“You have this minute where you’re watching the fire, and you’re thinking: ‘If i don’t do anything this place will burn down, and my anxiety will go away with it’”.
“And then you put the fire out”.
“Then you put the fire out”.
The Bear, 5×01, “Sheridan”
L’odore umido e persistente della cena (cavolfiori bolliti e filetti di platessa) colpì Riccardo quando uscì dal bagno. Non l’aveva percepito sul serio, durante il pasto, occupato com’era ad ascoltare Roberta che lo martellava con i dettagli della sua giornata e a impedire allo stesso tempo che la bambina finisse per rovesciare il suo piattino di gomma sul pavimento. Ora però l’aroma saltava in maniera indiscriminata e folle da un elemento dell’appartamento a un altro come in una possessione di massa. Lo sentiva ovunque e su qualunque cosa, lo circondava come il corpo muscoloso e viscido di un boa, minacciando uno stritolamento finale quasi liberatorio che però non sarebbe mai arrivato.
Roberta aveva portato la bimba in camera da qualche minuto. La sentiva canticchiare il ritornello di Mia dolce rivoluzionaria dei Modena City Ramblers sopra la cantilena di piccoli mugugni soffocati dal ciuccio che nel corso degli ultimi diciotto mesi avevano entrambi imparato a conoscere come gli spasmi che annunciavano la nanna. Accoglievano sempre quei mormorii come il segno che quella singola giornata stesse terminando.
Riccardo finì di rispondere al messaggio Whatasapp del caporedattore che gli chiedeva di presenziare all’ennesima conferenza stampa fuori orario e abbandonò il cellulare sul mobiletto di legno nell’ingresso. Si mosse nel corridoio cercando di fare meno rumore possibile, un fantasma in pigiama e ciabatte annunciato dal clangore inquietante di un’unica catena: la cronica e persistente sensazione di stanchezza.
Entrò in soggiorno. Era un disastro, occupato dalle macerie che come al solito si accumulavano nonostante le poche ore che ogni giorno riuscivano a passare tutti e tre insieme. Oltre agli inevitabili resti della cena che occupavano il tavolo, sul finto parquet era sparso alla rinfusa l’intero contenuto del baule di vimini che ospitava i giocattoli preferiti dalla bambina.
Iniziò proprio da questi, inserendoli di nuovo nel baule mettendo in fondo quelli che la bambina aveva cominciato a usare di meno, e più in alto quelli che sembrava preferire, ben sapendo che quell’equilibrio (come molti altri) avrebbe avuto vita molto breve. Liberò il tavolo, svuotò la lavastoviglie ancora piena dalla mattina e la caricò nuovamente, poi sbatté la tovaglia sul balcone della cucina per liberarla dalle briciole di pane. Infine, si spostò nella cameretta della bambina per mettere in ordine anche quella.
La stanza viveva in uno strano limbo che guardava con speranza al futuro prossimo della piccola, quando avrebbe cominciato finalmente a dormirci. Da mesi però veniva utilizzata soltanto per cambiare i pannolini e si era presto trasformata in un magazzino dedicato a tutto ciò che avesse a che fare con la bambina e non fosse immediatamente utilizzabile. La situazione parve comunque a Riccardo molto meno complicata. Il cavallino a dondolo di seconda mano in un angolo, la piccola libreria poco lontana, la borsa cilindrica con i peluche. Tra i mobili formato mignon e le pareti color pesca, che sotto la luce del lampadario homemade sembravano ocra, quasi tutto era al proprio posto.
L’unico elemento stonato era un pannello montessoriano steso sul tappeto di peluche a forma di orsetto. Si trattava di una spessa plancia di legno apribile a libro e pitturata di vernice nera. Non era particolarmente stabile, la bambina se l’era già fatta cadere addosso un paio di volte, motivo per cui era stata rimossa dal soggiorno. Ospitava diversi piccoli giochi, costituiti da oggetti recuperati di seconda mano e appiccicati con velcro e colla a caldo. Tra questi l’oggetto che più colpiva Riccardo era un vecchio telefono bianco della SIP con i tasti di plastica nera sopra un inserto grigio chiaro. Non era sgargiante o carino o rumoroso come gli altri elementi ma gli ricordava sua nonna, che ancora ne aveva in casa uno identico, vicino a una grossa agenda ingiallita piena di numeri di telefono e una Bic blu.
Si mise in ginocchio sopra il pannello e afferrò la cornetta del telefono, rigirandosela tra le dita per un po’ invece di riporla al proprio posto. Da dentro arrivava il suono basso di una chiamata in attesa. Poi, una singola parola. «Pronto?»
Riccardo non disse nulla.
C’era qualcosa di familiare in quella voce. Anche troppo, e in una maniera non del tutto confortevole.
«Ti prego, non dirmi che ora parte l’ennesimo messaggio preregistrato. Quante volte ve lo devo dire che sono nel registro delle opposizioni?» chiese lo sconosciuto al telefono.
Riccardo realizzò quella strana sensazione. La voce era identica alla sua. «Chi sei?» chiese.
Questa volta fu l’altro a rimanere in silenzio per un po’. «Perché hai la mia voce?»
«Perché sono… te?» rispose lui quasi sussurrando, con le parole che gli si catapultavano fuori dalla gola senza che potesse fermarle, esatte e assurde.
«È uno scherzo».
«È quel che ho pensato subito anche io. Quindi dev’essere reale. Sei Riccardo, giusto?»
«Sì».
«Anche io».
«Anche tu ti chiami Riccardo?»
«Oh, dai! Anche io sono Riccardo. Riccardo Mattei, ho trent’anni e la mia compagna si chiama Roberta. Ci siamo conosciuti quindici anni fa a un campeggio della parrocchia a cui io nemmeno volevo partecipare. Stiamo insieme da undici e abbiamo una bimba di due».
Di nuovo silenzio. Poi una risatina, e l’altro riprese: «Sei andato bene fino alla fine. Noi non abbiamo una bambina, non ancora almeno. Roberta è al terzo mese di gravidanza».
Riccardo iniziò a picchiettarsi la fronte con il palmo della mano. Era stanco, più del normale. Nient’altro.
«Come hai fatto a chiamarmi?» chiese l’altro mentre lui pensava alla possibile definizione da dare a quell’esperienza.
«Non ne ho idea! Ho solo alzato la cornetta… non ho nemmeno digitato il numero».
«Hai alzato la cornetta da dove?»
«Da un pannello montessoriano. Uno dei giochi di mia… nostra figlia. Piuttosto, come hai risposto a una chiamata che non ho mai fatto?»
«Ero al cellulare, quand’è arrivata. Rispondo sempre ai numeri sconosciuti».
Riccardo annuì, perché era vero. Ed era anche uno dei lati negativi dell’essere un giornalista: la sua rubrica telefonica mancava di una gran quantità di soggetti che in qualche maniera possedevano invece il suo numero, per cui ogni chiamata poteva essere importante.
«Ehi! Ci sei ancora?»
C’era una nota disperata in quella domanda, come se il sé più giovane fosse preoccupato dal dover concludere quella conversazione impossibile. Lo stesso Riccardo si rese conto di temere l’eventualità.
«Sto impazzendo?» domandò a bassa voce.
«Spero davvero di no, tutto considerato».
Ci misero qualche secondo, ma si trovarono tutti e due a ridacchiare, Riccardo sottovoce per non disturbare Roberta e l’altro con la risata squillante che lui ricordava essere stata sua, in passato. «Così sapresti quando, come e perché arriveresti a perdere la brocca! Non è da tutti».
«Da segnare sull’agenda: Oggi avrai una chiamata telefonica impossibile con il te stesso del passato e, finalmente, impazzirai!»
«Aspetta, aspetta. Duemilaventi, giusto?»
«Esatto».
Riccardo impiegò qualche attimo, e uno sforzo di concentrazione considerevole, per fare appello alla sua memoria. «Quindi, come agenda, hai quell’orribile quadernetto rilegato color verde speranza. Quello con la frase di Mark Twain sulla copertina, giusto?»
«Orribile mi sembra esagerato!»
«Dai, ammettilo: ti fa schifo. L’unico pregio che ha è che te l’hanno regalato come parte di un kit stampa!»
«Beh, meglio di niente…»
«L’anno prossimo andrà meglio, vedrai. Non so se posso dirti altro, però. Che regole fisiche seguono le chiamate inter-temporali?».
L’altro Riccardo ridacchiò. «Non ne ho idea, meglio non rischiare. Dimmi solo questo: riuscirò ad andare a comprarla prima della fine di gennaio o mi ridurrò ancora a dimenticare gli appuntamenti delle prime tre settimane dell’anno?»
«Secondo te?»
Risero di nuovo, questa volta entrambi e assieme, e quasi con lo stesso tono di voce.
«Come te la passi?» chiese poi il Riccardo del passato «Tu, dico. Non voi».
Lui fece per rispondere con un ‘bene!’ o il leggermente più articolato ‘tutto nella norma’, come aveva sempre fatto in qualunque altro contesto sociale da quando lui e Roberta erano stati catapultati in quella strana, nuova dimensione. Ma poi si rese conto che non avrebbe avuto senso farlo: come, a parti inverse, con il discorso dell’agenda, se c’era una persona a cui avrebbe preferito non mentire era proprio se stesso.
«Va così male?» continuò l’altro dopo un po’.
«No. Sì. Non lo so» rispose. «Alle volte vorrei solo che, oltre la bambina, ci potesse davvero essere altro di ugualmente importante. Capisci?»
«No».
E come avrebbe potuto? Riccardo sapeva che l’altro non sapeva, ma soprattutto che non avrebbe mai saputo finché non fosse stato troppo tardi. Un genitore era sempre in ritardo, in affanno continuo come il personaggio di una fiaba di Carroll.
Dalla camera da letto proruppe un urletto infastidito e Riccardo percepì la voce sussurrata di Roberta ricominciare a canticchiare.
«Ci sono, eh. Scusa se sentirai qualcosa».
Attese una risposta per qualche secondo. Poi si accorse che dall’altro lato della cornetta non proveniva più alcun rumore. Chiamò il suo stesso nome, diverse volte. Niente da fare. Il vecchio telefono era tornato vuoto e non c’era più nessuno con cui parlare, ora.
Riagganciò la cornetta premendo sui pezzi di velcro appiccicati al corpo del vecchio telefono per impedirgli di cadere. Poi afferrò il pannello dai due lati, lo mise in verticale e lo richiuse, appoggiandolo contro il muro in un angolo libero della stanza.
Pensò che gli sarebbe piaciuto parlare ancora con il sé stesso del passato come con un vecchio amico del Liceo incontrato di nuovo dopo anni. I ricordi di com’era la sua vita due anni prima erano distanti e appannati come quelli del primo cartone animato che aveva visto al cinema,il Tarzan del 1999. Sapeva ricostruire quel che era successo, la trama della pellicola per sommi capi ma alla maggior parte degli avvenimenti (tranne qualche viaggio, alcuni momenti con Roberta e una manciata di serate con gli amici) non sarebbe riuscito a collegare un preciso stato d’animo. Gli mancava, saper dare un colore a quel che era stata la sua vita prima della nascita della bambina.
Fece per uscire, spense il lampadario mentre era ancora sulla soglia della cameretta, con soltanto un piede nel corridoio. L’udito teso al massimo, cercò di capire se la crisi in camera da letto fosse stata sventata o se invece Roberta avesse bisogno di una mano. L’oscurità del corridoio venne bucata dall’accendersi di uno schermo rettangolare e da un basso suono vibrato di plastica su legno: La fonte era il cellulare, ancora sul mobile dell’entrata.
Si precipitò per evitare che lo squillo gettasse ulteriore scompiglio nell’universo parallelo oltre la porta: sullo schermo campeggiava una chiamata proveniente da un numero sconosciuto. Riattaccò senza pensarci, chiedendosi chi potesse pensare di chiamarlo a quell’ora di sera. Ma poi capì che non era più quello, il punto.
Con gli occhi ormai abituati al buio Riccardo si fece avanti nel corridoio e percorse il breve spazio che lo separava dalla porta della camera da letto. La stanza, enorme per gli standard di un alloggio condominiale, era immersa nella penombra rischiarata unicamente dalla lampada sul comodino di Roberta. Lei camminava intorno al letto matrimoniale con in braccio il corpicino della bambina stretto nel pigiama dal quale provenivano piccoli suoni catarrosi. Dava la schiena alla porta e mormorava una cantilena a voce talmente bassa da renderla irriconoscibile.
Era arrivato tardi per poter dare una mano in modo concreto. Ma era arrivato, pensò, e questo doveva significare qualcosa.
Simone Giraudi è un giornalista e vive a Peveragno (CN). Ha frequentato sceneggiatura alla Scuola Internazionale di Comics di Torino e nl 2017, con Leucotea Edizioni, pubblicato il romanzo Tatuaggi Color Pelle. Suoi racconti si possono trovare nelle raccolte Prisma e HUMAN/ (Moscabianca edizioni) e sulle riviste Spore, Salmace, Blam, Quaerere, Enne2Rivista, Super Tramps Club, L’Equivoco, Wertheimer e Altri Animali, come anche sulla pagina Instagram Scartafaccio. Un suo racconto è menzione speciale nel concorso ‘Da un’illustrazione a una storia’, realizzato da Blam assieme ad Antonio Pronostico. Nel corso del 2023 ha pubblicato, a puntate e su Spore, il romanzo Sanguinare Polvere.
Illustrazione di Carlotta Contino
