È più facile immaginare la fine del mondo che la fine delle distopie

[Articolo precedentemente pubblicato su Specularia Dicarta numero due]

Un bel (o brutto, a voi la scelta) giorno la distopia – dopo quasi duecento anni di onorata carriera – ha deciso di diventare un genere a sé; le sue storie, da sempre interlacciate a quel what if che è fondamento della speculative fiction, sono diventate autonome, autoportanti, avulse dal canone; con una mossa di revisionismo retroattivo, ogni società dalle tinte fosche ha trovato il suo padre putativo nel Grande Fratello (o Fratello Maggiore, secondo alcune delle più recenti traduzioni) e la storia della distopia si è accorciata di qualche secolo.

In particolare, questa secessione letteraria ha avuto luogo a cavallo tra il primo e il secondo decennio del nuovo millennio, quando la letteratura young adult ha chiuso con streghe, vampiri, e angeli caduti, abbandonando il mondo del sovrannaturale per avvicinarsi al plausibile delle cautionary tale del nuovo secolo, in cui il lupo cattivo sceglie la strada dell’autocrazia. In effetti, le distopie sono un terreno fertile per sperimentare le ribellioni dell’adolescenza; per sognare, almeno tra le pagine, di spezzare le sbarre di una vita impostata dallə altrə, scandita da ore di scuola, coprifuoco imposti dalle figure genitoriali, regole così insensate da poter essere digerite solo trasformandole in dogmi.

Grazie a questa rinnovata fama, che ha creato nuove società basate sulla disuguaglianza pescando a piene mani dalla demagogia del panem et circenses1 e dalle forme di controllo subdole di Jeremy Bentham2 (prima di andare a rispolverare vecchie glorie sempre attuali), il concetto di distopia si è preso spazio fuori dalla nicchia fantascientifica, travalicando la bolla letteraria, raggiungendo i mass media e, di conseguenza, le masse.

Tutto il mondo è distopia

“Stiamo vivendo in una distopia” è diventato uno di quei ritornelli che sta bene su tutto e che negli ultimi dieci anni ha sostituito i vecchi adagi dellə nostrə nonnə su mezze stagioni e rossi di sera, spazzati via dal cambiamento climatico: le elezioni vengono vinte da un partito che non abbiamo votato? Distopia. Grazie ai mezzi di trasporto ultraveloci di cui disponiamo una persona con una forma particolarmente virulenta di raffreddore viaggia da una parte all’altra del mondo, contagiando sulla sua strada altre persone che a loro volta ne contagiano altre? Distopia. Innovazioni nel campo delle intelligenze artificiali? Distopia. Uso dei social network? Distopia. Persone con le cuffiette nelle orecchie, migrazioni di massa, ipercapitalismo: distopia. Carne sintetica e cibi a base di farina di insetti, auto elettriche, TikTok: distopia. Un po’ come se quest’etichetta venisse ciecamente apposta su ogni aspetto o fenomeno complesso della nostra società che non si hanno gli strumenti per o la voglia di comprendere. Come scrive Brigitte Vassallo3: “conosciamo parole complesse ma non ci assumiamo la complessità di quelle parole” e buttare tutto nel calderone della distopia finisce per trasformare i problemi della  nostra società in narrazioni di cui siamo spettatorə, senza nessuna possibilità di intervento.

Un partito di simpatie destrorse che sale al potere dopo essere stato eletto dallə cittadinə non è distopia, è democrazia; una pandemia non è distopia, è spillover, è antropizzazione coatta della natura. Il fatto che in Italia ci siano più di 200 ospedali con una percentuale di medicə obiettorə di coscienza superiore all’80%4 non è distopia, è un’emergenza medica e una violazione dei diritti delle persone che decidono di terminare una gravidanza.

La peggiore delle distopie possibili

Quello che viene fatto dallə giornalistə che gridano alla distopia è qualcosa di intellettualmente disonesto, nonché il contrario del processo creativo di nascita delle distopie stesse: come scriveva Octavia E. Butler nel 20005: “I didn’t make up the problems. All I did was look around at the problems we’re neglecting now and give them about 30 years to grow into full-fledged disasters.” [Non mi sono inventata i problemi. Quello che ho fatto è stato vedere quali problemi stiamo trascurando in questo momento e dargli circa trent’anni di tempo per diventare dei disastri fatti e finiti.] Ciò che manca nelle narrazioni distopiche del presente, nei commenti da Rivelazione sui social, nella costernazione di chi vuole sentirsi impotente, è la speculazione. È l’interesse ad andare oltre il problema, immaginarne l’evoluzione e – eventualmente – la soluzione. Al ragazzo che le chiede quale possa essere la soluzione a questi problemi, infatti, Butler risponde che non c’è una risposta magica in grado di risolvere tutti i problemi futuri, ma che ce ne sono almeno mille; “You can be one of them if you choose to be.” [Tu puoi essere una di quelle [risposte], se scegli di esserlo] suggerisce poi al suo interlocutore. 

Dimenticando la lezione di Butler e della sua Lauren Olamina6, si è persa la voglia di essere e trovare una soluzione alle distopie del mondo e a un certo punto la distopia è diventata un’estetica. Si è svuotata di significato riempiendo le bocche delle persone. Come il cottagecore e il barbiecore, i grattacieli svettanti e le nubi gonfie di piogge tossiche della versione cinematografica di Blade Runner, a decenni dalle prime proiezioni al cinema, hanno fatto un salto – quasi dello squalo, sicuramente della pecora elettrica – finendo per rappresentare un genere, quello distopico, che nell’immaginario collettivo non ha più niente a che fare con la fantascienza perché – dicono – la distopia è un campanello d’allarme, è un monito dei futuri terribili che potrebbero attenderci (ma soprattutto, la distopia è qui e ora)(mica come quelle robe ambientate nello spazio, che servono solo a farci divertire). La distopia è Cassandra, buona giusto per allarmare e ammonire sugli errori commessi, senza che però le venga mai richiesto di trovare soluzioni auspicabili, di proporre critiche costruttive.

La fata madrina della distopia che raccoglie le brutture del mondo per farci dire che, tutto sommato, potrebbe andarci peggio, è Margaret Atwood: da ormai quasi quarant’anni, in ogni intervista Atwood mette bene in chiaro che nessuna delle violenze e delle pratiche da lei descritte nel suo long-seller Il racconto dell’ancella è stata inventata da lei, ma che sono tutti fatti reali, accaduti da qualche parte nello spazio e nel tempo – per esempio in Iran, nel 1979, ma anche nel 2021 – almeno una volta. Non è forse un caso che gran parte di quei fatti reali siano accaduti sui corpi di donne nere e razzializzate, che hanno percepito il saccheggiamento delle loro esperienze7 da parte di Atwood come l’ennesimo sfruttamento dei loro corpi e del loro dolore. Più che parlare di previsioni per il futuro, verrebbe da pensare che molto, troppo spesso, la distopia di una persona è la realtà di un’altra e che il brivido che la lettura di certe società distopiche permette di provare sia in parte dovuto alla consapevolezza che certe cose succedono, ma non a quellə come noi, non allə privilegiatə.

Dimmi che distopia vuoi e ti dirò chi sei

Proprio questo scollamento tra ciò che potrebbe succedere a noi (ma non è mai successo) e quello che succede allə altrə, questo prosperare delle distopia, trasforma le distopie in un fallimento: nel 2019 l’influencer Kylie Jenner teneva una festa a tema The Handmaid’s tale, con signature cocktail e selfie in costume. “The notion of Kylie” scrive Jennifer Wright8 “treating a dystopia as someplace she might casually visit, party in, and then emerge from unscathed, is jarring.” [L’idea di Kylie che tratta la distopia come un posto da visitare per caso, in cui fare festa per poi uscirne illesa, è inquietante] perché lei, donna ricca e bianca, a Gilead avrebbe occupato il posto di una moglie, non certo di un’ancella come Offred. “Once you start portraying dystopia as cute or sexy, you’re opening the door to a world where repressing women’s reproductive rights is fine; appealing, even.” [Una volta che inizi a rappresentare la distopia come carina o sexy, spalanchi le porte a un mondo in cui reprimere i diritti riproduttivi delle donne è ok, persino invitante] scrive ancora Wright; in generale, nel momento in cui spogli una distopia del suo potere politico, la trasformi in una narrazione ordinaria, la privi della sua capacità di procurare disagio, di generare pensiero, finendo per addomesticare quegli stessi scenari terribili fino a farli diventare innocui; come scrive Francesco Verso nella postfazione all’antologia Solarpunk: Come ho imparato ad amare il futuro9: “aggiornando il vecchio adagio [di William Gibson] per cui «il futuro è già qui solo che non è equamente distribuito», «neppure le distopie sono distribuite in modo molto equo.»” e chi non ne subisce gli effetti negativi è prontə a trasformarne le brutture in farsa; anche questo un livello aggiuntivo di distopia. 

Già nel 2015 la professoressa Ursula K. Heise10 affermava che “Contemporary dystopias, […] aspire to unsettle the status quo, but by failing to outline a persuasive alternative, they end up reconfirming it.” [Le distopie contemporanee aspirano a scuotere lo status quo, ma fallendo nel delineare un’alternativa convincente, finiscono per riconfermarlo] La narrativa speculativa diventa così una reiterazione vuota e stanca dei problemi di questo mondo, amplificati e romanzati.

Utopia unica via

Questa tendenza dell’umanità a pensare la distruzione piuttosto che la rinascita è stata intercettata anche dal Nono Dottore (quello interpretato da Christopher Eccleston) nella prima stagione di Doctor Who (2005): “You lot,” dice alla compagna di viaggio Rose Tyler, alla fine del mondo, “you spend all your time thinking about dying […] but you never take time to imagine the impossible. That maybe you survived.” [Voi gente, impiegate così tanto del vostro tempo a pensare al fatto che morirete, ma non ve ne prendete mai per immaginare l’impossibile. Che magari potreste sopravvivere]. 

Come lə spettatorə del servizio di streaming Streamberry11, che preferiscono contenuti con protagonisti awful anziché awesome per riflettere l’immagine meschina che hanno di loro stessə e dellə altrə, chi legge è più abituato a confrontarsi con cattivi luoghi piuttosto che con i buoni luoghi della più antica utopia, assuefattə ormai a una fantascienza (perché, sì, la distopia resta un sottogenere della fantascienza) che non esercita più le sue doti di speculazione, che non vuole soluzioni, vuole solo lamentarsi.

Distopia e utopia, però, non sono propriamente una il contrario dell’altra, ma due realtà che possono coesistere quantisticamente sovrapposte nello stesso luogo (o non luogo): sia Ursula Le Guin in Utopiyin, Utopiyang12 che Margaret Atwood nel saggio Dire Cartographies: The Road to Ustopia13 riflettono sulla compresenza tra elementi utopici e distopici e su come una visione societaria contenga l’altra, così come lo Yin contiene lo Yang e viceversa. In particolare, Le Guin scrive: “Dopo Utopia – in modo chiaro o ambiguo, effettivo o potenziale, nel giudizio degli scrittori o in quello dei lettori–, ogni utopia è stata allo stesso tempo un posto bello e un posto brutto. Ogni eutopia contiene una distopia, e ogni distopia contiene un’eutopia.” La percezione di cosa renda una società una distopia o un’utopia dipende da classe sociale, colore della pelle, genere; non esiste una distopia totale perché ci sarà sempre chi avrà il potere e chi ne subirà le conseguenze. Nonostante questo, però, continuiamo a immaginare il peggiore dei mondi possibili. Forse come gesto apotropaico, forse per nichilistico pensiero magico, forse perché i nostri gusti in fatto di storie assomigliano sempre più a un algoritmo che premia i contenuti simili, recintando la mente in una comfort zone di narrazioni plausibili che confermano i nostri sospetti e i nostri bias.

Leggere l’utopia è ben più difficile che immergersi in una ennesima distopia: l’utopia sfida i preconcetti, presenta nuove forme di governo (chiedetelo allə cittadinə di Anarres14), deve trovare il conflitto dentro di sé e non nella evil corporation o nella dittatura più o meno soft di turno. Come scrive China Miéville: “Le utopie sono il nuovo test di Rorschach. In esse, come su fogli di carta bianca, riversiamo le nostre idee; poi, sognando, pieghiamo a metà il foglio, per riaprirlo poco dopo e rivelare figure inattese. […] Le nostre utopie sono qualcosa da ammirare, e di cui godere: sono fatte delle nostre preoccupazioni e ci parlano del nostro presente, della versione pre-utopica di noi stessi. Sono da interpretare. Proprio come quelle dei nostri nemici.” È arrivato il momento che le utopie soppiantino le distopie nell’interpretazione della società, che contribuiscano a far sì che la letteratura speculativa smetta di lamentarsi e ricominci a immaginare.

Leggere e scrivere utopie è sfidante, riaccende la complessità, è necessario per stimolare il pensiero critico, è necessario per sopravvivere.

Leggere solo distopie, del resto, è una vera e propria distopia.


L’autrice

Bibliotecaria e strega dei sassi di mare, da dieci anni parla e scrive delle sue ossessioni online e offline. È co-host del podcast dedicato alla letteratura fantastica Reading Wildlife, si fregia di aver battezzato la Creatura di Frankenstein con il nome Sandro e ha appena esordito con il saggio Fantascienza. Storia delle storie del futuro (Armillaria Edizioni) scritto insieme ad Andrea Viscusi.

  1. Suzanne Collins, Hunger Games, Mondadori, Milano, 2009 ↩︎
  2. Jenni Fagan, Panopticon, Carbonio Editore, Milano, 2019 ↩︎
  3. Brigitte Vassallo, Per una rivoluzione degli affetti, effequ, Firenze, 2022 ↩︎
  4. https://www.infodata.ilsole24ore.com/2022/06/16/come-sta-andando-la-194-i-risultati-dellindagine-mai-dati/ ↩︎
  5. Octavia E. Butler, “A Few Rules For Predicting The Future” in Essence Magazine May 2000 ↩︎
  6. “Tu cambi tutto ciò che tocchi.
    Tutto ciò che cambi ti cambia.
    L’unica verità duratura è il cambiamento.
    Dio è cambiamento.”
    Octavia E. Butler, La parabola del seminatore, Fanucci editore, Roma, 2000 ↩︎
  7. In Western fiction, dystopic stories often ask, “What if this atrocity had happened to white people instead?”

    https://www.theverge.com/2017/6/15/15808530/handmaids-tale-hulu-margaret-atwood-black-history-racial-erasure ↩︎
  8. https://www.harpersbazaar.com/culture/politics/a27921894/kylie-jenner-handmaids-tale-party-explained/ ↩︎
  9. Future Fiction, Roma, 2020 ↩︎
  10. https://www.publicbooks.org/whats-the-matter-with-dystopia/ ↩︎
  11. Joan Is Awful, Black Mirror, 2023 ↩︎
  12. Postfazione a Tommaso Moro, Utopia, Timeo, Palermo, 2023 ↩︎
  13. within each utopia, [there is] a concealed dystopia; within each dystopia, a hidden utopia” [all’interno di ogni utopia, si trova una distopia celata, dentro ogni distopia, un’utopia nascosta].
    In Other Worlds, Virago Press, London, 2011 ↩︎
  14. Ursula K. Le Guin, I reietti dell’altro pianeta, Mondadori, Milano, 2014 ↩︎