Un giorno, dopo l’ennesimo giro di boa con i tre delfinotti, il tipo nuovo mi chiama dal bordo vasca.
«Kelly?»
Faccio la cosa carina prima con il naso poi con la coda, ci metto anche il verso e tutte le moine. Ma non è lui che ci nutre. Un altro giochino quindi, ci scommetto. Il bipede tiene tra i terribili artigli un sacco blu contenente immondizia, rimasugli di cibo, carta, qualche pezzetto di intonaco delle piastrelle della vasca, tutta la sporcizia che viene ripulita a fine giornata.
Si ostinano a voler comunicare con noi attraverso strumenti demenziali, eccolo che parte di fischietto e batte le mani, si avvicina alla vasca, prende un altro pezzetto di carta straccia che fluttuava in superficie e la ficca nel sacco, sta mimando qualcosa.
Ho capito, adesso pretendono anche che si lavori al posto loro, oltre che li si intrattenga.
Questione di numero di sinapsi e densità neuronale, la taglia è importante ma non basta. Fosse per quella noi tutti avremmo la stessa testa: il volume totale di materia grigia è quasi uguale, centimetro più centimetro meno. Anche la razza conta, eccome se conta, proprio per via di queste varianti, cerco di ricordarmelo nelle ore di fatica in cui sono più incline a futili pensieri.
Vorrei essere come mi vorrebbero. Carina, amichevole. Senza questa spina nel fianco che a ogni colpo di coda mi ricorda la tua assenza. Il mio dolore non è che una targhetta di silicone assicurata alle mie estremità, un nome e un numero, una virgola tra le pagine della loro scienza. Una musica divertente per la loro giostrina sadica. “Vediamo che cosa succede a Kelly se le leviamo il sale della vita.”
Sembra proprio che vogliano renderci loro pari a forza di insegnarci, ma sono più furbi di così e tengono assai alla nostra intelligenza, la quale deve essere di un grado preciso, affinata cioè a tal punto da renderci utili (all’intrattenimento, alla scienza) ma sempre un pelo al di sotto del livello che porterebbe all’emancipazione.
Eseguo gli ordini del padrone come se fossi eletta a un compito inestimabile e non costretta in un recinto di noia in PVC armato.
I miei figli mi guardano perplessi. Eccomi, una giovane madre in cattività, sola con la prole da sfamare. È che dobbiamo mangiare, altrimenti non mi presterei a queste porcherie.
No, non è vero, non c’è solo quello.
«People pleaser, ecco cosa sei, Lelly Kelly mia.»
Aveva ragione Dustin. Me lo diceva per stuzzicarmi ma si vedeva che era anche fiero di me, mai una volta che mancassi il bersaglio o che perdessi la palla. Lui no, nello sport era maldestro ma i cuccioli d’uomo lo preferivano perché faceva quel suo richiamo un po’ melodico e una specie di sorriso.
Clap clap di mani e fischietto, il tizio non è contento, l’esecuzione non lo soddisfa. Tutto da capo. Conviene collaborare: di solito occorre loro un estenuante numero di ripetizioni per trarre le somme dell’esperimento, la cosa può durare giorni, mesi a volte, per cui meno comportamenti contraddittori da parte mia, meno tempo nel concludere la faccenda.
Ricomincio, nuoto verso un residuo di vernice blu depositato sul fondo ed emergo dall’acqua tenendolo in bocca. Lo risputo ai piedi dell’umano e infatti lui tira fuori da un’altra borsa un bel merluzzo che pare pure abbastanza fresco, non quella robaccia triste che viene dal porto e che si sente dal sapore che se la passa peggio di noi e mangia solo la loro merda.
«Iii -iii!» Quanto gli piace quando ringrazio.
Se mi vedesse Dustin gli farei pena. Quando eravamo insieme e il pubblico era ammesso ad assistere ci facevano saltare nei cerchi. Vagamentre umiliante, vero, ma almeno era divertente. Mica questa noia didattica. Era uno spettacolo per bambini, se non altro i loro orridi cuccioli urlanti erano innocenti nella loro mancanza di finalità.
Hanno scoperto che capiamo un sacco di cose, che abbiamo un sistema di teoria della mente (duh!) insieme a gerarchie sociali che ci accomunano a loro e questo li fa sentire, quando fa loro comodo, parte della Natura e un tutt’uno con madre Terra, una grande famiglia di mammiferi e quelle menate lì. A tali geniali considerazioni dobbiamo l’arrivo di soggetti con patologie ossessive, veri e propri stalker, come questo nuovo zotico che non è certo tra i più spiacevoli visto che ci tira dell’ottimo pescato.
Per un po’ mi trastullo in acrobazie e piroette subacquee, nuoto avanti riportandogli su la qualunque e indietro a consegnare il bottino ai figli, se non fosse che non ho la pelliccia sarei tale e quale a un retriever. «Iii-iii!»
***
È notte, ogni pertugio dell’odiato rettangolo è stato perlustrato, anche la parete dove c’è ancora la tag che hai inciso scrivendo con un osso di seppia tra i denti: DUSTIN WAS HERE.
Eccola, la tua debolezza. La tua gioia spericolata che non volevi annacquare avendo cautela. Il tuo contagioso bisogno di scalare le marce dell’evoluzione. Ti indicavano le lettere e tu ripetevi la forma con la bocca su un pannello colorato, il tuo naso lasciava un alone a forma di D, a forma di U, fino a formare il nome che loro hanno scelto per te. Eri felice. Hai imparato subito, hai imparato troppo.
Dovrei essere in collera con te, quale padre sarebbe così ingenuo: ti sei consegnato al loro circo e chissà a quale altro sistema di buchi piastrellati, di telecamere a circuito chiuso e di biopsie mensili. Era quasi dolce, lo ammetto, abbandonarsi a quel sonno chimico con la siringa di sonnifero che ancora bruciava sul collo, guardarci negli occhi fino a far sparire i confini dell’una e dell’altro. La prossima volta che il proiettile mi abbatterà l’oblio mi coglierà da sola.
A noi non hai pensato mai? People pleaser, certo, questo sono in confronto a te che hai sempre e solo compiaciuto te stesso.
Ora le luci del centro acquatico si sono spente tutte insieme e come al solito al buio mi manchi da matti.
***
Non sopporto più lo sguardo di May. Nostra figlia ha preso il tuo ottimismo iperbolico.
«Guarda che siamo fortunati, ci sono posti in cui cacciano con l’arpione, tipo in Giappone dove hanno salvato papà, no? Meglio fenomeni da baraccone che bistecche », mi dice se mi becca che fisso nel vuoto dopo la milionesima ronda a caccia di rifiuti da convertire in pesci.
No, vorrei dirle. Meglio morire da liberi. Ma a loro non insegno a desiderare qualcosa di impossibile. La verità è che non sopravviveremmo da soli là fuori, nel grande oceano. Le storie che ci raccontava Dustin di quando era lungo poco più che un salmone, prima che lo prendessero, di calamari grandi come caravelle e viaggi da un mare all’altro, per noi animali domestici, nati qui dentro, solo questo rimangono: storie, favole. In fondo anche il mondo intero può diventare una prigione, questione di prospettiva, e se si può vivere in una palla di vetro allora si può benissimo abitare in una vasca di 850 metri quadrati.
Li percorro tutti in lungo e in largo in cerca di altri detriti, scorie o qualsiasi cosa possa valere come rifiuto per quell’ebete che mi pare risponda al nome di Johnson.
Malvagio non è, lo ammetto, la ricompensa arriva sempre immediata e immutata, non ha ancora cercato di fregarmi e stiamo ingrassando per benino. Orate, sgombri, qualche salmone addirittura.
I miei cuccioli, soprattutto i maschi, diventano ingordi. Il periodo di condivisione è finito, ciò che trovano ora è proprietà privata e questo vale anche per i pesci barattati.
Decido di ricordare loro chi comanda. Siccome presto mi sovrasteranno per stazza mi impongo di usare non i muscoli ma il cervello, visto che tra l’altro è bello oliato e ringalluzzito da tutti i grattacapi che ci propinano i bipedi.
Sul fondo di un angolo della vasca, lato ovest vicino al mosaico di lettere “Marine Mammal Studies, Mississippi” che ora, grazie a Dustin, sono in grado anche io di leggere, c’è un masso dove è piantato un cespuglio di alga Fucus.
Un giorno che trovo una busta di plastica bella capiente, scommetto che ce l’hanno lanciata loro affinché l’esperimento prosegua, la ficco in bocca senza farmi vedere dai figli e vado a incastrarla sotto allo scoglio. È un punto un po’ buio, non si vede quasi niente.
Ogni giorno mi faccio un giro in quella zona, stacco un pezzetto di busta con i denti, la riporto a galla e ottengo pesci. Ma mica frazioni di pesci, che uno si aspetterebbe una testa o un filetto, un brandello di plastica per una porzione minore di cibo, è logico, invece quell’ebete continua a elargire pesci interi e pure grandi e con essi compra da me roba sempre più piccola.
Alla fine per farsi consegnare anche solo un coriandolo di carta maciullata si deve svenare, oggi mi ha lanciato un tonno che per poco non mi atterra con la pinna caudale sul muso.
Adesso sì che Beau e Kennedy mi guardano con la giusta venerazione, non mi facevano un’imprenditrice così scaltra.
Solo May è grande abbastanza da ricordarti, gli altri due non sanno che se fossi ancora con noi, Dustin, avremmo riso fino a farci uscire le bolle dallo sfiatatoio, tu di certo saresti stato al gioco cercando con me frammenti sempre più infinitesimali di spazzatura da vendere a carissimo prezzo. Non fa niente, perché per me è come se fossi sempre qui, faccio finta che tu mi veda scodinzolare a ogni pesce ricevuto e forse davvero mi senti dal posto dove ti hanno messo.
Eri tu, infine, quello troppo intelligente: se ti hanno portato via è stato sicuramente per testarti su altre materie, prove più difficili per super cetacei, lontano da noi famiglia che ti distraiamo. Oppure sono io quella che hanno voluto isolare? Se così fosse non li avrò delusi inventandomi l’inflazione della spazzatura. Ecco come ragiono, niente da fare, people pleaser ero e people pleaser rimango. D’altronde c’è un motivo se non si sono sprecati a ragionare con gli squali, notoriamente intrattabili oltre che fessi.
Dalla mia vasca, questa gabbia liquida, così stretta rispetto a come deve essere il mare e così piena della tua assenza, posso solo continuare a vendere pezzi di rifiuti, finché la bolla non scoppierà facendo cadere il mercato, finché ci sarà domanda, fin quando non dovranno cambiare valuta perché anche l’ultimissimo millimetro di carta sarà stato barattato al prezzo invariato di un pesce.
***
I sub sono ancora qui sotto, è dall’alba che osserviamo le tre mute nere che fluttuano silenziose nell’azzurro, come ciuffi di poseidonia. Hanno già staccato la D e la U da un lato, “HERE” sta venendo giù dall’altro. Picconano il pvc che si scrosta in frammenti madreperlacei che May ha provato ad assaggiare.
Kennedy fa loro scherzi idioti, gli nuota in mezzo velocissimo sbaragliando il loro equilibrio, un paio di volte finiscono a galleggiare gambe all’aria con gli scalpelli in fondo alla vasca. Vorrei che la smettesse, non fa che allungare la loro presenza tra noi. Ogni volta mi scordo di quanto mi facciano impressione, visti da vicino. È come se ogni pezzetto che li compone, lungo e sottile alle estremità, più tozzo al centro, abbia vita propria, le parti si dimenano in contemporanea ma con ritmo diverso, come murene impazzite. Le braccia picconano, le gambe nuotano, gli occhi fissano le lettere da rimuovere.
Ho capito che per loro tutto il mondo è uno specchio. Per questo ci insegnano cose. Solo così ci possono vedere e possono ritrovarsi in noi, in base a quanto siamo simili o dissimili ad essi. Pensano che, siccome è vero per loro, cancellando una scritta, cancellando un concetto, possano rimuoverne l’essenza. Lontano dagli occhi lontano dal cuore.
«Iii-iii.»
Canto la nostra canzone, quella di cui non potranno mai conoscere il testo. Uno dei sub si gira e mi fa ciao con la mano.
Glielo lascio credere, che spostando cose, costruendo buchi, circoscrivendomi in unità di misura basate su astrazioni numeriche, assegnando i loro suoni a ciò che la natura ha già dotato di lingua propria, possano davvero creare e distruggere. Lascio che ancora si specchino in me per ritrovare la loro superiorità, il loro sorriso conquistatore, l’amabile smorfia del colono, mentre dentro, al sicuro nel mio cuore di bestia, tengo intatta la mia libertà di essere Altro.
Kennedy ha rubato loro uno scalpello, appena se ne vanno mi metto all’opera.
Mentre incido le prime lettere l’acqua si fa torpida di polverina bianca.
Quando il sole batte dritto attraverso la vasca ho già bell’e finito: parete nord, da destra a sinistra.
DUSTIN IS HERE
L’autrice
Laura Nicchiarelli è nata a Roma nel 1991, ha brexitato Londra nel 2021 e vive a Milano dove si occupa di gestione di location e di produzione nell’ambito della moda e degli eventi. Finalista del Premio Solinas 2022 per la sceneggiatura di Due come noi, lungometraggio d’animazione, ha coltivato la passione per la scrittura partecipando a corsi di narrativa all’Italian Bookshop of London e alla Holden. I suoi racconti sono pubblicati su Topsy Kretts, Supertramp Club, inutile.rivista, Hook, L’Equivoco, Genius e altre riviste.
Illustrazione di Elisa Borghi
