La barzelletta dell’omino verde


Alla fine gli alieni erano arrivati davvero, dopo aver fluttuato per cinque mesi e mezzo nei cieli cinesi e statunitensi. Uscirono dai loro gusci dopo che uno dei loro palloni aerostatici era andato ad arenarsi sulla costa giapponese e i giapponesi invano avevano tentato di spaccarlo, prima credendo che fosse vuoto, poi credendo che fosse uno scherzo, e infine vedendo spuntare il primo extraterrestre frantumando quella capsula bianca, e a poco a poco migliaia di altre capsule erano affiorate lungo le coste di tutti i mari del mondo. E il segreto di tutti i governi non era durato molto più a lungo. E ora anche l’intervista al ministro era conclusa: era una buona intervista e il mio direttore lo sapeva. Lo sapeva perché la avremmo pubblicata in esclusiva, e un’intervista in esclusiva è sempre una buona intervista. L’intervista sarebbe stata pubblicata il mattino seguente e lui ne era felice, e anzi forse addirittura non ne vedeva l’ora, anche se sapeva che quasi immediatamente sarebbe stata copiata da tutti i giornali, però sapeva anche che pur copiandola avrebbero dovuto citare il suo nome e quello del nostro giornale, e sapeva anche che in ogni caso l’intervista avrebbe fatto il botto lo stesso, sia sul cartaceo che dietro il paywall per le prime due ore. Tutto questo lui lo sapeva, o almeno lo immaginava, perché aveva delle aspettative. Ma ora bisognava fare i conti con il ministro in persona, e questo era tutto un altro discorso.

«No» gli sta dicendo infatti il ministro al telefono «questa cosa meglio che la togliamo». Lui si passa le mani tra i capelli e dice al ministro sì ministro, certo ministro (lo immagino bene, il mio direttore, mentre parla e sorride con il vivavoce). «Certo» dice il ministro «è vero che abbiamo parlato della loro pigmentazione, ma è meglio che la loro pigmentazione nell’intervista non la citiamo». Sì ministro, certo ministro, risponde lui, il mio direttore amatissimo, dentro il suo ufficio vuoto a fine giornata, alzando gli occhi al cielo e mordendosi a sangue la lingua (lo immagino bene, il mio direttore, mentre si morde a sangue la lingua).

Io in quel momento ero seduta nella parte meno assolata della città assolata, all’ombra di uno dei muri più alti, a margine di una piazza battuta dal vento. Ero seduta nella penombra acquosa di uno di quei bar che sembrano una caverna, ed ero ammorbata da afa e sudore, come se dovessi respirare oltre all’afa anche il sudore e oltre al sudore anche il canto perenne delle cicale, quel canto che gonfiava ogni cosa come l’umidità sotto una carta da parati. Mia cara Sara, aveva detto Caterina quando era arrivata, nemmeno baciandomi ma sfiorandomi il viso con le sue labbra gonfie e roventi, sedendosi con delicatezza lì accanto, piazzando il culo in punta alla sedia e le spalle sul margine dello schienale, sventolando la gonna lunga e tenendo le gambe divaricate. Mia cara Sara, aveva detto, e poi aveva aggiunto: ho un caldo che crepo. Quel cielo era incredibilmente vuoto e scintillante e bianco e sembrava la parete d’acciaio di una lavastoviglie nuova e noi lì sotto eravamo riflesse e distorte nel cielo stesso opaco e brillante. Subito dopo era spuntato dalla penombra del bar il cameriere alto e idiota e con gli occhi cerchiati di sonno si era esibito nel meglio dei suoi cosaviportoragazze sotto a quel cielo vuoto e incredibile e privo di nuvole che nemmeno a pensarci razionalmente avresti detto che fosse davvero così vuoto e incredibile. Gli alieni erano arrivati da un paio di settimane, noi lo sapevamo da tre giorni e io avevo ancora negli occhi le strisce di schiuma che avevano attraversato i mari nelle loro longitudini come i filetti dei mandarini, quelle strisce di schiuma sobbollenti e improvvise, e pensavo ancora alla voce preoccupata di mia madre e ai telefoni che in redazione avevano squillato in continuazione. E così tre giorni dopo ero seduta nella città accaldata e avevo legato i capelli e avevo chiesto al cameriere di portarmi uno spritz e Caterina gli aveva chiesto uno spritz con tanto ghiaccio e tanto campari, tesoro, e tesoro lo aveva detto nell’unico modo in cui si può dire: con tanta ironia nella voce. E appena il cameriere con i suoi occhi cerchiati di sonno si era dileguato di nuovo nella penombra io avevo detto a Caterina: ma ti pare che ti porta davvero uno spritz con tanto campari. E lei aveva detto: più chiedi le cose buffe, più i camerieri te le portano volentieri, perché si annoiano da impazzire. E Caterina aveva sorriso sventolandosi furiosamente con un depliant e aveva detto di nuovo: Sara mia cara che caldo che ho.

E poi di nuovo, lievemente reclinandosi in avanti ben attenta a non ripiegare troppo la pancia per non appicciarsi al suo stesso sudore: Sara mia cara allora come stai che mi racconti? E quindi bene, risposi, accaldata. Tenevo le braccia dispiegate sulla sedia come un mantello o un k-way sentendo tra le ascelle il sudore a ventosa. E a quel punto anche io chiesi a Caterina la stessa cosa: e tu come stai, che mi racconti? Perché sapevo che presto saremmo finite a parlare di nuovo del Grande Evento, di quelle strisce di schiuma e di quei palloni aerostatici, e poi avremmo parlato di nuovo di cosa stessimo facendo tre giorni prima, il pomeriggio in cui era arrivata la notizia, di come lei stesse facendo la doccia e avesse trovato il telefono impallato di notifiche e sulle prime avesse creduto che fosse uno scherzo, come avevamo creduto tutte, e poi di come fosse corsa al bar sotto casa perché lei non aveva un televisore, e di come lo streaming non funzionasse più, e di come nel bar sotto casa fossero tutti assiepati davanti allo schermo e lo schermo mostrasse quelle capsule bianche che emergevano dalle strisce di schiuma di tutti i mari del mondo, e di come quelle immagini con quel sottopancia pazzesco fossero immagini di dieci giorni più vecchie, e di come nel bar tutti parlassero arabo e di come lei sulle prime avesse creduto di essere stata catapultata in un mondo che non era il suo, in una realtà che non era la sua o nella vita di un’altra persona, finché un ragazzo più alto non si era chinato verso di lei e le aveva detto una cosa del tipo che era tutto vero e che stava accadendo davvero, quel ragazzo che non aveva mai visto, e poi le aveva chiesto se era preoccupata, perché aveva la bocca spalancata, e poi le aveva anche detto di non preoccuparsi, non si sa bene perché le aveva detto di non preoccuparsi, quel ragazzo che non aveva mai visto, e poi tre giorni dopo davanti allo spritz io e lei avremmo ipotizzato di nuovo cosa sarebbe avvenuto in futuro, e nemmeno la più pessimista di noi avrebbe potuto immaginare cosa sarebbe successo dopo altri tre giorni, e Caterina alla fine mi avrebbe chiesto di nuovo che cosa dicevano al mio giornale, se ci era arrivata qualche indiscrezione – avrebbe detto così – qualche indiscrezione o qualche notizia succosa. Ma io di questa cosa proprio non potevo parlare, perciò evitavo le sue domande e giocavo coi riccioli e giravo gli occhi a guardare quel cielo privo di nuvole.

«No» sta dicendo il ministro al mio direttore parlando al telefono «questa cosa meglio che la togliamo.» E il mio direttore amatissimo per tutta risposta annuisce e sorride davanti al vivavoce (lo immagino bene, mentre annuisce e sorride in silenzio). «No» gli sta dicendo il ministro «evitiamo di citare la loro capacità mimetica, soprattutto in relazione al colore del mare». E il mio direttore annuisce e sorride e dice sì ministro, certamente ministro. Fuori dalla finestra del suo ufficio svettano i palazzi costruiti ai margini della città: anche lì sta arrivando la sera come una grande marea tropicale, solo che lì non arriva il canto delle cicale. L’ufficio del mio direttore è fresco di aria condizionata e il mio direttore non suda da dieci ore consecutive, e ha una camicia pulita, e ha anche la voce rauca di chi sta parlando al telefono con il ministro in persona e sta cercando di darsi un tono (lo immagino bene, mentre cerca di darsi un tono). O forse no, non sta parlando al telefono con il ministro in persona, ma con l’ufficio stampa del Ministero. Questo sì, è più probabile. Dunque: «Questa cosa meglio che la togliamo» dice l’ufficio stampa del Ministero parlando al telefono «altrimenti faremmo andare nel panico tantissima gente.» E il mio direttore amatissimo si passa le mani sulla faccia e sorride, con la camicia pulita (lo immagino bene, mentre sorride).

E il cameriere allampanato e idiota ci aveva portato due spritz carichissimi e una scodella di ghiaccio con un sorriso e uno schiocco di labbra un po’ cringe. Visto, aveva detto Caterina quando si era dileguato, questa è davvero una grande vittoria, dopodiché aveva preso in mano un cubetto di ghiaccio facendolo ballare sulle dita e lo aveva inzuppato con cura sulla schiena e sui polsi. Anche io avevo preso un cubetto e lo avevo lasciato scivolare sulle mie gambe e avevo guardato dalla sponda del bar la gente che passava lenta nella città assolata camminando ai bordi della piazza come cammineresti ai bordi di una palude profonda, spostando a fatica le cosce in litri e litri di afa e sudore. E Caterina senza preamboli aveva cominciato a parlare del Grande Evento, poggiando le labbra sullo spritz carichissimo: ma insomma, aveva detto senza preavviso, è vero che hanno fatto un incontro segreto al Ministero? E io avevo immerso il naso nel bicchiere e avevo mugugnato una cosa del tipo che non lo sapevo e se lo avessi saputo non avrei potuto dirglielo, solo che una frase del genere quando la dici suona ridicola. E così eravamo rimaste in silenzio bevucchiando e girandoci intorno finché non avevamo visto passare nella piazza la giovane Ludovica, che poverina abbattuta dal sole stava trascinando le caviglie per tutta la città come due sacchi della spazzatura. E così per cambiare discorso avevo chiamato a gran voce la povera Ludo e lei aveva alzato gli occhi e ci aveva raggiunte sorridendo e schiantandosi sulla sedia e ci aveva detto anche lei ansimando cosaprendeteragazze con la stessa voce del cameriere perché l’estate scorsa aveva lavorato in un bar e ormai parlava la stessa lingua, e stravaccandosi Ludovica aveva liberato le spalle dalle borse di tela che le stavano segando la pelle che era rossissima e spaccata dal sole, povera Ludo ti stai scottando le spalle. E mentre spuntava di nuovo dalla penombra il cameriere allampanato e stanco io avevo detto che dovevo ubriacarmi più in fretta perché il mio stomaco ormai regge più del mio portafoglio e il cameriere aveva sorriso con gli occhi cerchiati di sonno e aveva chiesto di nuovo alloracosaviportoragazze e Ludovica stravaccata sulla sedia con le gambe allungate sotto i pantaloni larghissimi e svolazzati nel vento miasmatico e i piedi fuori dai sandali e le dita dei piedi che afferravano il cordino di sandali giocherellando aveva alzato stancamente la mano destra e aveva fatto un tre con le dita e aveva detto soltanto: gillèmon.

«Un’altra cosa che non mi convince» sta dicendo il ministro in persona o più probabilmente il suo ufficio stampa «è questo riferimento alla loro capacità di comunicare telepaticamente.» Il direttore a quel punto annuisce e sorride (lo immagino bene). Fuori dalla finestra del suo ufficio scintillano i palazzi tra le cartacce portate dal vento. Dentro il suo ufficio l’aria è profumata. Anche la sua camicia è profumatissima, ed è profumatissima pure la bocca, perché sta succhiando una caramellina anch’essa (lo immagino bene) profumatissima. «Lo so che ne abbiamo parlato esplicitamente» dice il ministro in persona o forse il suo ufficio stampa «ma alla luce dei fatti sarebbe meglio non citare le loro abilità telepatiche.» Ma certamente, dice il mio direttore amatissimo scuotendo la testa (lo immagino bene). Non so se in questo momento il mio direttore sia da solo dentro l’ufficio, ma mi piace credere che oltre a lui in quella stanza non ci sia proprio nessuno, e che la redazione sia del tutto deserta, e che lui continui ad annuire come in un tic, senza che nessuno guardandolo possa capire il suo linguaggio del corpo, e che la chiamata del Ministero sia arrivata inattesa dopo l’invio della bozza. «Le notizie che arrivano dal Giappone e dal Messico» sta dicendo il ministro in persona o il suo ufficio stampa «ci invitano a riconsiderare con attenzione la diffusione delle informazioni che riguardano la struttura atomica delle loro capsule». Certo che sì, dice il mio direttore amatissimo scuotendo la testa (lo immagino bene). «Gli ultimi aggiornamenti ci invitano alla cautela» dice il ministro in persona o l’ufficio stampa «ma sono certo che lei capirà, pur mantenendo il diritto all’esclusiva per il suo giornale.» Il mio direttore scuote la testa e sorride (lo immagino bene). Certo, dice, capisco.

E prima ancora che Ludovica cominciasse a parlare nella città calda e assolata e cisposa dove ormai il vento serale arrivava a zaffate mi venne in mente una cosa da dire. Prima ancora che Ludovica cominciasse a fare le sue domande sul Grande Evento e Caterina dolcissima provasse a fermarla mi venne in mente una storia da raccontare. È vero che hanno la pelle squamata? aveva chiesto Ludovica umettando le labbra nel gillèmon più alcolico che avessimo mai bevuto. È vero che assomigliano ai rettili? E nel frattempo il ghiaccio nella scodella era già finito e Caterina si sventolava con un depliant della stagione cinematografica che aveva scovato dentro la borsa. Lascia stare Ludovì, aveva detto Caterina sventolandosi, e mi aveva guardato con complicità, alzando le sopracciglia e sventolandosi, perché alla fine dopo tre giorni aveva capito il motivo per cui non potevo parlare del Grande Evento. Ma a me in quel momento finalmente era venuta in mente una cosa da raccontare. Così mentre Ludovica si era scusata allargando gli occhioni io succhiai ancora un po’ di gillèmon che già cominciava a vorticare nei nostri stomaci e pensai che mi avrebbe tenuta sveglia per tutta la notte e che il mio stomaco sebbene reggesse più del mio portafoglio comunque non reggeva tantissimo e che non avevo mangiato niente da pranzo e che il mio portafoglio di conseguenza avrebbe dovuto reggere anche il prezzo di quattro falafel tornando a casa e che sarebbe stata ora che il cameriere allampanato e idiota ci portasse pure qualcosa da sgranocchiare. E solo in quel momento mi ero sentita ubriaca e avevo detto: mi è venuta in mente una storia da raccontare. E mi reclinai in avanti e dissi un po’ titubante sperando che capissero cosa intendevo: la conoscete la barzelletta dell’omino verde? E il cameriere era spuntato in quel momento e aveva detto soltanto tuttoappostoragazze senza nemmeno il punto di domanda come gli avevano insegnato alla scuola dei camerieri e Caterina aveva sventolato la mano destra facendo un tre con le dita e aveva detto soltanto: altri tre. Portaci pure qualcosa da sgranocchiare, avevo detto io. E il cameriere avevo sorriso annuendo con gli occhi cerchiati di sonno e Caterina era tornata a concentrarsi su di me perché aveva capito qualcosa di ciò che volevo dire e il cameriere era sparito nella penombra e Caterina aveva insistito: quindi, aveva detto, questa barzelletta dell’omino verde, com’è. È una barzelletta che mi raccontò un compagno alle elementari, avevo detto io, ma mi è venuta in mente soltanto in questo momento. Alla faccia, aveva detto Ludovica che invece non aveva capito niente, succhiando gli ultimi rimasugli di acqua trubbola in fondo al bicchiere. È una barzelletta po’ stupida, avevo detto io. Certo che è stupida, è delle elementari, aveva detto Ludovica. E Caterina insistendo ancora e reclinandosi in avanti disse: e sentiamola, questa barzelletta. E io: la barzelletta parla di un tizio che tutte le notti si sveglia nel proprio letto e riceve la visita dell’omino verde.

«Ricapitolando» dice l’ufficio stampa del Ministero o forse il ministro in persona «meglio che non parliamo della telepatia, a causa di quello che sta succedendo in Giappone, e che non parliamo delle antenne nella stratosfera, e nemmeno del loro colore, né tantomeno della loro dichiarata disponibilità a insegnarci la tecnologia del motore a curvatura.» E il direttore scuote la testa in silenzio e strabuzza gli occhi (lo immagino). Certo, nessun problema, dice. Fuori dalla finestra dell’ufficio il tramonto trasuda come un’arancia spremuta dal peso sgombro del cielo. «Di conseguenza» dice l’ufficio stampa (sicuramente l’ufficio stampa) «dovreste cambiare anche il titolo, senza fare alcun accenno al concetto di spaziotempo, perché confonde la gente» dice il ministro «e dovreste sottolineare anche che questo singolo evento è l’evento più importante della storia dell’umanità, perché non lo avete sottolineato abbastanza. Ma sono certo che lei capirà» dice il ministro. Certamente ministro, dice il mio direttore passandosi la mano tra i capelli, ovviamente ministro, dice annuendo e strabuzzando gli occhi al vivavoce (immagino).

Dicevo io nel frattempo: Un tizio tutte le notti si sveglia nel proprio letto e riceve la visita dell’omino verde. E mentre parlavo e raccontavo la barzelletta dell’omino verde il crepuscolo docile rotolava sul marciapiede e finalmente oltre il canto delle cicale rimbombavano le rondini a cerchi concentrici dominando la piazza e sventrando quest’aria caldissima come un turbine e io ero ubriaca e le ventraglie del cielo si srotolavano a terra accompagnate dalle grida di giubilo delle rondini stesse che avevano in bocca un coltello e il cameriere era uscito dalla penombra e aveva portato i gillèmon sopra un vassoio. Era una ragazzo con gli occhi cerchiati di sonno e doveva avere ventidue anni e anche stavolta non aveva portato niente da sgranocchiare e io avevo pensato perché non ci ha portato niente da sgranocchiare perché non lo ha fatto e soprattutto perché si ostinano a non accendere le luci all’interno del bar anche ora che l’ombra dei muri si allarga e il loro bar è ancora buio come se fosse chiuso come se fossimo imprigionate all’interno di un sogno in cui stiamo bevendo nel dehor di un bar chiuso e non ci portano niente da sgranocchiare. E ogni notte l’omino verde entra nella camera da letto di questo tizio, dissi, e l’omino verde arriva ogni notte e dice soltanto una cosa: fai la pipì; e il tizio ancora mezzo addormentato subito si fa la pipì addosso. Ludovica sputò un pezzo di ghiaccio e disse: che stronzata. Ma Caterina rimaneva attentissima. E insomma ogni notte arriva l’omino verde, continuo a raccontare, e l’omino verde dice: fai la pipì; e il tizio ogni notte si piscia addosso senza quasi nemmeno svegliarsi; finché dopo un po’ il tizio decide di opporre resistenza e la notte successiva quando entra l’omino verde e come ogni notte gli dice fai la pipì il tizio ancora sdraiato nel letto urla fortissimo: NO!; e l’omino verde: fai la pipì!; e il tizio urla fortissimo: NO!; e l’omino verde: FAI LA PIPÌ!; e il tizio si fa la pipì addosso. Caterina sputazza gillèmon. Porca puttana, dice, questa davvero è una stronzata. Ludovica mastica ghiaccio mentre parla: è una barzelletta delle elementari Caterì, dice, che cazzo pretendi. E il tizio ci rimane malissimo, dico io, così decide di insistere ancora di più perché non può più sopportare il fatto di farsi la pipì addosso tutte le notti. Così quella stessa notte quando arriva l’omino verde il tizio è sveglio e ben preparato e vede l’omino verde che arriva e che dice come ogni notte: fai la – e in quel momento mi squilla il telefono.

«Sara, scusami tanto, mi ha chiamato il ministro» dice la voce del mio direttore «e la mia intervista me la devi riscrivere tutta.»

L’autore

Giovanni Peparello fa parte della redazione di menelique. Suoi racconti sono apparsi su Malgrado le mosche

Illustrazione di Carlotta Contino