che al primo scurarsi si spegneva, soffocata da un velo di cenere. Aprì lo sportello e inclinò il sedile, facendosi di lato. La bestia sporse il collo fino quasi a terra, sbilanciandosi in avanti. Le zampe frullarono a vuoto sul sedile, raschiando la macchia di cioccolata. Si era incastrata. Elena strinse i pugni per soffocare l’impulso di afferrarla per il collo e strapparla via. Mentre il bambino affiorava, l’ovetto kinder in mano, la bestia poggiò una guancia a terra e facendo leva si liberò. Quando si rimise sulle zampe, aveva le piume intorno al becco striate di catrame. Era buffa e patetica insieme.

Elena provò angoscia. Era stata lei. Era stato per colpa sua. Era sempre colpa sua, pensò, ma non poteva concedersi un pensiero oltre. Nonostante il silenzio, la città aveva sempre mille occhi. Lei lo sapeva bene. Attraversò la strada, e l’animale la seguì. Anche senza voltarsi poteva sentirne l’affanno, il battere scomposto delle zampe sul basolato del marciapiede.

Salirono in ascensore. Elena vide la navicella che si bloccava, la chiamata al pronto intervento. L’arrivo dei pompieri, la fermata al piano, la vicina di fronte con la retina sui bigodini che allungava la testa fuori dalla porta, come una gallina. Elena chiuse gli occhi, e vide il collo reciso, il sangue zampillare dal taglio netto. Ma l’ascensore non si fermò, e anche al piano non c’era nessuno. Una strana euforia la prese. Una volta entrate in casa, decise di farsi un tè, e per l’occasione tirò fuori le tazze inglesi dai profili dorati che tintinnavano al tocco, insieme alla tovaglietta con le rose ricamate agli angoli. Mise la teiera al centro, a nascondere quella brutta macchia.

Le aveva aperto la stanza del bambino, accendendo la luce con un movimento automatico, senza oltrepassare la soglia. L’aveva sentita arrampicarsi sul letto, fare qualche giro in tondo a cercare il punto più comodo, la fossa nel materasso, come se sapesse. Come se fosse il suo letto da sempre. Era rimasta in piedi davanti alla porta, al buio, a cercare di ricostruire i due giorni passati al Collegio Albireo.

A cena avevano parlato de L’attimo fuggente, questo lo ricordava. Era stata lei stessa a parlarne, colpita dai toni del Collegio Albireo, le divise austere dai colori primari, i polpacci torniti nei calzettoni al ginocchio, le code di cavallo tirate alte. Tutto così simile a certi college americani, come quello del film. Elena aveva citato Neil, il ragazzo appassionato di teatro. Anche io faccio teatro, aveva detto C dal collo lungo, ed Elena aveva proseguito a dire del film, di quanto lo trovasse banale e scorretto. Portatore di un messaggio pedagogicamente ambiguo, così aveva detto. Non si può far salire i propri allievi sui banchi senza tenere conto del contesto. Il professor Keating è responsabile del suicidio di Neil.

La notte poi aveva sognato tre cigni.

Nuotavano lenti in un laghetto dalle acque viscose, la testa china, il collo torto, e dallo stesso lago si sentì riemergere lei stessa, il cuore di fango, gli occhi sbarrati. Dalle imposte filtrava una chiarore appena accennato, premonitore di un mattino ancora lontano. Un uccello si lamentava in lontananza. Elena si era rannicchiata di lato, coprendosi il volto con una maglietta, in attesa che tornasse il sonno. La camera era fredda in una maniera inusuale per aprile, durante la notte si era dovuta alzare più volte. Per indossare dei calzini, mettersi una felpa, cercare una coperta.

Si era risvegliata verso le nove. Aprendo la finestra l’odore di stallatico l’aveva investita. Era andata verso la porta, a verificare che fosse chiusa, contrariamente agli usi del luogo. Noi teniamo sempre le porte aperte, le aveva detto C dal collo lungo. Si era fatta una doccia bollente. Un getto ad altra pressione, convogliato dal rosone di qualità dozzinale, l’aveva svegliata. È un gesto di fiducia, aveva detto. Si vestì e andò a fare colazione.

I locali erano gli stessi della cena della sera precedente. Tavoli quadrati e troppo ampi per permettere una vera conversazione, con una divisione degli ospiti che la sera prima aveva faticato a comprendere. Le matricole da una parte, gli anziani dall’altra. E in mezzo?, aveva chiesto a C dal collo lungo. In mezzo c’è il Purgatorio, aveva risposto lei. Le persone che devono dimostrare il loro pentimento, aveva aggiunto toccandosi il collo, e lo sguardo di Elena era passato su un uomo seduto in fondo, a un angolo. Stava ingobbito dentro a un cappotto pesante, nonostante l’aria già di primavera, e sembrava straordinariamente vecchio. Troppo per essere uno studente. E lui? È rimasto incastrato?, aveva detto ridendo, ma nessuno le aveva risposto.

Adesso la sala era semivuota, molte lezioni del mattino erano forse già cominciate. Elena prese dello yogurt e del pane, e si sedette a un angolo di un tavolo vuoto. Si guardò intorno, a cercare qualche volto noto. Intorno a lei tutti indossavano la medesima felpa dai colori accesi. I tre cigni del sogno proseguivano a tornarle in mente. La sera prima aveva cenato con tre ospiti del collegio. Erano le deputate alla sua accoglienza, per la conferenza.

La prima aveva un brillantino in un canino che emergeva in risate corte e fuori contesto. Lei è dell’ultimo anno, le aveva detto C dal collo lungo. Ho finito di subire, aveva detto l’interpellata, e poi si era fatta seria. Sembrava una lupa. L’altra indossava una maglia di lurex, e sembrava tutta un po’ metallica, come ricoperta da uno strato di vernice uniformante da cui era difficile tirar fuori i lineamenti, i pensieri, le parole. Matricola, le aveva sussurrato C dal collo lungo. Anche lei a prima vista sembrava indistinguibile dalle altre. Nessun nome, nessun particolare. Solo un’iniziale, e quel modo di piegare il collo da un lato mentre rispondeva alle sue domande, e fra le frasi smozzicate emergeva il regolamento del Collegio Albireo.

L’organizzazione temporale, con le feste di inizio anno e di fine anno, la scansione della giornata e della settimana, gli obblighi sportivi e di rappresentanza. L’organizzazione spaziale, le camere deputate alle matricole e quelle per gli anziani, i posti decisi per le matricole, e in mezzo i non detti, smozzicati, le parentesi i puntini di sospensione e le lineette lunghe della punteggiatura ordinata di una vita già decisa. Il tempo delle nottate, per chi doveva espiare. Gli spazi, separati, angusti, o anche molto esposti, per chi doveva espiare. C raccontava, toccandosi il lungo collo da cigno, e intanto la guardava con occhi imploranti.

Prima un colpo, poi un altro. Le due botte alla sedia la scossero dai suoi pensieri. Due ragazzi erano inciampati mentre andavano ad attaccare la felpa all’attaccapanni, davanti al grosso camino. Un terzo passò, strisciandole alle spalle, di nuovo un colpo alla sedia. Elena cominciò a sentirsi inquieta, mentre i tre si sedevano ridacchiando fra loro a un tavolo in fondo. Accanto a loro Elena riconobbe la ragazza Lupa e la ragazza Lurex. Le due si voltarono a guardarla senza dare segno e ripresero a fare la loro colazione.

Elena sentì una fitta allo stomaco. Forse aveva mangiato troppo yogurt. Si alzò e uscì. Prese il telefono, cercando un punto in cui prendesse, fino al centro del cortile. C dal collo lungo le aveva lasciato il suo numero la sera prima, per ogni evenienza durante la notte. Digitò il suo nome. Controllò l’ultimo accesso. La sera precedente. Mezzanotte. Poco dopo che si erano lasciate.

Alzò gli occhi verso i piani superiori, loggiati geometrici di archi dalle proporzioni perfette la circondavano, in una prospettiva come di un panopticon, che permetteva di intravedere dietro alle pareti, sotto ai solai, lungo i corridoi, fino dentro alle stanze. Scrutò negli angoli, fra capitelli di pietra perfetta. Il giorno prima, appena arrivata, aveva notato il collage di schermi davanti al quale il custode aveva controllato la sua identità. Provò a chiamare il numero. Teniamo sempre le porte aperte, le aveva detto C dal collo lungo. Non è un obbligo, ma un segno di fiducia. E adesso non era raggiungibile. Un brivido la prese.

L’invito per la conferenza era arrivato nell’autunno precedente. Ci pregiamo di invitarla nel nostro Collegio Albireo, diceva la mail, citando un contatto preso in un’altra occasione di cui lei però non ricordava nulla. Né il momento in cui le avevano chiesto il numero né quando lei lo aveva dato.

Era arrivata nella città di P in un quieto pomeriggio di mezza primavera. Dalla stazione aveva preso un taxi, e il tassista, un ragazzo con una lunga coda di cavallo e una maglietta nera dalle maniche tagliate, si era profuso in insulti contro la cittadina di provincia. Il suo aspetto, unito alle condizioni della sua auto, la carrozzeria lercia, il baule che non si chiudeva bene, tutto contrastava con l’aria austera dell’edificio di fronte a cui l’aveva lasciata. Da una scalinata ricamata di ciottoli come balze di trina si arrivava a un portone di legno nero, finemente intagliato con un tema simile a una grata, nello stile carico di quel gigantismo architettonico aggressivo tipico di certe epoche storiche. La accoglieranno tre nostre ospiti, le aveva detto il custode dopo il passaggio dei documenti, e così erano arrivate loro: la ragazza Lupo, la ragazza Lurex e C dal collo lungo. Sono io che l’ho contattata, aveva detto quest’ultima. Ho letto tutti i suoi libri. Anche io voglio fare la scrittrice, aveva aggiunto, e la ragazza Lupo aveva riso, svelando la lucentezza del canino.

E adesso C non rispondeva. Mandò un messaggio. Non ti ho vista a colazione, scrisse ma rimase non consegnato. Elena non sapeva che fare, paralizzata al centro del cortile. Un perimetro ampio e angusto allo stesso tempo, una sensazione amplificata dal silenzio dei passi che si intuivano lungo i corridoi lontani. Alzò gli occhi verso il cielo, aprendo e chiudendo la bocca come un uccello, alla ricerca di aria.

Si sporse verso la guardiola. Il custode guardava sugli schermi lo scorrere delle telecamere con aria bovina. L’ingresso principale, la scala per i dormitori, l’accesso alla sala mensa. Sullo schermo si muovevano le ombre. Non c’è l’uscita per Giardino delle Statue, pensò Elena, e subito si avviò verso il lato est dell’edificio, senza pensare altro, come le gambe si muovessero da sole. Arrivata davanti alla cappella si fermò. Spinse la porta di mosaici intarsiati ed entrò, stringendo gli occhi per abituarsi alla penombra. Un ragazzo dalla lunga coda di cavallo suonava il Chiaro di luna. Al suo ingresso si era interrotto un attimo, fino a che lei non aveva fatto un cenno di assenso, a dimostrare dimestichezza con il luogo, e lui aveva ripreso. La volta a botte e le pareti, blu cupo, erano punteggiate da piccole foglie dorate come occhi sottili, che si trasformavano in uccelli dal piumaggio screziato, spessi come una tappezzeria. Elena ci passò sopra una mano, come ad afferrarli.

Venite spesso?, aveva chiesto a C dal collo lungo il giorno prima, quando prima della conferenza le tre ragazze l’avevano accompagnata a fare quello stesso giro. Ci sono i canti dei salmi da dire ogni domenica, aveva risposto lei indicando la lavagna vicino all’altare. Ma non è obbligatorio, aveva aggiunto, e poi aveva piegato il capo, toccandosi il collo, e così fece Elena in quel momento, a ricordarlo. Prese il telefono, controllò i messaggi. Niente. Una fitta la prese, di nuovo. Fra poche ore sarebbe stata a casa, si disse voltandosi per uscire. Gli uccelli alle pareti sembrarono spostarsi.

Aveva deciso di rifare tutto il giro del giorno prima, a cercare una traccia. Scese di un piano, lungo una scala a chiocciola in pietra. Sotto ancora si intravedeva una sala sotterranea. Tavoli ordinati e lampade accese, come una sala di preghiera.

Cosa è, aveva chiesto il giorno prima.

La sala studio, aveva risposto la ragazza Lupo.

È buia, aveva obiettato lei.

Infatti a me non piace, aveva risposto C dal collo lungo, mentre la ragazza Lurex le superava per aprire un cancelletto. Lo stesso che lei adesso aveva trovato aperto. Cosa sto cercando, si era chiesta abbassando la testa per superare l’arco dell’uscita sul giardino nel retro, e chiedendosi che idea di progetto ci sia, dietro un edificio che alterna portoni ampi come elefanti a porticine da casa delle bambole, stanze affrescate con cura a sale dai tavoli bui, se non l’intento di dominarti. Di decidere quando mostrarti il cielo e farti respirare, e quando farti abbassare la testa per poter passare. Fece pochi passi in direzione del Giardino delle Statue e uno squillo breve, come di tromba, la fece trasalire.

Un grosso cigno le sbarrava la strada, soffiando minaccioso, in una scena identica al giorno precedente. Elena non aveva mai visto un cigno così da vicino. Aveva uno strano modo di stare seduto, con le zampe ripiegate indietro, come remi di una barca in secca. Dietro di lui un altro, identica postura, così diversi dall’iconografia da decorazione di torta nuziale da matrimonio di provincia, sale ampie chiuse da vetrate scorrevoli e linoleum a terra, dove due cigni uno speculare all’altro si toccano con il becco, il collo a formare un unico cuore. Stavano immobili, la testa piegata da un lato, il collo che pendeva, come spezzato, in una posa quieta e minacciosa al tempo stesso, potenza che aspettava di farsi atto. La ragazza Lupo e la ragazza Lurex si erano fermate, ed Elena si era voltata indietro, pronta a scappare via. Ma C dal collo lungo aveva fatto un passo, e poi un altro verso le due bestie. Procedeva a gambe larghe, agitando le braccia ai lati del corpo, come in una strana danza esotica.

Sciò sciò, diceva, nel tono una strana nota canterina, e i due uccelli dopo una prima titubanza avevano tirato giù le zampe e si erano sollevati. Ma non erano andati via, anzi, si erano messi a soffiare più forte contro loro tre, Elena e la ragazza Lupo e la ragazza Lurex. Percepivano la paura, e non intendevano sottomettersi a chi aveva paura di loro.

Non ti preoccupare, disse C dal collo lungo a Elena, sempre con stessa nota canterina. Ora si spostano, disse, e in effetti i due cigni si fecero da parte, permettendo loro di scendere a visitare il Giardino delle Statue.

Lei ci parla con i cigni, aveva detto la ragazza Lupo, e adesso al ricordo il luccichio del brillantino penetrava gli occhi, come un laser.

I cigni il giorno prima si erano spostati, e adesso non parevano averne intenzione. I cigni il giorno prima erano due, e adesso erano tre, come nel sogno, di cui via via altri particolari la colpivano, come lampi. Il più grosso stava riverso su un tavolo metallico, come di una stanza autoptica, il collo che pendeva dal bordo. Elena lo prendeva con entrambe le braccia, e cominciando a massaggiarlo, fino a che l’animale non si distendeva, il becco rivolto verso l’alto, gli occhi chiusi.

Erano tre cigni, adesso, ed Elena non riusciva a muoversi. Due cigni e tre accompagnatrici, tre cigni e due accompagnatrici, solo questo riusciva a pensare. E un messaggio non consegnato. Il cigno mai visto si era mosso verso di lei puntandole addosso il suo sguardo implorante, ed era stato allora che Elena aveva deciso. Aveva preso il suo bagaglio, ritirato il documento, si era messa in macchina per andare via, per tornare. Chissà se anche gli altri due, si era chiesta Elena quella notte, guidando verso casa, e subito aveva scacciato il pensiero con un movimento della mano. L’aveva guardata dallo specchietto retrovisore. Dormiva, il collo morbido allungato sul sedile, ed Elena aveva intravisto la mano di C che si toccava la nuca, l’attaccatura dei capelli. Ne aveva sentito la voce canterina. Sì, aveva fatto la cosa giusta. Del resto, era stata colpa sua.

Era stato alla fine del seminario, prima di andare a cena, fuori dalla sala conferenza, al primo piano. Nello spazio breve di una sigaretta, gli occhi che seguivano le diagonali del basolato, i ciottoli di fiume tutto intorno. Nonostante dal piano terra non fosse evidente, la pianta non era simmetrica, e in direzione est ovest si allungava in quelli che sembravano due braccia.

La chiamano la costellazione del Cigno, aveva detto C dal collo lungo, intuendo le sue domande, e le aveva sorriso.

Chi la chiama così?

Alcuni, aveva risposto lei, alzando le spalle. Poi si era guardata indietro. La ragazza Lupa e la ragazza Lurex scendevano già le scale. Qui ci sono nomi strani per tutto, aveva aggiunto.

Come il Purgatorio in sala mensa?

C dal collo lungo aveva fatto un cenno di assenso con la testa. C’è anche il Paradiso, è su, nelle stanze dell’ultimo piano. Sono gli alloggi migliori, aveva detto, e aveva sorriso di nuovo.

Elena l’aveva guardata e aveva pensato a quanti tipi di sorriso ci fossero, e come la parola stessa – sorriso – fosse ingannevole. Un inganno tutto umano. Gli animali non sorridono, aveva pensato, non sapendo quanto presto avrebbe avuto modo di ricredersi.

E chi sono i fortunati?, aveva replicato distratta, mentre il pensiero le andava al suo studentato lontano, alle pareti impregnate del tanfo delle cavolacee che la sua compagna di stanza preparava ogni giorno.

Non si tratta di fortu-, aveva risposto la ragazza, l’ultima sillaba spezzata come da un’assenza di fiato.

Elena si era sporta verso il cortile. Per un anno intero aveva condiviso lo spazio con quella beghina vestita male, che pregava in continuazione e andava a dormire alle nove di sera, obbligando anche lei al buio.

E di cosa allora?, aveva chiesto, e C dal collo lungo aveva balbettato qualcosa sui criteri di assegnazione, sulle camere che potevano diventare molto fredde o molto calde, a seconda dei momenti. Di infissi che venivano sequestrati la notte d’inverno, e di stufe accese d’estate. E poi di prove che le matricole facevano, di notte, al buio, in giro per tutto l’edificio. È grande, aveva detto. Così grande che a volte non ci si crede.

Elena l’aveva guardata. Dopo tanti anni, comportamenti sempre uguali. E a sentire loro, non c’era mai niente di male. L’odore del cavolo bollito le invase le narici.

È per questo che tenete le porte sempre aperte?, aveva sbottato. E poi: Chi sa di comportamenti del genere e non si ribella è come loro. Anzi, forse peggio, aveva aggiunto.

Nel tempo il ricordo dei due giorni nella città di P si fece confuso. Della conversazione con C dal collo lungo conservava solo pochi fotogrammi, e qualche suono. Ricordava il trasalire della ragazza quella sera, mentre lei spegneva la sigaretta, a sentire il fischio lungo e modulato della ragazza Lupo che le richiamava da sotto. Ricordava loro due che scendevano le scale e seguivano le altre nella sala comune, per la cena. Il vecchio dentro al cappotto che mangiava in un angolo, le battute sul Purgatorio. La cura con cui aveva chiuso a chiave una volta in camera, prima una mandata, poi una seconda. Le ricerche che aveva fatto, già a letto. In rete aveva trovato poche informazioni, tracce di uno scandalo di qualche anno prima. Uno studente chiuso dentro un armadio per uno scherzo, così lo raccontavano i compagni. Le ante rivolte al muro e lui svenuto dentro, solo, al buio. Era stato ritrovato dopo molte ore. A seguire, un cambio ai vertici. Da là, nessuna altra notizia.

Intorno, brandelli di ricordi, sempre più confusi e difficili da mettere in ordine. L’arrivo in taxi, il custode e le telecamere, l’incontro con le tre accompagnatrici, la conferenza, la cena, il ragazzo che suonava l’organo in chiesa, i colpi sulla sedia a colazione. E poi i cigni. I cigni il giorno prima, i cigni in sogno, i cigni il giorno dopo. Anche la sequenza degli avvenimenti si sfocava in contorni incerti. Non poteva avere preso un taxi, visto che era tornata a casa con la sua auto. E il tassista assomigliava al ragazzo che suonava l’organo in chiesa. Forse erano la stessa persona. E non poteva più dirsi certa che a colazione ci fossero la ragazza Lupa e la ragazza Lurex, e che non l’avessero salutata. Del vecchio dal cappotto pesante più nessuna traccia.

Nel tempo aveva preso a uscire sempre meno, se non per commissioni indispensabili. Qualche spesa, qualche visita. Sapeva bene che doveva stare attenta, che nessuno doveva sapere, e gli eventuali problemi dovevano essere risolti in maniera discreta. Come il cane della vicina di fronte, che aveva preso a fermarsi davanti alla porta, a ringhiare, a grattare. Una mattina che aveva tenuto la porta aperta per un momento di troppo, indecisa se prendere o meno l’ombrello mentre usciva, il botolo le si era infilato fra le gambe, riuscendo quasi a entrare in casa. Dietro di sé Elena aveva sentito un fruscio scomposto seguito dallo scrosciare di vetri in frantumi.

Ha ospiti?, aveva chiesto la vicina di fronte muovendo il capo a destra e a sinistra, a cercar di sbirciare dentro, ed Elena aveva capito di non avere scelta.

Un colpo di vento, aveva risposto uscendo sul pianerottolo. Si era tirata dietro la porta con un colpo secco, il cane in braccio. Lo teneva saldo da sotto al garrese, ne aveva sentito il battito accelerato e caldo. Pochi giorni dopo Elena aveva assistito da dietro alle imposte all’arrivo del veterinario. La vicina di fronte in vestaglia che aspettava davanti al portone, le mani tremanti di Parkinson. Il suo Briciola non accettava mai cibo dagli sconosciuti, l’aveva sentita commentare da dietro la porta. Ma il veterinario era certo, la povera bestiola aveva mangiato una polpetta avvelenata.

A volte, specie nei primi mesi, leggeva on line la cronaca della città di P. La studentessa CR, del Collegio Albireo, era scomparsa in una giornata limpida di metà aprile. La sera prima aveva salutato le sue compagne subito dopo cena, come al solito, ma la mattina dopo non si era presentata al corso di teatro. La sua camera era stata trovata intatta. Il letto rifatto, la finestra serrata. Qualcuno, nelle settimane successive, aveva messo in relazione la sua sparizione con l’abbandono improvviso del Collegio da parte di altre due ragazze, qualche mese prima. Anche di loro non si era saputo più niente. A volte pensava alla ragazza Lurex. Si chiedeva che fine avesse fatto. Se fosse riuscita, come la ragazza Lupo, a finire gli anni del Collegio. A volte pensava ai cigni nel giardino. Si chiedeva quanti fossero adesso. A volte, di notte, appena chiusi gli occhi, sognava di correre indietro, e portarli tutti via con sé.

A volte la notte uscivano. Scendevano caute la scala d’emergenza che portava al piccolo giardino condominiale. Stavano là, in quel fazzoletto di terra, e giocavano. Elena apriva e chiudeva le braccia, con gesti larghi come braccia di anfora, e il cigno si spostava a destra e a sinistra, facendo finta di spaventarsi. Nelle notti senza luna si concedevano una breve passeggiata fino al laghetto. Mentre C si immergeva, Elena si sedeva al limitare della ripa, a cercare di intuirne il riflesso nel ventaglio delle onde.

Nei giorni più caldi tirava fuori la piscinetta del bambino. La sistemava in corridoio, e mentre il cigno rimaneva seduto, ad aspettare paziente che si riempisse d’acqua, Elena sentiva il bambino affiorare. Seduta in poltrona, gli occhi aperti come trafitti da mille spilli, lasciava che le ombre si fissassero in controluce, sovrapponendosi al resto.

Prima di andare a dormire prendevano un libro. Accoccolate a terra, C le poggiava il collo in grembo, ed Elena leggeva e ci infilava le dita dentro, come in una testa di tanti capelli. Non appena il bambino cominciava ad affiorare, alzava il tono della voce, e il cigno faceva un piccolo movimento del becco, come un buffetto. Così il tempo si rimetteva in ordine.

La loro lettura preferita erano i racconti di Flannery O’Connor. A volte Elena le raccontava dei pavoni. Le mostrava la foto in bianco e nero della scrittrice. In piedi, sorretta dalle stampelle, il vestito a disegni piccoli, le scarpe con il mezzo tacco, i capelli appuntanti dietro e gli occhiali allungati, da gatta, tutto intorno i pavoni. Loro non dovevano nascondersi, pensava Elena mentre metteva via la foto, riprendendo in mano il libro, e proseguendo a raccontarle di Flannery, di come da bambina avesse insegnato a un pollo a camminare all’indietro. Anche lei poteva insegnare a camminare all’indietro al cigno, pensava. Ma poi non lo diceva, e si rimetteva a leggere.

Solo a volte ripensava a Neil, al bad professor, ai ragazzi in piedi sui banchi, O capitano, mio capitano. Era stata come il professor Keating, il tempo di una sigaretta era stato il loro attimo fuggente. In quei momenti gli occhi le si riempivano di lacrime. Allora si abbandonava su C. Gli occhi chiusi, le piume del collo a solleticarle il naso, chiudeva gli occhi e lasciava che tutto affiorasse.


L’autrice

Veronica Galletta è nata a Siracusa e vive a Livorno. Ha un dottorato in ingegneria idraulica e scrive racconti e reportage narrativi da una decina di anni. Ha tenuto laboratori di scrittura creativa per minimum lab ed Emergency, ha partecipato ad antologie, ha curato prefazioni di romanzi e testi ibridi. Nel 2020, con il romanzo Le isole di Norman ha vinto il Campiello Opera Prima. Nel 2022, con il romanzo Nina sull’argine è stata finalista al Premio Strega e ha vinto il Premio Letteratura d’Impresa. Il suo ultimo romanzo Pelleossa è uscito a ottobre 2023 per i tipi di minimum fax.