[Racconto precedentemente pubblicato su Specularia Dicarta numero tre]
Io lasciavo a casa un figlio
Gli occhi dietro la finestra
Un saluto nel berretto
E non uscì un coniglio
Acqua Dalla Luna, Claudio Baglioni
È da un mese che Alessandro ha il cranio chiuso, e sono due minuti che si stuzzica la fronte. La pelle del viso è grassa e lui attraversa un periodo di magra. Seduto sul bordo della vasca, preme l’indice tra le rughe d’espressione alla ricerca di quel punto (unto) che non è mai riuscito ad avvertire al tatto. Non ha intenzione di fare un bagno e indossa ancora i vestiti della mattina, ai piedi però ha le pantofole. S’incaponisce, col polpastrello distende la pelle, l’arriccia. Eccolo… no, è un pedicello. Toglie la mano. È dall’undici aprile che in mezzo alla fronte non si allarga niente, non si apre niente, non si divarica niente. Se considera che è sempre dall’undici aprile che non divarica le gambe di Francesca, ecco che lo sconforto raggiunge picchi altissimi.
Quanto le manca.
Finito di torturare la fronte, tortura la mente coi calcoli. Le maioliche che rivestono il bagno sono stimolanti da sommare. Nel computo inserisce anche le frazionate tagliate dalla finestra e dagli spigoli dello specchio. Da bravo professore di matematica, Alessandro moltiplica un paio di numeri e ricava il risultato: 190,75. Se aggiunge però lo spicchio tagliato dalla corda della serranda allora forse arriva a 191 e se invece considera anche il frammento di maiolica scheggiata–
Cazzo, non ce la fa più. Deve telefonarle.
Si alza, va alla porta, si accerta che sia chiusa e torna indietro. Stavolta si siede sul wc. Sospira, il rotolo di pancia sotto le pieghe della camicia si rilassa sulla cinta dei pantaloni. Dà un pugno al geberit difettoso perché la smetta di rilasciare acqua. Non può chiamarla col sottofondo dei rumori di un cesso di terz’ordine.
Fissa il cellulare, lo schermo all’angolo è rotto perché Diletta ha provato anche col suo, ci ha schiantato la fronte contro ma non è riuscita a tirare fuori un ragno dal buco, vale a dire, un grammo di plastip dalla testa. In compenso però si è fatta un buco sull’attaccatura dei capelli. Ha trascorso mezz’ora con le pinzette per le sopracciglia a togliere i cristalli dal nuovo bernoccolo. Al bambino bisognava cambiare l’Ossinfarm, il bip del segnale che la bombola era prossima a esaurirsi martellava le orecchie e lei si disperava, agitava le mani, preoccupata di aver tolto tempo ai social e alle serie tv. Sperava di non essere diventata picchiatella per aver picchiato la testa troppo forte contro lo smartphone. Alessandro era in pena per la moglie e per il figlio, ma il pensiero principale l’aveva rivolto alSamsung 33.Aveva ringraziato dio che funzionasse ancora, almeno non doveva ricomprarlo. Almeno poteva sentire Francesca.
Erano giorni che meditava di chiamarla, ma poi il bambino si era aggravato e, fortuna, i pensieri immediati si erano mobilitati su di lui e gliel’avevano nascosta, (che non vuol dire cancellata).
Ieri, Diletta ha rimediato un po’ di plastip e lui è uscito per andare alla Farmaco a comprare l’ossigeno speciale per Giulio. Col piccolo con la mascherina sulla bocca, col piccolo con l’aria nei polmoni, anche Alessandro ha pensato di riappropriarsi della propria aria: Francesca.
Vuole solo chiederle come sta, sentire la sua voce.
Con la tavoletta del wc abbassata sotto le cosce e i pantaloni tirati su, è pronto per comporre il numero. Col pollice preme il 3. Al secondo 3, tra i cristalli rotti del display, il nome di Francesca viene evidenziato tra i preferiti.
Alessandro avvia la chiamata. La chiamata all’amata, pensa. Sorride e la camicia si acciambella un po’ di più sulla cinta.
Uno squillo. Due squilli. Al terzo senza risposta porta lo schermo davanti agli occhi per essere sicuro di star a telefonare proprio a lei: quante volte sotto la scritta in rubrica di Amore, si era confuso e aveva pensato di trovarci Francesca? Ma quell’appellativo era per la moglie, attribuitole anni prima e mai più cambiato per… perché?
No, il nome sul display parla chiaro, non sta telefonando a Diletta. Riporta il telefono all’orecchio. Cinque squilli, nessuna risposta.
Forse ce l’ha silenzioso o è al lavoro?
«Pronto?»
Tesoro mio. Il pronto con cui Francesca ha risposto è un pronto dalla voce prona, lontana. In posizione di difesa, contraria rispetto a lui. «Come stai?» Ad Alessandro tremano più le parole che le dita che tengono il telefono.
La moglie è in soggiorno, potrebbe bussare, entrare e impicciarsi. Ma dubita lo farà, indaffarata com’è. È da una settimana che non si schioda dal divano e dalla tv: ce la mette tutta per innamorarsi di Netflix; a innamorarsi dello smartphone invece ci è riuscita da subito, ma deve continuare a dedicargli attenzioni e ogni cinque minuti controlla i social per interagire con il magma distinto e indistinto di amicix e di foll: la corrispondenza di amorosi sensi va alimentata. Non deve essere facile per lei stare dietro a tutto.
Lo scroscio imbarazzante del geberit non c’è più, allora può riformularle la domanda, visto che non ha ottenuto risposta: «Allora? Mi dici come stai?»
«Sto come stai tu».
Il tono affranto con cui Francesca gli parla è molto diverso da quando gli sussurrava: «È stato bellissimo». Sul letto, nudi, con le fronti levigate, raccoglievano schegge di plastip che poi, se ne avevano il tempo, regalavano alla Cartita ricevendo in cambio, dagli ausiliari vestiti con camici rossi, enormi sorrisi e infiniti grazie infinite. Ma questo accadeva nella fase dove tra loro tutto era consentito, tutto fuorché innamorarsi: «Ho una moglie, un figlio, la mia vita, tu un marito, due figli, la tua vita», e dallo scontro delle teste, come una sentenza che li confermava insieme, la plastip non la smetteva di fiottare.
«Quindi stai male?» È la domanda retorica che le porge ora Alessandro.
Francesca sospira.
Esclude sia in auto, non si sentono rumori provenire dalla strada. Forse è al lavoro, in sala docenti per un corso di aggiornamento.
«Come vuoi che stia?» gli dice.
Alessandro spinge il bordo della pantofola verso il vertice della mattonella sul pavimento, tanto per fare qualcosa. «Lo capisco», tanto per dire qualcosa. Tanto per riempire il sopraggiunto silenzio.
Beffardo, il sentimento era esploso per entrambi e in egual misura. Sarebbe stato facile odiare Francesca perché rispetto a lui provava di meno: Sei una stronza, io penso a te giorno e notte mentre tu… non mi meriti! Chiudiamola qui. Invece.
Dirsi ti amo era così riduttivo, ci volevano paragoni che muovessero il creato per rendere giustizia al loro stare insieme. Su una panchina a via Nazionale facevano a gara a trovare aggettivi insoliti per descrivere il colore del cielo e la forma delle nuvole. Nelle gallerie d’arte, si domandavano quali fossero i pensieri delle statue e perché fossero scolpite in certe pose. Non facevano mancare risposte sconce a cui poi facevano seguire carezze ancora più sconce, correlate da ansimi di sorpresa e di piacere. Alessandro aveva imparato a guidare con la sola sinistra sul volante, perché l’altra mano gliela sequestrava Francesca, gliela stringeva timorosa di perderla come una bambina con la banconota per la spesa. Definito il loro amore come sconfinato avevano convenuto che era il caso di farla finita. Finire, definire, ferire erano le parole del vocabolario che però avevano continuato a usare nei messaggi o sentendosi al telefono.
Mi manca la terra sotto i piedi.
Anche a me.
E allora?
Non possiamo fare un torto a chi sta a casa.
Il flacone di shampoo è sul bordo della vasca da bagno davanti a lui. È di colore giallo perché è alla camomilla e deve ricordare il fiore della camomilla che però ha più petali che polline e allora perché non l’hanno fatto bianco? Il giallo richiama l’effetto schiarente della camomilla e lo usa Diletta che ha i capelli bion–
«Sto male, perché ti voglio», Alessandro sbotta sincerità, senza alzare la voce.
«Io di più». Francesca lo ricompensa con una risposta immediata e altrettanto liberatoria.
Egoisti, ci erano ricascati più volte e avevano cancellato il punto. Privazione sì, ma un pasto libero è concesso anche nelle diete più ferree, e quando non ce la facevano più si godevano lo sgarro che innalzava il metabolismo e montava la voglia di dolce che raffinavano così bene. Quanta plastip che all’epoca non serviva e davano in beneficenza, e poi quante lacrime.
Non vediamoci più.
Questa è l’ultima volta.
Sì.
Mi mancherai.
E di nuovo il punto li incardinava e li blindava.
«Mi fa male la testa, ma non per il motivo che credi», le dice Alessandro. Le parole gli escono flebili dalla bocca.
«A me non fa male, ma non per il motivo che credi».
Eccola, Francesca, e i suoi rompicapi mentali. Trappole enigmistiche di cui Alessandro non riesce a fare a meno; labirinti con un’unica via d’uscita, ma che, generosa, Francesca non gli manca di far trovare.
Perché non ti fa male la testa? Alessandro fa per chiedere, quando subentra Diletta: «Ale?», lo chiama dal soggiorno. «Vai a controllare Giulio?»
Ha ragione, è giusto che vada lui a vedere come sta. Lei ha altro a cui pensare. «Sì» dice per farsi sentire di là. Non corre il rischio di svegliare il figlio alzando la voce. Dopo che ha trascorso il pomeriggio con i giochi non scalmanati che gli sono concessi: sfogliare l’album di figurine, disegnare e incastrare costruzioni, Alessandro l’ha messo a letto con due baci sulla fronte e dieci gocce di Sonnex, perché è meglio se risparmia energie. Fiato cioè. Così gli hanno suggerito di fare all’ospitalia quando lo hanno rimandato a casa.
«Ma stai al cellulare?» sempre Diletta.
«Sì» risponde ancora col medesimo tono. «Scusa» dice invece flebile all’amata.
«Con chi stai?» continua la moglie.
«Con nessuno. Ascolto un video». Non è rinnegare, Francesca dall’altra parte del telefono lo sa. È il loro modo di scappare dal pericolo di essere scoperti. Con me c’è Nessuno, come Ulisse col Ciclope ma senza il coraggio, solo pusillanimità. Ma poi, di cosa hanno timore? Di essere scoperti? Si sono detti basta un mese fa.
«Vai, non ti preoccupare» gli sussurra Francesca per telefono. «Noi ci…»
Sentiamo, lasciamo, baciamo. Scopiamo. Ci, la particella che tutto vale.
«Ci(ao)».
Alessandro si alza dal gabinetto, mette il telefono nella tasca posteriore dei pantaloni. In un gesto automatico preme il geberit, poi, sempre in un gesto automatico, si sistema la lampo: come a voler legittimare attraverso la finta chiusura della patta la sessione clandestina in bagno in una vera e propria seduta. L’acqua riprende a scrosciare nel wc. Alessandro esce e chiude la porta.
Diletta è sul divano e guarda Tetros, la vita dell’impiegato che si scopre supereroe dopo aver fatto la puntura.
Il televisore comprato ieri e pagato due soldi è grande, un Sony 55 pollici per entrare meglio nelle storie che trasmette. Le scritte che aprono la puntata e passano sullo schermo, come accadeva in Guerre Stellari del secolo scorso, non sono il riassunto delle puntate precedenti, ma un inno alla Farmaco, l’azienda produttrice del sì-ero.
Mai più: SONO stanco, SONO debilitato, SONO apatico
Trasforma il presente con il passato con il sì-ERO
Per difese immunitarie forti
non vitamine, ma plastipia
Dal 2026 dentro di voi
Sono sett’anni che la plastipia viene iniettata con lo scopo di irrobustire il sistema immunitario. E sono settant’anni che la scienza si è accorta che nell’organismo produce anche altri risultati: il più frequente si ravvisa durante i rapporti, di solito quando si scopa. Se ne esistono i presupposti, il sistema endocrino richiama la plastipia e la fa essudare dalla fronte che al momento dell’amplesso la secerne sotto forma di palstip. Ma è un’altra la manifestazione insolita del siero che ad Alessandro sta più a cuore ed è una complicanza. In un caso su cinquemila la plastipia compromette gli alveoli. Alessandro ci pensa spesso, se potesse tornare indietro una volta nella vita sottrarrebbe il braccio del figlio all’infermiera il giorno della puntura. Meglio un raffreddore e perdere mocciolo dal naso che perdere il respiro.
Se potesse tornare indietro un’altra volta nella vita sottrarrebbe il proprio braccio a Diletta il giorno del sì sull’altare.
Com’è che è andata? Ogni tanto se lo domanda. E lo fa anche ora.
Erano le otto e mezza di mattina e Diletta, il suo cinque-e-sto, stava al bancone del bar che trafficava con un’aranciata. Il centimetro quadrato di scorza che galleggiava nel bicchiere non era una decorazione della bevanda, ma un errore di spremitura. Nella fase di divisione delle arance, la lama del macchinario doveva aver convogliato nel succo anche il non succo. Nel bicchiere, a tener compagnia alla scorza s’intravedeva pure la stella verde del picciolo con cui l’arancia si tiene attaccata all’albero. Diletta aveva storto la bocca e si era guardata intorno con espressione da: E ora? Come la tolgo ‘sta roba?
Il barista era nuovo, si capiva da quanto era impacciato. Per servire un cornetto tirava fuori dal dispenser tre tovaglioli, stava ore a svaporare il latte per la schiuma, e sudava freddo se qualche cliente al bancone gli diceva che il cappuccino che gli aveva servito era bollente. E a Diletta non aveva dato il cucchiaino. E Diletta, quando lo aveva visto alle prese con lo scontrino inceppato della cassa, di sicuro per non metterlo in ulteriore difficoltà, aveva tirato fuori il dito dal pugno con l’intento di usarlo come retino per liberare la spremuta dagli annessi. Ma un secondo dopo aveva disteso anche le altre quattro dita e, impugnato il bicchiere, aveva bevuto d’un fiato anche i connessi. Con le sopracciglia ravvicinate e la lingua nelle guance a scastrare qualcosa dai molari, aveva sollevato lo sguardo al barista dietro al bancone «Grazie», gli aveva detto e lui non se l’era filata, ancora alle prese coi tasti della cassa.
Ad Alessandro, Diletta era sembrata una studentessa che non aveva fatto i compiti, acquattata dentro sé stessa e che confidava nell’invisibilità. Era uscita dalla porta a vetri, diretta alla fermata dell’autobest. La borsetta a tracolla e i capelli legati in una coda sottile. Le scarpe dal tacco basso e largo. Con una tasca del cappotto strapiena, contenente forse tre mazzi di chiavi con relativi portachiavi, e l’altra no.
Il giorno dopo Alessandro era di nuovo lì. Insegnava nella scuola davanti al bar, come professore provvisorio in attesa di diventare di ruolo si era ritrovato ad attendere anche Diletta. Era rimasto cinque minuti oltre le nove a leggere le notizie sul cellulare nella speranza che lei arrivasse. Ma non era arrivata. Era rimasto cinque minuti oltre le nove anche il giorno dopo e il giorno dopo ancora e lei non si era fatta vedere. Finché un lunedì, con il barista a cui ormai dava del tu e che faceva dei cappuccini da paura e sfornava brioche senza scottarsi, Diletta era entrata dalla porta a vetri. Sguardo basso, ballerine ai piedi. Al solito, una tasca piena che sformava la simmetria del taglio del cappotto. Capelli insaccati nel giro di collo della sciarpa. Aveva scelto proprio quel giorno per palesarsi, Alessandro aveva le occhiaie, aveva dormito due ore perché gli amici lo avevano costretto ad andare in discotresca. Lui che amava la vita sedentaria e che il suo apice era visitare i musei. Aveva anche i capelli spettinati. Alessandro si era alzato dal tavolino e le si era avvicinato. «Una spremuta, ma senza canditi», aveva detto al barista. «Io li tolgo sempre dal panettone» aveva detto poi a Diletta che lo aveva guardato con fare innocente. Come se lui l’avesse accusata di qualcosa d’immondo ma che lei, con quelle iridi marroni, aveva purificato. Diletta si era chinata a terra, aveva raccolto un tovagliolo – non suo – e lo aveva buttato al secchio. «I canditi non piacciono neanche a me» gli aveva sorriso, tra lo svampito e l’eterea, a scandagliare con la testa tra le nuvole cosa c’era più in alto delle nuvole.
Ed era iniziata così.
Parlavano, ma spesso stavano in silenzio. Ridevano, ma di rado. Camminavano a braccetto, mai avvinghiati. Una mano che sfuggiva a toccare glutei o altro in pubblico, non sia mai. Se nel percorso capitava una pozzanghera, slacciavano le braccia e proseguivano senza saldarsi più. Andavano al cinema, a fare la spesa, a scegliere i rubinetti per la casa della nonna che lei aveva ereditato. Con due risparmi da parte, un nido in cui stare e lui ufficialmente docente, la strada verso quella meta era tracciata. Senza troppi grilli per la testa e senza troppe farfalle nello stomaco si erano ritrovati a essere ognuno il cinque-e-sto dell’altro. Come nel gioco del sette e mezzo, per paura di sballare, chiedere al banco una carta in più e con un tre uscire fuori, non avevano continuato ad andare avanti a scoprire se nel loro futuro poteva esserci un sei, o una figura in più. Una matta.
Nel mezzo sta la felicità, e Alessandro, da buon professore di matematica si era accontentato di stare intorno alla mediana.
Da fidanzati, a letto non facevano faville. Di plastip, a parte i primi due mesi, ne tiravano fuori pochissima. Le teste nel momento dell’amplesso si scontravano per inerzia, guidate dalla macchinosità delle ordinarie spinte. La plastip faticava a scendere dalle fronti per mancanza di peso, quasi inconsistente. Diletta aveva smesso d’intrigare Alessandro, la sua personalità lo stimolava di rado: quando tirava fuori una battuta divertente, oppure al supermercato quando apriva le buste dell’ortofrutta alla vecchietta che le stava vicino. Stuzzichini cerebrali modesti che generavano plastip modesta. Anche la produzione di plastip di Diletta era scarsa, perché lui per lei era il suo speculare. E a scopare scopavano poco.
Alessandro ci aveva messo pochissimo a capire cosa Diletta nascondeva nelle pieghe del cervello, e così lei. Avevano imparato a conoscersi al pari delle tasche che lei riempiva di fazzoletti da naso e poi dimenticava di buttare.
Non avevano mai avvertito la sofferenza di possedere una cannuccia dal diametro troppo piccolo per succhiare la genialità nascosta e inespressa della mente dell’altro. Si erano sorbiti con facilità da subito e in poco tempo avevano esaurito le novità. E tutte le cose si erano fatte perennemente uguali.
Da fidanzati, Diletta un giorno si era presentata all’appuntamento col volto pieno di graffi, lacerazioni e cerotti.
«Che hai fatto?» gli aveva chiesto Alessandro.
«Ho preso a testate Micia, ma lei non era d’accordo e questo è il risultato». Come il mago che muove la mano sopra la palla di cristallo, lei aveva ripetuto il gesto sul viso: «Mi ha ridotto così».
«No, i gatti no. Gli animali proprio, no. È da una vita che hai il sì-ero e non sai come funziona?» Alessandro aveva perso la calma, non tanto per aver avuto l’ennesima volta la conferma di quanto Diletta fosse ingenua, più perché le era dispiaciuto vederla con quella faccia escoriata.
«Sì, lo so, ma ci ho voluto provare».
Diletta le era sembrata così altruista e generosa con quel labbro umido e imbronciato ripiegato sul mento che non era giusto continuare a parlarle in quel modo. Era doveroso, però, stante le premesse, che facesse ulteriore chiarezza e aveva messo in scena la caricatura di sé stesso nel tentativo anche di farla sorridere «Mi raccomando», aveva alzato il dito e abbassato la voce come faceva con gli studenti per incoraggiarli a studiare in vista degli scrutini. «Non provarci neanche in casa, non si fa plastip tra consanguinei. È più facile ricavarne un minimo con gli oggetti che si amano». Alessandro aveva messo l’indice in posizione orizzontale e sotto, alla distanza di un centimetro, aveva aggiunto il pollice per rappresentare la pochezza.
«Volevo farti un regalo», come risposta Diletta aveva sfoderato un’espressione che voleva dire: Scusa se mi sono comportata in modo infantile.
«Cosa volevi regalarmi, le pasticche per il colesterolo?» di nuovo, per farla ridere. Col braccio tornato giù.
«No, un maglione».
Alessandro aveva ingoiato lo sbuffo che gli era salito in gola. Solo una come Diletta, che sperava ci fossero le sirene nel mare e che si augurava di scorgere la slitta la notte di Natale, poteva illudersi di comprare vestiti e profumi con la plastip. «Tesoro…»
«Sì, lo so. Ci ho voluto provare». Se non sorrideva era perché, piena di graffi, distendere le labbra le avrebbe provocato dolore. Le faceva tenerezza e per coccolarla Alessandro le aveva frizionato la schiena con la mano, e alla fine ce l’aveva fatta a cancellarle il broncio.
Il geberit che si è lasciato alle spalle una volta uscito dal bagno continua a sperperare acqua. Gli viene voglia di rientrare e dargli una gragnola di colpi, invece oltrepassa il disimpegno. Eccola lì, la generosa, altruista e cinque-e-sto che cerca stimoli dalla tv e dal cellulare. Guarda la serie tv sul divano. E non si schioda.
È vestita di grigio e ha il volto mogio. Odia le fiction che hanno a che fare anche un minimo con la scienza, ma si vede che ce la mette tutta per non perdere la concentrazione.
«Ti piace la serie?», le chiede Alessandro. Sorride un po’.
«Non tanto, ma ci devo provare». Diletta non toglie gli occhi dallo schermo.
«Perché non guardi quella di ieri? Mi sembravi più convinta».
«La so a memoria e non mi entusiasma più». Prende il cellulare che ha accanto, nuovo anche quello, pagato due spicci, basta che abbia internet. Ci smanetta qualcosa, poi torna alla tv. Seduta sul divano come la sirenetta sullo scoglio ha il volto illuminato dai pixel. Sulla fronte, gli ematomi hanno le sfumature madreperlacee delle conchiglie ribaltate. Ad Alessandro monta un moto di tenerezza che però non ha la carica sufficiente per schiodarlo da dov’è e andare ad abbracciarla: «Sì, fai bene», si limita a dire.
Si domanda come mai non sia riuscito a trovare il coraggio di affrontare il discorso con lei, la Diletta interessata. C’era stata l’occasione in cui sarebbe stato facile scoprire le carte. Serviva la plastip per le medicine di Giulio e si erano messi a letto con le mutande calate, nudi solo il necessario, ma dallo scontro delle teste non era uscito che dolore. «Che stiamo insieme a fare? Ci vogliamo bene, ma come si può voler bene a un fratello», avrebbe potuto dirle Alessandro.
«Il tuo stipendio è entrato da una settimana e non è ancora finito» gli aveva detto invece Diletta, davanti allo sportello aperto del freezer «alla Farmaco accettano anche i soldi». Staccava cubetti di ghiaccio che poi racchiudeva in un panno.
«Sì, ma lo sai quanto i farmacisti facciano storie al bancone: preferiscono la plastip», le aveva risposto Alessandro. Diletta aveva recepito le sue preoccupazioni, lo si capiva dagli occhi umidi, ma non aveva smesso di tamponare doviziosa quell’involtino arrabattato su di lui, sulla sua fronte. A lenire il proprio bernoccolo ci avrebbe pensato dopo.
È un mese che non vede Francesca, sono passate tre settimane da quando i medici hanno dato un nome alla malattia di Giulio, latente nell’organismo del piccolo da sette anni, dal giorno della somministrazione, e venuta fuori solo ora. Pronunciarla fa paura, un misto di lettere straniere e nomi composti, patologia dal nome altisonante e reverenziale. Che toglie il respiro.
«Ci vuole l’Ossinfarm per garantire a Giulio una vita semi normale». Così gli avevano detto i medici.
Ci vuole l’ossigeno speciale, guarda caso, prodotto solo dalla Farmaco. È ciò che aveva pensato Alessandro.
Ci vuole la plastip, altro che denaro.Se ne avesse conservata, se non fosse deteriorabile e spendibile solo presso l’azienda che fa il sì-ero con la plastipia, che vende medicine in cambio di plastip per curare i disturbi causati dalla plastipia, saprebbe come acquistare ossigeno e pasticche. È il pensiero che lo ossessiona da venti giorni. Un sillogismo che suona come una filastrocca, ma dalla valenza canzonatoria.
Aveva provato a farsela restituire alla Cartita, aveva implorato gli ausiliari in camice rosso: «Vi ricordate di me?», ma come risposta aveva ricevuto solo grandi sorrisi e scuse infinite. Seguire le coppiette che si appartavano per elemosinare le loro produzioni, chiedere aiuto agli studenti innamorati era troppo, come professore si sentiva bloccato. Lo stesso discorso valeva coi suoi due amici: avvalersi delle loro fronti sarebbe stato come chiedere le loro mani per un massaggio alla schiena con oli profumati. Andare per musei, mai avrebbe scontrato la testa su un’opera col rischio di danneggiarla e finire sotto processo. O peggio, col rischio di fracassarsi il cranio per non essere stato in grado di instaurare con la statua di marmo un connubio emotivo da ergersi a Sehnsucht. E poi la plastip ha vita breve, la plastipia si dissipa dopo un’ora e la Farmaco la rifiuta perché scaduta e inadatta per comporre altre medicine.
Lungo il corridoio, trascina i piedi sulle pattine per non irritare Diletta che ci tiene ad avere i pavimenti puliti. Entra nella cameretta e fa luce col cellulare. Si avvicina al letto e si china su Giulio. Il piccolo petto si solleva sotto la coperta. Dalla mascherina trasparente che gli preme le guance e la bocca s’intravedono le labbra socchiuse. Il suo amore dorme tranquillo e, da sotto la camicia, anche il petto di Alessandro si solleva un po’.
Sul comò, la foto di loro tre in vacanza, l’estate prima, è racchiusa nella cornicetta di das fatta da Giulio come lavoretto per la festa del papà. Alessandro piega le labbra in uno sciapo sorriso, forse riproduce la medesima espressione che ha nella foto. Nello scatto, a Soverato, il figlio stava ancora bene, non si parlava di malattia. La sera non mancava il pesce grigliato del ristorante e la mattina c’erano il sole e i bagni al mare, poi le passeggiate e il tempo per leggere. Alessandro aveva tutto eppure non aveva niente, e quel niente era Francesca.
Nella foto, tra le labbra, i suoi incisivi non sono dello stesso colore: quello di destra ha una macchiolina gialla. Gliel’aveva fatta notare Francesca. Né Diletta e neanche lui ci avevano fatto caso, ma quel puntino a lei non era sfuggito.
«Il tuo dente ha i colori di un chicco di granturco, ma invertiti», gli aveva detto in uno dei loro incontri. A cavalcioni su di lui. «Hai presente il mais? Ha l’estremità bianca mentre tutto il resto è giallo, mi fa tenerezza». Con gli occhi socchiusi, Francesca lo aveva nutrito e idratato di parole, e lui, felice di sentirsi così considerato, le aveva fatto chiudere gli occhi subito dopo, baciandola. Nel contatto aveva avvertito la voglia che lei aveva di confortare quel chicco diverso, avvolgendolo con il caldo della lingua.
Senti quello che provo io?, si chiedeva Alessandro e nella sofferenza di chi ama e vorrebbe essere amato allo stesso modo, prima che la penetrazione rendesse loro due materia, l’avvicinava a sé. Le mani grandi sui fianchi stretti. Portava indietro il collo, caricava la potenza, Francesca capiva che stava arrivando il momento e anche lei portava indietro il collo e caricava la potenza. Si sbattevano le fronti contro. Le teste si aprivano come in uno sfarfallio di pixel e per alcuni attimi diventavano siamesi. I rispettivi lembi di ossa e pelle generavano un tunnel in cui i due cervelli, al pari di una bolla in una livella, scendevano, salivano e nel toccarsi davano vita alla plastip. Il sesso era un’inezia, mangiare la mente dell’altro era l’ampiezza. La combo delle due cose era l’amplesso. La plastip, suppurata dall’amore, scendeva tintinnante dalle fronti come gocce di un lampadario di cristallo. L’orgasmo che interessava la pancia e le zone inguinali non era niente a che vedere con quello che provavano nutrendosi dei loro cervelli. Le schegge colorate erano la risultanza del connubio perfetto: generate da entrambi e non da una parte soltanto, non si sarebbero mai formate senza sentimento. Una volta finito, con le teste chiuse e intatte senza l’increspatura di una ruga, non finiva ancora. Erano tessuto vibrante oltre il respiro. Gli occhi guardavano il corpo che toccava, il caldo tra i colli e i reticoli di pelle su pelle. Rinchiusi in una coppa brindavano nella scolatura che altri avrebbero versato nel lavandino.
Alessandro smette di guardare la foto e punta la torcia del cellulare sulla bombola accanto al letto. Il livello di ossigeno è basso. Fa luce nella direzione della finestra, dietro la tenda c’è l’altra bombola di riserva. Bene, può richiudersi in bagno e–
Cazzo! Come ha fatto a non accorgersene prima? La valvola dell’erogatore è posizionata sul rosso. Gli era sembrata fosse sul blu quando insieme al figlio incollava le figurine. Si scapicolla alla tenda, sposta il drappeggio e… cazzo! Anche il cuore nel petto si sposta, indietreggia per il colpo. Ha la conferma, la valvola è sul rosso: la bombola con l’Ossifarm è vuota. Non piena.
Se non provvedono dovranno chiamare la Croxred, e se portano Giulio all’ospitalia i medici potrebbero ricoverarlo per chissà quanto tempo.
Esce di corsa dalla cameretta e va in soggiorno.
«Come sta?» gli domanda la moglie nel sentirlo arrivare. Il tono calmo, impassibile. Le gambe ancora piegate e i piedi sul divano.
«Dorme. Ma non abbiamo più L’Ossinfarm, lo sapevi?»
«Sì». Diletta non mette in pausa Tetros, né abbassa il volume. Alessandro si domanda da quanto tempo è lì, nelle ultime ore non l’ha vista alzarsi neanche per andare al bagno.
«E stai così tranquilla?»
«Sì». Con gli occhi allo schermo sembra prestare più attenzione a quello che hanno da dire gli attori in tv. Prende il cellulare, mette un paio di like a caso e solleva lo sguardo verso di lui: «Vieni vicino a me?», gli chiede, e subito dopo infila lo smartphone tra la coscia e il polpaccio. Torna alla serie. Alessandro si chiede come faccia a mantenere la calma. L’asseconda, e nel salire sul divano si toglie le pantofole. Si siede e posa il cellulare accanto a sé.
«Stai qui», continua Diletta.
«Sì». Il tempo di domandarsi come faccia anche lui a mantenere la calma che lo schermo del Samsung 33 si illumina con un whatsapp.
È Francesca: Perché ti fa male la testa?
Perché ti penso e il pensarti mi fa male. Alessandro non ha problemi a rispondere, Diletta non s’impiccia delle sue cose. E a te perché non fa male?
Francesca è veloce e lo sta scrivendo si materializza in messaggio da leggere in pochi secondi.
Se non mi fa male è perché evito di avere rapporti con mio marito. L’ultima volta che l’ho fatto è stato con te.
Alessandro perde un battito che ha il rumore del vuoto. Subito dopo, il bip sonoro che proviene dalla cameretta di Giulio gli dà una seconda scossa. È il segnale che la bombola sta per esaurirsi: il figlio avrà respiro solo per le prossime due ore.
Alessandro butta il cellulare e si alza in piedi.
Diletta accanto a lui smuove le gambe dal divano e poggia i piedi a terra. Solleva il sedere dai cuscini e anche lei si alza, ma non si mette dritta. Scatta verso il televisore. Con la schiena parallela al pavimento, è la bulla arrogante intenzionata a partire di testa contro la vittima. Due, tre falcate e parte di testa. Come un ariete sbatte la fronte contro lo schermo della tv in alto a sinistra, e lo frantuma.
«Cazzo, cazzo». Retrocede, prende la rincorsa. Stavolta cambia mira e si scaglia contro il centro della tv. Dal Sony cadono cristalli di vetro, ma niente plastip. Dalla fronte di Diletta fiotta sangue, dalla bocca invece sgorga rabbia: «Ho perso tempo a vedere puntate su puntate».
«Calma». Alessandro le si mette di dietro e le cinge i fianchi.
«Lasciami», Diletta gli dà una gomitata. «Ieri ci sono riuscita». La generosa e altruista da cinque-e-sto si è trasformata nella Matta: la regina di denari che desidera avere uno scettro di plastip.
Alessandro tenta di tranquillizzarla, di frizionarle la schiena, ma Diletta si divincola e si fionda contro l’altro angolo della televisione.
«Porca puttana». Le sue grida furiose nascondono il richiamo allarmante del bip in cameretta. «Questa serie mi fa schifo, non riesco ad amarla, cazzo. Non mi dà stimoli».
Diletta si gira verso di lui. Dalle sopracciglia scendono colature color carminio, tipo glassa ai frutti rossi. Il sangue tra i capelli scurisce il biondo. «Dammi il mio cellulare», gli intima.
Alessandro sa a cosa pensa Diletta e, veloce, lo recupera dal divano, non fa in tempo a porgerglielo che la moglie glielo strappa dalle dita e ci sbatte la testa contro. «Sì, sì» proclama vittoriosa, la voce orgasmica. «Amore mio, lo sapevo…» dice al cellulare, in estasi da deliquio. Non contenta sbatte di nuovo la fronte sul display e il risultato dello scontro la fa sorridere di più. Lo schermo è intatto, la sua testa è aperta e partorisce granelli di plastip. Alessandro riceve il suo sguardo, la fronte di Diletta è già richiusa, la bocca invece è ancora trionfante. Diletta ha anche la mano aperta con cui ha raccolto la palstip e che gli para sotto il naso. «Corri, vai a comprare altro Ossinfarm».
Alessandro si smorza. Gli dispiace spegnere quell’entusiasmo, ma è titubante. «Basterà?» Quei cosi rinsecchiti che Diletta gli ha versato nel palmo assomigliano a quei cosi rinsecchiti che producevano le loro fronti all’inizio, anemici semi di melagrana privati della polpa che Alessandro fa fatica a distinguere tra le pieghe della mano.
«No, ne serve altra. Devi fermarti da lei».
Diletta ha il sangue che dal collo è arrivato al maglione. Ce n’è tanto anche sul pavimento. I cristalli che ha incastonati nella fronte sono coscrizioni di ametista.
«Cosa?»
«Va da lei». La moglie lo fissa con uno sguardo sciancato.
Alessandro ha voglia di abbracciarla, ma è tardi, deve pensare a Giulio. Recupera il Samsung. Ci sono dieci messaggi non visualizzati di Francesca. Li leggerà una volta salito in macchina.
«Però poi torna». Il sorriso di Diletta, da trovatore perso.
Nessun sorriso per Alessandro, si limita ad annuire. Respirerà Francesca per i prossimi ottanta, novanta minuti. Dopo tornerà a casa per continuare a interpretare il ruolo di cantastorie imprigionato e muto.
L’autrice
Laura Marinelli è del ‘78 e vive a Roma. Dopo la laurea e un master lavora nella grande distribuzione. Quando non scrive, pensa a cosa scrivere. Nel 2021 esordisce con il romanzo Vanity Fear (Echos Edizioni). Nel 2022 pubblica Organica con Moscabianca Edizioni. Nel 2025 esce la novella illustrata Eppur si muove per Piuma. Altri suoi racconti sono su riviste letterarie e antologie.
Illustrazione di Benedetta Baroni
