L’ubermercato

[Racconto vincitore del contest Shrinkflation]

L’avvocato Moretti aveva finito per sviluppare una dipendenza da ricotta. Era stata colpa dei barattolini da cinquecento grammi della Zio Ciro Latticini del banco frigo del quarto piano. La prima volta che ne aveva comprato uno vi aveva scoperto un reale di 565 grammi. La candida superficie tremolante, tanto strabordante da rimanere attaccata al coperchio, aveva scatenato una fatale scarica di endorfine. Ormai Moretti, quando si recava all’ubermercato, andava dritto al quarto piano e comprava sei confezioni di Ricottina dello Zio Ciro solo latte paneuropeo. Poi andava come andava: a volte Moretti trovava solo cinquanta sfortunati grammi, a volte centotrenta, a volte, ancora più sfortunatamente, trecento. Se solo Moretti avesse trovato nei barattolini una sequela di poche decine di grammi, forse l’esaltazione iniziale l’avrebbe finalmente abbandonato. E invece ogni piccola vittoria gli faceva pensare che da qualche parte esistevano confezioni fortunate, straripanti di ricotta, e che un giorno avrebbe fatto di nuovo, come dicono i giovani, jackpot.

Me l’aveva detto la signorina Fagianelli dell’ufficio legale.

“Deve stare attento con le confezioni grandi, Busoni, è psicologico. Più è grande il divario tra peso potenziale e reale, più c’è il rischio di sviluppare oniopatia.” La Fagianelli, seduta di sbieco sulla mia scrivania di truciolato, con le gambe accavallate, aveva sotto il tailleur tutte quelle caratteristiche femminili che mi facevano sentire in colpa nei confronti di mia moglie. “Io per esempio non mangio riso da dodici anni. Quello lo vendono in confezioni da un chilo, capisce? La pasta invece è sicura, soprattutto nelle confezioni da 300 grammi. Alla fine ne trovi sempre almeno un etto, un piatto di pasta te lo riesci a fare. È psicologico, le dico, il nostro cervello non è più contento di trovare trecento grammi invece che cento. Ma se trovi un chilo intero… diventi oniopatico prima di rendertene conto.”

Io adoravo il risotto e me ne vergognai. “Sì, poi si sa che i fusilli sono peggio delle farfalle, a parità di peso rendono meno.” dissi.

“E non mi parli delle mozzarelle!” continuò la Fagianelli, ignorando misericordiosamente la mia osservazione. “Io per me mangerei solo mozzarella, ma non è accettabile che a volte apro la confezione e trovo solo una ciliegina. No no, la mia salute mentale ha la precedenza.” La Fagianelli mi guardò: il trucco intorno ai suoi occhi mi scavava nell’anima. “Busoni, lei è mai stato al ventitreesimo piano dell’ubermercato?”

Scossi la testa più vigorosamente di quanto fosse normale o consono scuotere.

“Ho sempre sognato d’andarci.” disse lei.

“E perché non ci va allora?”

“Ma che domanda sciocchina, Busoni! Lei è uno sciocchino, lo sa?”

Provai piacere nel sentirmelo dire.

“Mi ascolti,” continuò lei, “per salire i piani dell’ubermercato ci sono vari metodi. L’ascensore arriva fino al dodicesimo piano, ma dopo ci sono solo le scale mobili. Con quelle si può arrivare più in alto, fino al diciottesimo. Da lì bisogna usare le scale antincendio, che sono molto scomode. Per questo solo in pochi sono riusciti ad arrivare al ventesimo. Per non parlare del ventitreesimo.”

In effetti io non ero nemmeno mai stato sopra il decimo, dove c’erano i ravioli robiola e mostarda che tanto piacevano a mia moglie. “Ma quanti piani ci sono in totale?” chiesi.

“Nessuno lo sa davvero. So già cosa sta pensando: basterebbe contare le finestre per capirlo, oppure fare una stima basandosi sull’altezza dell’edificio.”

Non lo stavo pensando.

“Ma dal ventesimo non ci sono più finestre.” continuò la Fagianelli. “E come se non bastasse, il soffitto del ventesimo è più basso di quello dei primi piani, e dicono che dal ventunesimo continui ad abbassarsi, rendendo impossibile una stima.”

“Si potrebbe semplicemente andare e vedere…”

“Ecco! Ecco una buona idea, finalmente! Pensi, io ci voglio andare da anni, ma non trovo mai nessuno che mi accompagni. Che poi è davvero un mistero… A cosa servono dei piani a cui è difficile andare?”

“Signorina Fagianelli…” dissi, senza riuscire a superare la dozzina di decibel.

“Ma in fondo è proprio il principio del design dell’ubermercato: le merci più economiche vengono messe negli scaffali più bassi, più difficili da raggiungere. Quindi chissà, forse nei piani inesplorati si trovano merci ancora più economiche.”

“Signorina Fagianelli!” strillai, imporporandomi tutto. “Andiamoci oggi! Dopo il lavoro!”

Il suo rossetto si curvò in una o stupita. Intrigata.

“Ma Busoni, che sfrontato! E che bella idea.”

***

L’ubermercato ci accolse mitologico come la scala di Giacobbe, un grigio monolite di duecento e rotti metri che dominava la distesa d’asfalto del parcheggio.

Smontammo da un minibus navetta stipato di altri impiegati, pronti per la loro frettolosa spesa serale. Non eravamo riusciti a trovare un parcheggio più vicino.

“Ce la faremo ad arrivare al ventitreesimo prima della chiusura?” chiesi.

“Ma sì, ma sì, Busoni! Non mi faccia subito il vigliaccone, che non siamo neanche entrati.”

Entrammo. Le porte scorrevoli si chiusero alle nostre spalle, intrappolandoci nell’atmosfera di disinfettante e aria condizionata dell’edificio. Davanti a noi si trovava la prima corsia, popolata da una folla di completi e tailleur impiegatizi e dalle divise rosse e gialle dei commessi. Da bambino mi avevano detto che il suono viaggia a 300 metri al secondo, e una volta avevo visto una signora che faceva cadere un grosso barattolo di cetriolini dall’altra parte della corsia, e avevo sentito il patatrac almeno un secondo dopo.

Alla destra della prima corsia c’era la seconda, poi la terza, fino alla decima dall’altra parte dell’edificio. Le scatole allineate sugli scaffali formavano prima un esplosivo mosaico di colori complementari e poi, man mano che lo sguardo si perdeva nella distanza della corsia, un brusio daltonico.

Eravamo nel reparto frutta e verdura: piramidi di nespole e banane di cera sormontavano gli espositori delle confezioni, scatole di cartone colorato con in sovrimpressione la foto di un singolo frutto perfetto.

I cuore di bue erano in offerta al ventidue percento di reale minimo garantito. Gongolando, andai nella loro direzione.

“Ma Busoni, che mi fa? La spesa?” chiese la signorina Fagianelli.

“Non sono mai in offerta, i miei pomodori preferiti! Oh, che gioia!”

“Ma li lasci lì, al massimo ne prende una confezione quando scendiamo. Proprio lei che aveva paura che non avessimo abbastanza tempo.”

Presi una confezione di pomodori e la soppesai, cercando di capire quanto reale contenesse.

“Ma la sta pesando?” ripeté lei.

“Si capisce, perché?”

“Ma allora è proprio uno sprovveduto, lei! Non lo sa che le confezioni le riempiono di perfluorobutano? Ha 11 volte il peso dell’aria, è impossibile capire il peso reale di una confezione. Metta giù!”

Riappoggiai la confezione a orecchie basse. Ero mortificato, nella mia carriera ventennale di soppesatore di scatole dell’ubermercato non ne avevo mai sentito parlare.

“Venga, andiamo all’ascensore.” disse la Fagianelli, dandomi già le spalle.

Passammo accanto a un ricco espositore di mozzarelle Zio Ciro. Le scatole (bianche con una singola mozzarella disegnata sopra) erano sormontate da una gigantografia del muso abbronzato e sornione di Zio Ciro in persona.

“Che invitanti…” dissi, immaginandomi una bella caprese con i miei amati cuore di bue.

“Le lasci stare, troppa fluttuazione di reale.” disse la Fagianelli.

Andammo oltre.

Entrammo soli nell’ascensore, e mentre le porte si richiudevano venni assalito da una domanda. “Signorina, ma perché a lei interessa proprio il ventitreesimo piano?”

“Il commendator Rusconi è stato al ventiduesimo. Me l’ha raccontato… una sera.”

Quel una sera era pregno di proibiti significati. Ingoiai l’invidia e chiesi: “E cos’ha visto?”

“Nulla di anomalo, a dire il vero. Dato che non ci sono finestre è tutto più buio. La cosa più strana, forse, sono gli sconti. Ce ne sono al trenta, anche al quaranta per cento.”

“Possibile? Ma allora perché non ci va più gente?”

“Oh che noiosone, Busoni! Gliel’ho già detto stamattina, oltre il diciottesimo ci sono solo le scale. Nessuno vuol fare le scale!”

Le porte dell’ascensore si riaprirono.

Il dodicesimo piano ci accolse come una gelida bora: surgelati.

“Le scale mobili sono dall’altra parte.” disse la signorina Fagianelli, non meno fredda.

Oltrepassammo la doppia muraglia di fettine panate, bastoncini di merluzzo e pisellini primavera.

Le scale mobili erano piatte, in modo da poterci salire con i carrelli. Salivano lentamente, con un’inclinazione che mi parve deliberatamente insufficiente a raggiungere il piano superiore.

“Non le avevo mai prese. Non le pare che siano un po’ troppo lente?” chiesi.

“Rusconi mi ha detto che lo fanno apposta per scoraggiare a salire. Che tipo sagace quel Rusconi.”

“Eh, sì, veramente, un fenomeno!” dissi io, odiandomi.

Salire sei piani di scale mobili prese molto più tempo del previsto. Arrivati al quattordicesimo, ci decidemmo a farle camminando. Arrivati al diciassettesimo, ero una spugna di sudore.

“Ma lo sa che lei non ha un bel colorito, Busoni? Dovrebbe fare più sport! Le posso dare l’indirizzo del mio istruttore di pilates.”

Risposi con un suono che ero certo fosse stato pronunciato prima solo da qualche impiccato.

I piani, più salivamo, più diventavano trascurati. Pareva addirittura che fossero gestiti con altre regole logistiche ed estetiche. I prodotti, sempre inscatolati in confezioni opache (e a quanto pare piene di gas dal nome complicato), erano posizionati sugli scaffali direttamente nei bancali di cartone con cui erano stati comprati dal produttore. Erano marroncini e grigiastri. L’infinito orizzonte delle corsie non sembrava più un mosaico, ma un televisore a tubo catodico scollegato dall’antenna.

Arrivati a metà scala mobile, potevo vedere dall’alto la distesa di corsie, di esseri umani affaccendati tra esse, tutti intenti a riempire carrelli e a soppesare (ora lo sapevo, inutilmente) le confezioni.

Trovammo l’accesso alla scala antincendio al diciottesimo piano, alla fine del reparto di una merendina che non avevo mai visto, i Sofficioni di Casal Pustrango, che parevano promettere ripieni di latte condensato e aromi di lievito chimico.

Le scale erano un incubo escheriano, dalla tromba le si vedeva arrotolarsi in su e in giù. Provai a contare le loro spire in alto, in modo da capire quanti piani ci fossero in quello ziggurat dello shopping, ma arrivato a ventisei sentii la nausea assalirmi, e una vertigine mi fece barcollare sugli scalini.

“Magari vuole controllare anche il diciannovesimo e il ventesimo piano? Oppure andiamo direttamente al ventitreesimo?” chiesi alla signorina Fagianelli, e subito mi tappai la bocca per non fare uscire anche un conato di vomito.

“Andiamo al ventiduesimo. Voglio vedere se Rusconi diceva la verità.”

La diceva. Il ventiduesimo piano era avvolto nella penombra, la luce veniva da lunghe strisce di neon, abbastanza distanziate da creare delle nicchie di oscurità tra gli scaffali. Ci inoltrammo poco, per non perdere di vista le scale antincendio.

“Nulla di straordinario, mi pare. Come sosteneva lei.” dissi, raccogliendo da uno scaffale un pacchetto di noccioline. “Però Rusconi aveva ragione. Che sconti! Questo è al venticinque per cento, questo al quaranta, questo…” avvicinai un barattolo di fagioli ai miei occhi miopi. La loro etichetta del prezzo riportava due cifre. Una barrata, e una più grande, scritta in rosso.

“Non è uno sconto normale… La percentuale non è la quantità minima garantita di prodotto, è il valore di quanto il prezzo è stato abbassato.”

“Cosa? Che assurdità! Lei sragiona, Busoni.”

“Ma no, guardi lei stessa! Il prezzo originale sarebbe quattro Paneuro, quello scontato tre. Uno sconto del 25 percento, un quarto!”

“Bah, inizio a capire perché nessuno viene a questo piano, che modo complicato di fare gli sconti! Andiamocene anche noi, non vedo l’ora di dire a Rusconi che sono salita più in alto di lui.”

Il ventitreesimo piano si rivelò una copia quasi esatta del ventiduesimo.

“Dobbiamo andare più su.” disse la signorina e, senza essere nemmeno uscita dalla tromba delle scale, salì.

I piani fino al trentesimo restarono molto simili tra di loro, ma confermarono una delle supposizioni della signorina Fagianelli: il soffitto diventava sempre più basso. Il ventottesimo ci costrinse a chinare il capo, era alto solamente un metro e mezzo.

“Che scomodità. Forse è per questo che i piani superiori non sono molto popolari.”

Mentre parlavo, vidi un’ombra sgattaiolare tra la luce e la tenebra della corsia. Una gamba pallida e nuda balenò nel neon e subito scomparve. Io e la signorina ci guardammo negli occhi e, senza dire altro, girammo i tacchi e salimmo.

Trentesimo piano. Il soffitto era alto non più di un metro.

“Il trentesimo lo dobbiamo esplorare per forza. È un numero simbolico, no? Rusconi morirà d’invidia. Vada avanti lei, Busoni.”

Gattonammo una cinquantina di metri nella prima corsia. Ora le luci venivano non dal soffitto, ma da alcune sottili fessure nelle pareti, e la penombra era ancora più impenetrabile. Ma a parte le surreali dimensioni di quel luogo, nulla era fuori posto. Le bassissime corsie erano identiche a quelle dei piani precedenti, anche se sugli scaffali c’erano solo un paio di ripiani, più un terzo a livello del pavimento.

Raccolsi una confezione di pasta La mondina. “Una confezione normalissima, non ho mai visto la marca ma… mi aspettavo qualcosa di più…” prima che avessi il tempo di dire sorprendente, girai la confezione. Mi sentii mancare: il cartone ospitava una finestrella trasparente. Si poteva vedere la pasta al suo interno. Era piena.

“Signorina Fagianelli.” pigolai. “Signorina Fagianelli!”

“E basta chiamarmi così, che mi sembra il mio commercialista! Che c’è?”

“La confezione è piena. È piena!”

“Ma non dica fesserie… oh Maria Vergine!”

Il suo stupore mi confermò che non ero impazzito. Dietro la finestrella di plastica trasparente giaceva un ordinato fascio di bucatini trafilati al bronzo, belli come un campo di grano.

“Ma non è possibile, che senso ha mostrare il contenuto di una confezione?” chiese la Fagianelli.

“Può darsi che…” spremetti il cervello, per cavarne fuori una parola letta molto tempo prima su un testo universitario, “Che siano uno SNAV?”

“I sistemi di vendita non aleatori sono una favola da complottisti! Cosa succederebbe all’economia se venissero implementati? L’ubermercato non avrebbe più margini.”

“Beh, non per forza…”

“Oh, che noioso che è lei! Non mi insegni l’economia.”

“Ma non si tratta nemmeno di economia, solo di semplice aritmetica. Alla fine lo SNAV è possibile, basterebbe che, invece che mettere porzioni casuali all’interno delle confezioni, se ne mettesse una dose standard, adattando il prezzo all’inflazione…”

“E chi li comprerebbe i suoi SNAV, con un prezzo che cambia da un giorno all’altro? Perché i consumatori dovrebbero subire le conseguenze dell’inflazione? Sarebbe ingiusto.”

“A onor del vero, è ingiusto anche il sistema della lotteria del peso, alcuni consumatori sono destinati a trovare poco reale nella confezione.”

“Solo alcuni.” disse secca. “Meglio che soffrano solo alcuni piuttosto che tutti. Mi faccia vedere quella scatola, probabilmente ne ha presa una con un peso reale del cento per cento, ma le altre potrebbero essere semivuote per quello che ne sappiamo.”

“Ma allora perché hanno messo quella finestrella per guardarci dentro?” pronunciai quella domanda ingoiando ogni parola come una pillola amara. Non volevo contraddirla, conoscevo il suo carattere, sapevo che si sarebbe arrabbiata.

Si arrabbiò. “Ma dia qua, cretinetti! Mi faccia vedere! Dia qua!” strillò. Agguantò la scatola di pasta. Me la strappò di mano prima che mi rendessi conto che il mio pollice era ancora appoggiato sulla finestrella, e che ora ci stava affondando. La scatola si strappò in due, rovesciando sul pavimento un tintinnante shangai di pasta lunga.

Restammo in silenzio.

“E ora che si fa? Scendiamo a chiamare un commesso?” proposi con un filo di voce.

Sentimmo dei passi provenire dall’oscurità della corsia. Più che passi, era un ovattato zampettare animale. I nostri colli tremanti si voltarono nella direzione del suono. Dalla penombra spuntò una testa, poi un corpo, fasciato dalla divisa gialla e rossa. La sua pelle cadente avvolgeva arti ossuti e albini. Dal lontano fondo delle sue orbite, occhi gialli ci scrutarono.

“Oh, abbiamo rotto una scatola ssssì? Che disastro, ma ora puliamo, puliamo tutto noi, sssssì?” Il commesso deambulava sulle braccia e sulle gambe con esperta mobilità aracnide. Tirò fuori dal buio paletta e scopino, e iniziò a rimuovere i bucatini. Mentre lo faceva emetteva dei brevi sibili ritmati, come se fischiettasse ma il fischietto si fosse rotto.

“Ci scusi…” balbettai io. “Li pagheremo, prometto.”

“Oh, ma cosa dice, non c’è nessuno problema sssì?” L’essere concluse la pulizia. “Sapeste quante ne buttiamo via ogni giorno ssssì? Nessuno viene mai al nostro piano. Nessssssssssuno.”

***

Il soffitto del trentunesimo piano era alto tre metri. Non c’erano corsie, solo un piedistallo con una confezione di rigatoni Multigrano Tristarelli Serie Premium. Costava otto milioni di Paneuro.

Al trentaduesimo piano tutti i prodotti erano venduti sfusi in profonde vasche dotate di palette di plastica, e i commessi assicuravano che si poteva pagare con qualsiasi cifra si ritenesse necessario. Ma quando mettemmo mano al portafoglio e tirammo fuori le banconote, ci guardarono con occhi colmi di disprezzo. Così non comprammo nulla.

Il trentatreesimo piano era occupato per intero da recinti di pecore. Erano state colorate dei tre colori primari, e un ascensore (da dove veniva?) faceva entrare greggi e pastori, che si scambiavano tra loro gli animali, così che si vedeva entrare un gregge di pecore rosse e uscirne uno per un terzo rosso, per un terzo verde e per un terzo blu. C’erano diversi commessi dell’ubermercato che supervisionavano le transazioni, e trattenevano per sé ogni volta diverse pecore come commissione.

Io e la signorina sgranammo decine di piani, a volte fermandoci a volte procedendo oltre, e credo che l’ultimo che visitammo fu il cinquantesimo.

Non aveva corsie. Era una cattedrale di banchi e isole frigo. Attraversammo cumuli di mozzarelle, burrate, vaschette di stracciatella, ricotte, zizzone di Battipaglia e ogni altro genere di latticino. Ognuna di quelle voluttuose forme bianche era racchiusa in involucri trasparenti. Potevamo vedere il contenuto di ogni confezione, e non c’era una sola etichetta a comunicarne il prezzo. Con la coda dell’occhio, vidi la Fagianelli mordersi il rossetto. La mia nuca era tutta un rivolo di sudore freddo.

Una musica ci attirò all’angolo opposto del salone: un vecchio giradischi suonava una canzone di Roberto Murolo accanto a un tavolo di legno, dove un uomo dal volto conosciuto stava stendendo una notevole sfera di impasto bianco. Alle sue spalle ardeva un forno da pizza.

“E vuje comme site arrivati cca’?” ci chiese Zio Ciro.

“Ci scusi… siamo solo di passaggio…” dissi io.

“Ma nun dì strunzate! Che v’ serve?” disse Zio Ciro. Si alzò dall’impasto, afferrò uno straccio e si pulì le mani. Il suo sguardo esigeva risposte.

“Come possiamo comprare le mozzarelle?” disse la signorina Fagianelli. La sua voce era una fuga suonata sulla corda di un violino scordato. La vedevo tutta tesa, cogli occhi lucidi, tremolanti di tensione.

Zio Ciro ghignò. “Guagliù, ‘e mie mozzarelle nun se comprano. Le putite piglià.”

Trasecolai. “Come pigliare? Così? Gratis?”

Zio Ciro rise. “E-e-eh, che v’aggia dì, gratis, nun gratis…. Si ‘e vulite piglià… beh…” abbassò lo sguardo, come ad aspettare che completassimo noi la frase.

Ma noi non sapevamo come completarla, e tacemmo.

“V’aggia chiava’.” disse Zio Ciro. Fece spallucce.

Rimasi a lungo senza rispondere, domandandomi dozzine di volte se avessi capito bene. “Ma le pare che faremmo una cosa del genere per della mozzarella?”

Zio Ciro non rispose. Abbassato lo sguardo, riprese a impastare.

Io e la signorina Fagianelli ci guardammo negli occhi.

***

Ormai a quell’ora l’ubermercato era chiuso, dormimmo in mezzo alle pecore del trentunesimo piano fino al mattino successivo. Mi risvegliai solo.

Una volta sceso, comprai otto scatole di pomodori cuori di bue. Ne avrei avuto bisogno, con tutta quella mozzarella.


L’autore


Pietro Erzegovesi è nato a Milano nel 1988. Ha pubblicato per Delos Digital i romanzi brevi La ragazza germoglio e Lignano Samurai, e la raccolta di racconti fantastici Libro degli inferni e dei trifogli. Vive a Venezia insieme a numerose creature acquatiche.

Illustrazione di Benedetta Baroni